Del selfie

È un fenomeno di gran moda, anche se risuona d’antico: il selfie, ovvero questa balzana idea di fotografarsi o filmarsi ossessivamente, per poi inserire le immagini risultanti, attraverso piattaforme come Instagram ad esempio, nei circuiti dei Social Network. Nel flusso infinito di informazioni che possiamo così apprendere, passiamo da immagini di vita privata (dal mangiare al fare la pipì, etc.) a momenti di eccesso esibizionistico (dalle acrobazie su un grattacielo al decapitare a morsi un pollo vivo mentre annaspa e sbatte le ali): sono in gioco in pratica due piani differenti, e cioè quello di un privato che tende a divenir pubblico in uno spazio di condivisione tra “amici”, e quello di una “pubblicazione” che in fondo ricerca una qualche identità proprio all’interno di un contesto collettivo e, quindi, che vuole conseguire più o meno spregiudicatamente un certo ri-conoscimento da parte dell’Altro.

Emergono indubbiamente delle debolezze interiori e una certa crisi della nostra società: in un mondo postmoderno caratterizzato dall’eccesso delle informazioni e dalla “liquidità” dei rapporti umani, si ricercano nuove forme di affermazione del soggetto che, proprio nella misura in cui dovrebbe sentirsi più libero, alla fine si scopre invece molto più assoggettato. L’Altro non è il più il “grande Altro” delle norme e delle leggi, delle consuetudini famigliari e del Nome del Padre, ma si è trasformato in un Altro indistinto, indifferente, composto da una comunità virtuale all’interno della quale ciascuno è disperso e tenta così disperatamente non tanto forme di emancipazione, quanto modi di affermazione attraverso il consolidamento di un autόs che si è dissolto. In altre parole il “selfista” ricerca affannosamente delle “attestazioni esistenziali” che però non provengono da se stesso, bensì dalla condivisione e dal “mi piace” dell’Altro, il quale, però, non è presente in carne ed ossa, ma è ancora smaterializzato e distanziato. A partire da queste premesse vediamo allora di sviscerare per brevi cenni il meccanismo che soggiace al selfie, per enuclearne il contesto e per analizzarne le forme paradossali di funzionamento.

1. Il contesto immunologico. Una delle premesse del selfie è proprio il contesto, ovvero il Social Network: potremmo descrivere quest’ultimo, riassuntivamente, come una sistematica immunizzante dell’Altro, cioè come una specifica modalità di distanziazione e, nello stesso tempo, come il mantenimento di una com-presenza depotenziata. In epoca moderna, ma probabilmente anche in tempi antichi, l’uomo ha paura dell’Altro, teme l’incontro “faccia a faccia” poiché questo incontro – come ci ha suggerito Lacan – è impossibile (non padroneggiabile) e sempre fallimentare. Eppure, nello stesso tempo il singolo ricerca continuamente spazi comunitari di condivisione e di fraternità, cioè tenta di costruire attorno a sé un “con” che a suo modo è altrettanto rassicurante. Detto altrimenti, da una parte l’Altro atterrisce nella sua estraneità imprevedibile, dall’altra noi abbisognamo dell’Altro per costruire quelle sfere intersoggettive di protezione che caratterizzano l’essere sociale dell’uomo e la sua modalità immunologica.

Ora, il Social Network riesce a mettere assieme queste due istanze e a farle concorrere in modo molto efficace: attraverso la smaterializzazione dell’Altro io lo posso tenere a distanza, pur avendolo innanzi agli occhi magari nell’immagine della face oppure proprio nei selfie. Nello stesso tempo posso creare la mia cerchia di “amici” con i quali posso dialogare, condividere, etc., creare insomma una communitas che tende ad escludersi rispetto al “fuori” e a creare così una sfera di immanenza. La smaterializzazione, tuttavia, sebbene inizialmente sia molto efficace nell’alleggerire il con-tatto con l’Altro, ha quale controindicazione una sorta di processo di psicotizzazione, che peraltro caratterizza quasi ogni forma di media: il “con” che istituisce l’universo virtuale in cui io abitualmente vivo, non possiede alcuna valenza reale, non è il reale di cui ci parla Lacan, ma non è nemmeno la “realtà” in quanto mescolanza di reale e di simbolico. Si tratta invece di una sfera immaginaria che tendenzialmente implica una sorta di “alienazione” di ritorno: si rifugge l’Altro, per ricostruirlo in modo neutralizzato e controllato, ma così ci si ritrova alienati, privi cioè di una propria identità, dis-persi nell’alterità che si voleva paradossalmente evitare. Da qui possiamo desumere il carattere reattivo del selfie: ricostruzione dell’autós perduto, donde anche il carattere intrinsecamente antinomico e ossimorico del selfie, essendo il tentativo di erigere un self che ancora non c’è e che quindi risulta essere più un télos forse irraggiungibile che un punto di partenza (il sé in quanto soggetto della foto o del film); tentativo estremizzato di recuperare un rapporto con il reale (rapporto lacanianamente rischioso e traumatico, tanto osceno quanto difficile da sostenere), il quale però sarà sempre ancora “mediato” dall’immagine, come se in fondo colui che fa le acrobazie non fosse in grado di affrontarle da solo ma abbisognasse del supporto virtuale della comunità degli amici. In breve, rischio la vita, ma soltanto se questa mia vita viene eternizzata ed eterizzata dall’immagine, mancando così giocoforza quel reale che si voleva effettivamente incontrare.

2. Selfie e alienazione: quando ci fotografiamo in continuazione durante le vacanze e postiamo le nostre immagini in una sorta di autobiografia visiva, in fondo facciamo in verità molto di più di un album ricordo da mostrare agli altri amici. In primis funziona quello che Zizek definisce meccanismo dell’ “interpassività”: noi non riusciamo a vivere attivamente e direttamente le nostre esperienze, ma ricorriamo continuamente a supplementi, siano essi quelli della nostra memoria, siano quelli tecnici degli apparati di registrazione (videocam, videoregistratore, etc.) che in pratica “vivono per delega al posto nostro”, vedono direttamente ciò che noi invece scorgiamo di sbieco sullo schermino a cristalli liquidi. C’è un’ansia totalizzante di registrazione, che nasconde una paura insita non tanto nel rischio di non riuscire a vedere tutto, quanto all’opposto nel non voler vedere prima facie, ma semmai in seconda battuta, al computer, seduti comodamente nel proprio salotto, sgranocchiando dei salatini e sorseggiando una birra.

Derrida ha esteso in questo senso il concetto di “autobiografia”: non si tratta soltanto di una specifica disciplina letteraria con una lunga e importante tradizione, bensì è in gioco il modus stesso del nostro conoscere e del nostro pensare. Ciò non significa però che sia sempre in gioco la nostra identità o il nostro ego, come banalmente e kantianamente potremmo intendere visto che comunque siamo sempre noi a vedere, pensare, capire con tutte le nostre sovrastrutture, i nostri schemi mentali, gli stereotipi e i pregiudizi che derivano dalla nostra cultura e dalla nostra famiglia. L’autόs invece, proprio nell’atto di iscriversi, di materializzarsi in una foto, per quanto apparentemente immateriale, si decostruisce nella stessa misura in cui si pone ed agogna la propria affermazione. L’autobiografia – osserva Derrida – si trasforma in etero-tanato-biografia, cioè è scrittura dell’Altro in quanto morto, del se stesso in quanto altro-da-sé, fuori o esteriore a sé: se quindi il selfie vuole raccontare una storia o una “bravata” segnalando al mondo la propria esistenza, ecco che proprio l’atto autobiografico del “selfizzare” consegue il risultato esattamente opposto e ci pone innanzi agli occhi il nostro sé in quanto simulacro o maschera medusea che al di sotto dell’incantamento immaginario cela un quid mortifero e lancinante.

3. La dimensione immaginaria: il carattere fallimentare del selfie è facilmente desumibile dalle analisi che Lacan, sin dagli anni Trenta, dedica al cosiddetto registro immaginario. Quando il bambino si guarda allo specchio e presume di riconoscersi, è catturato da due movimenti contrapposti: da un lato effettivamente inizia a prendere coscienza della propria identità e a costruire di conseguenza un Io ideale, ma dall’altro lato si scopre ad un tratto ri-flesso in un altro-luogo e, soprattutto, non riesce a far combaciare perfettamente la propria immagine con quella dello specchio. L’identità appena scoperta sfuma in una nuova forma di alienazione dove l’ego diviene necessariamente un alter-ego, un Sé intaccato ab origine dall’Altro. Ma – e qui forse acquisiamo un’altra tonalità del selfie – il bambino inizia ben presto a padroneggiare questa alienazione e prima ancora di entrare nel campo del simbolico e del linguaggio, usa la divaricazione tra il supposto ego e l’alter-ego in modo da integrarsi nelle relazioni con gli altri: da questo istante egli non vivrà più direttamente gli eventi del mondo, ma lo farà attraverso l’interpolazione immaginaria e decettiva degli alter-ego che lo sostituiranno e che veicoleranno il desiderio dell’Altro (con l’ulteriore contrappasso d’una nuova alienazione). Ecco allora che il selfie in fondo gioca con il proprio alter-ego (per manifestare pubblicamente ciò che non si è), ovvero maneggia il carattere intrinsecamente alienante dell’immagine per virarlo a proprio vantaggio; epperò proprio in questo gesto si abbandona al desiderio dell’Altro, poiché il “voler essere” che vuole immortalare dipende dall’Altro e, come dice Lacan, “non è neppure questo”, condannando così il soggetto a un doppio mancamento. Tragico destino del selfie!

Emiliano Bazzanella