Perché credo che esista qualcosa di diverso dalla materia

L'extériorisation de la motricité d'Albert de Rochas, 1° gennaio 1896 -

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Continuando il discorso su Dio, qualcuno ha osservato che non è dimostrata né dimostrabile l’esistenza dell’anima, dello spirito e, se non posso né vedere né toccare lo spirito, come faccio a credere che esista? Si insiste sul fatto che solo ciò che si tocca è vero e degno di fede. Il corpo lo tocco, lo vedo, lo peso, ma l’anima? Non sarà che l’anima è un’invenzione della religione per controllarci e spaventarci con le minacce di pene eterne? Insomma, non è che la religione invece di essere ragionevole fa leva sulle nostre paure?

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Nel nostro mondo occidentale si usa in effetti distinguere fra materia e spirito. La maggior parte di noi vive ancora oggi con questo concetto dualistico, che abbiamo ereditato dai greci. Bene! Accettiamo questa classificazione duale che è ancora comunemente usata nella nostra cultura.

Ora, proviamo a guardare l’orologio che ciascuno di noi porta al polso. Si deve convenire che l’orologio, pura materia, ha peso, figura, volume, esattamente come il nostro corpo. Ma l’idea di orologio, che pur viene dalla materia, non ha nessuna proprietà della materia. Vedo un uomo per strada. L’idea non corrisponde a quella figura. Non è come una fotografia che mostra quell’uomo con quel corpo, in quel giorno, a quell’ora, in quella posizione. Se un altro giorno incontro un altro uomo, in un’altra posizione, magari di stazza ed etnia diversa, lo riconosco ugualmente come uomo (o almeno dovrei riconoscerlo come uomo, e quindi come mio uguale). Sono passati i tempi della conquista delle Americhe, quando i bianchi, non avendo mai visto un indigeno americano, si chiedevano se anch’essi fossero uomini o meno.

Anni fa avevo fatto una prova col mio cane, che in varie occasioni mi aveva dato prova di essere molto intelligente. Quando il mio cane mi vedeva prendere lo zaino, cominciava ad abbaiare e a saltare come un pazzo, perché sapeva che stavo per portarlo in gita. Un giorno sono andato a comperare uno zaino nuovo. In negozio tutti noi siamo perfettamente capaci di riconoscere gli zaini, anche se hanno forma e colore diversi. Arrivato a casa col nuovo zaino l’ho mostrato al mio cane. Il cane l’ha annusato, ma non si è messo a fare il pazzo, perché non era capace di riconoscerlo come zaino.

L’idea sembra essere dunque patrimonio dell’uomo, solo dell’uomo. L’idea che figura ha? Che peso? Che volume? L’idea non occupa spazio. Se inserisco sempre nuovi dati in un computer, o prima o dopo non ce ne staranno più e dovrò comprare un computer più grande. Nell’uomo, per quanti idee uno immagazzini, la testa non gli si allarga (per fortuna!).

La figura, poi, vale solo per quella cosa determinata, ad esempio per quella casa determinata. L’idea invece per tutte le cose che corrispondono ad essa: ci sono in giro per il mondo tante case di forma e dimensioni diverse, ma noi siamo in grado di riconoscerle tutte come case. L’idea prescinde perfino dall’esistenza reale o meno delle cose. Nell’antichità c’era l’idea dell’unicorno o dell’araba fenice, ma non risulta che questi mitici esseri siano mai esistiti. E ancora oggi si pensa a cose che non si sa né cosa siano veramente, né se esistano, né dove possano trovarsi; per fare un facile esempio, si pensi a quanti ancora cercano il mitico santo Graal.

La stessa scienza è delle idee, degli universali: non questo ferro che tocco, ma il ferro in generale; la materia. Ma c’è di più.

Siamo tutti d’accordo che la casa è un bene materiale. Ognuno di noi può lasciare la sua casa in eredità a chi vuole. Invece, la conoscenza, la capacità di suonare uno strumento, di parlare una lingua straniera, non si può lasciarla in eredità a nessuno. Tutte queste cose scompariranno con il titolare, anche se gli altri vorrebbero tanto ereditarle. Perché? Perché, evidentemente, non sono beni esclusivamente materiali, come la casa.

E c’è ancora di più.

Voglio andare a Roma. Devo affrettarmi a prendere l’ultimo treno di questa sera e viaggiare tutta la notte. Ma col pensiero, se voglio, sono già là, in tempo reale. Allo stesso modo, in una frazione di secondo, torno indietro negli anni, al momento del mio decimo compleanno che tanto mi aveva emozionato.

Sono messo in prigione? Il mio corpo resta lì, ma la mente è libera di entrare e uscire di prigione a suo piacimento: non c’è porta, non ci sono sbarre che la possano fermare. La mente, le idee non possono venire arrestate o incatenate.

Non basta ancora? Sapete chi era Toscanini o chi è Riccardo Muti, vero? Dei grandissimi direttori d’orchestra. Tutto il teatro è pieno, gente anche in piedi; davanti al podio un silenzio di tomba. Poi, il maestro parte; la sinfonia è la lotta disperata contro la brutalità; quest’uomo che fa scoppiare l’orchestra nella sua ira. La musica riempie la sala, penetra in ciascuno di noi suscitando emozioni violente, ma la musica non occupa spazio alcuno. Non è allora irrazionale sostenere che ci sono cose che non si possono toccare, che non si possono vedere con gli occhi, che non si possono pesare, ma che esistono. E per forza dobbiamo pure ammettere che esiste una diversità fra corpo e mente, fra materia e spirito, fra materia e al-di-là-della-materia, chiamiamola come vogliamo. Basta intenderci sui termini. C’è un’evidente differenza, così come il colore rosso è diverso dal colore blu (cui ho fatto cenno nell’articolo della scorsa settimana Perché credo che esista il Trascendente?, https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/numero-296---17-marzo-2019/perche-credo-che-esista-il-trascendente), perché le leggi che vincolano la materia - come il tempo, lo spazio - non si applicano a quello che chiamiamo spirito. Di qua il rosso, di là il blu.

Bene! Fin qui ci siamo. Poi però mi ricordo di mia madre, morta di tumore, che negli ultimi mesi vegetava soltanto, senza riconoscere nessuno. Dov’era allora la sua anima? il suo spirito? Dove è possibile vedere lo spirito in un neonato che mangia, dorme, fa la pipì e la pupù, ma non è capace di fare altro? Nei suoi primi momenti, la vita di un cane o la vita di un uomo sono descrivibili allo stesso modo. È solo in seguito che nell’uomo si differenzia; ma allora si può avere l’impressione che ciò che appare più tardi come spirito, pensiero, sia in realtà solo un frutto della materia, una forma più evoluta della materia, perché tutto trae origine dallo stesso iniziale elemento materiale:[1] l’ovulo fecondato. Allora, non si potrebbe dire che anche l’Amore, quello con non vedo ma sperimento, possa essere ricondotto a un banale fattore chimico-biologico? E così l’ira o la pazzia? Forse sì. Molti psichiatri, oggi, pensano che la pazzia sia dovuta semplicemente a disfunzioni bio-chimiche.

Ma in proposito mi ha colpito l’esempio fatto da don Giussani: se uno di voi avesse avuto la fortuna di sentir suonare al piano Benedetti Michelangeli, di fronte alla sua capacità interpretativa che emoziona ogni uditorio saremmo propensi a dire che lo strumento musicale e la capacità del pianista formano una cosa sola. Eppure, se qualcuno sabotasse il pianoforte, neanche Benedetti Michelangeli potrebbe estasiare qualcuno con la sua arte e abbiamo detto che l’arte non si può lasciare in eredità, per cui non è pura materia. Allora resta ragionevole sostenere che in un’unità composta da due fattori, l’emergere del secondo è condizionato a un certo sviluppo del primo. Di nuovo, allora, non vedo niente di così irragionevole nel sostenere che anche il corpo umano deve evolversi materialmente fino a un certo punto, dopodiché finalmente si “accorda” con la parte non-materiale (che, come diversi sostengono, potrebbe anche essere una forma molto più raffinata della stessa energia che ha dato origine al corpo materiale). Se il fisico degrada a livello vegetale, la parte spirituale nuovamente non può più emergere, come l’arte del pianista non riesce a emergere su un pianoforte scordato: ma anche quando non esce alcuna musica o una musica stonata, il pianista resta pianista, e il pianoforte resta pianoforte. Così il neonato, o chi è handicappato o chi è in coma, resta sempre uomo, essere umano.

Allora, se, come si è visto in precedenza parlando di rosso e di blu, nell’attimo presente siamo indubbiamente in presenza di due fattori diversi e non sovrapponibili, quand’anche rifacendo il cammino all’indietro (verso la nascita), o in avanti (verso la morte), i due fattori appaiono a volte meno differenti fino a confondersi, non per questo si può sopprimere l’esperienza che mostra nell’uomo due tipi di realtà (chiamiamole “materiale” e “non-materiale”). Tanto più che, come risulta evidente con l’esempio del pianista e del piano, un’unità composta da due fattori complementari ma non uguali è sperimentabile nella realtà terrena e quindi razionalmente sostenibile.

Facciamo un altro esempio. Gli scienziati hanno misurato l’universo: ritengono sia grande circa 13 miliardi ai anni luce. Newton ed Einstein ci hanno spiegato le leggi in base alle quali la materia si muove ed esse sono associate alle masse presenti nell’universo (la massa è la quantità di materia che lo costituisce). Il problema è che noi vediamo solo le stelle, ma la massa di tutte le stelle, di tutte le galassie, non basta per spiegare i movimenti secondo le formule universalmente accettate dalla scienza. Semplificando, se la quantità di massa che noi vediamo equivale a 10, il numero da inserire nelle formule dovrebbe essere 100. Dove sta questo 90 che non vediamo? Questo 90 è stato chiamato ‘materia oscura’ perché non la vediamo, non siamo in grado di misurarla, e in realtà non sappiamo nemmeno cosa esattamente sia. Anche qui, dunque, abbiamo materia (e non-materia?), rosso (e blu?). La differenza è che tutti gli scienziati credono alla dualità “materia visibile” e “materia oscura”, mentre pochi credono alla dualità “materia” e “spirito”. Perché? In entrambi i casi siamo davanti a qualcosa che non vediamo, non siamo in grado di misurare, e in realtà neanche sappiamo cosa esattamente sia. Perché si etichetta come credente irragionevole solo chi parla di materia e spirito e come scienziato ragionevole chi parla di materia visibile e materia oscura?

Passiamo alla paura. È vero che sono molti a pensare che, se si superasse la paura della morte, non ci sarebbe più bisogno di Dio, dell’anima, della stessa religione. Coloro che negano l’esistenza di Dio insistono di solito nel sottolineare che la paura della morte crea la spinta a crederci (Primus timor fecit Deos = è stata innanzitutto la paura (della morte) a far immaginare l’esistenza degli dei, come già dicevano i romani). È la paura che rende necessario esorcizzare e negare la morte, sì che la paura diventa la causa prima e la pietra angolare di ogni fede religiosa, che invece ci illude facendoci credere esistenti cose che non si vedono e non si toccano. Secondo il costante pensiero di Freud, l’uomo adulto si accorge di essere sempre debole e abbandonato di fronte alle esigenze crudeli del mondo, per cui si rifugia in una regressione infantile proiettando su Dio il suo bisogno di protezione e sicurezza, sì che la religione è un’illusione; peggio: questo desiderio, quando diventa un chiodo fisso, costituisce una malattia nevrotica. È facile immaginare cosa la Chiesa abbia pensato di Freud, il quale affermava che la divinità è creata dall’uomo, che ha sempre bisogno di protezione, e non che l’uomo è creato dalla divinità.

La paura è senz’altro un gran motore. Ma sono anche convinto che la religione non nasca solo dalla paura della morte. Se penso che con la morte tutto è finito, certamente sono disperato perché io cerco la felicità, come tutti. La felicità è qualcosa cui confusamente tutti aspiriamo come se ricordassimo di averla vissuta (anche se ognuno a modo suo); a volte si ha l’impressione che ci sfiori in maniera invisibile, ma poi non sappiamo come trattenerla. Il problema è che anche quando si riesce ad avere tutti i beni materiali di questo mondo (quelli che vediamo e misuriamo), dopo un po’ non si è più felici; piuttosto si resta annoiati. Anche i maharajah, ricchi sfondati, che avevano la possibilità di soddisfare tutti i propri capricci, che con uno schiocco di dita avevano a disposizione le più belle donne del mondo, dopo un po’ erano annoiati e depressi. L’Uomo vuole sempre di più, tende al bene più grande, ma che duri per sempre. Questo è molto evidente nell’amore, che anela alla durata eterna e invece tutti ci confrontiamo con l’amore terreno che ha sempre dei limiti immensi. Ogni nostro vero piacere chiama eternità, anche se si sperimenta come attimo. E cosa è questo veloce flash, se non una rapida apertura e chiusura di una porta che dà sulla Trascendenza che noi arriviamo solo a intuire? Ognuno di noi – io credo - ha sperimentato, almeno per una frazione di secondo nella sua vita, magari quando era follemente innamorato, magari quando ammirava in silenzio un tramonto o a un altro scenario stupendo della natura, magari quando era appena riuscito a risolvere un difficilissimo problema algebrico, la sensazione di avere dentro di sé una scintilla di qualcosa che lo proiettava su un piano superiore (l’infinito?), in uno spazio che non era più terreno e non faceva parte della sua quotidiana esistenza profana: per un attimo la porta si è aperta e abbiamo intravisto una splendente perfezione. Il trascendente non lo si può vedere, ma lo si può dedurre, perché in ognuno di noi c’è questa inesorabile tendenza. Ed è curioso notare che, generazione dopo generazione, da sempre l’umanità lavora in questa direzione, per raggiungere questo piano superiore che ci eleva, ma impossibile da raggiungere in questa vita limitata. Inconsciamente sappiamo che perfezione significa felicità e allora la ricerca della felicità consiste in un faticoso cammino di ascesa, seguendo il richiamo dal buio del fango materiale verso una lontana luce che ci attira (come la ninfea di cui ho parlato nell’articolo della scorsa settimana). La felicità su questa terra non è allora uno stato d’animo, ma piuttosto una ricerca continua e interminabile, una tensione che dura tutta la vita (Tradigo A.), uno sforzo per sollevarsi verso più alte sfere. Del resto, osservava già Beethoven – e come si può non condividere questa sua profonda intuizione? -, la nostra aspirazione è infinita, mentre la volgarità del mondo rende tutto finito.

Mi spiego meglio: sono certo che ciascuno di noi, anche da giovane, anche se a volte crede di vedere nei calciatori miliardari e nelle veline sculettanti il proprio ideale di vita, quando vede un uomo agire, necessariamente si domandi: per quale scopo? E ciascuno di noi, se lo scopo non è materiale, lo ammira sempre. Se, invece, lo scopo è soltanto materiale lo ammira di meno, e a volte lo disprezza. Pensiamo all’arte. Il vero artista non lavora per i soldi. Solo se l’artista è riuscito a staccare l’idea di lavoro dall’idea di guadagno riesce di solito a creare opere che suscitano l’estasi; se ha prodotto solo per guadagnare, produce normalmente quantità che non significano niente, perché nell’arte solo la qualità è tutto.

Oggi è di moda dire che la nostra società non ha più valori. È falso: l’Uomo lavora sempre per uno scopo. Solo che, oggi, pochi lavorano per fini spirituali; molti, troppi, per scopi meramente materiali. Oggi, l’uomo occidentale in particolare non è disinteressato a tutti i valori, visto che adora tantissimo il dio-denaro[2]. Però sono i valori spirituali che fanno grande l’Uomo: la nostra aspirazione tende sempre in alto verso l’infinito, mentre la sola materia, che rende tutto finito, ci schiaccia continuamente verso il basso.[3]

Alla mia età, guardando le nuove generazioni, vedo tanti giovani di oggi che si trascinano stancamente come se fossero già vecchi e penso che sono ridotti così perché non vedono davanti a loro né grandi progetti, né sogni appassionanti. Molti, troppi giovani vivacchiano:

“Ma che progetti hai?”

“Boh!”

“Come usi il tempo libero?”

“Così… mi diverto”. E tanti vivono solo per le discoteche. Oggi ho vissuto la copia carbone di sabato scorso: che bello! O, restando sempre nel banale, pensiamo a tanti giovani d’oggi: sguardi veloci sui marchi delle felpe e dei telefonini come principale identità, senza alcun altro interesse; poi, il vuoto più totale. Altri, per provare una qualche emozione forte di fronte alla noia che li devasta, bruciano il barbone che dorme sulla panchina o torturano un animale. Sono in cerca di emozioni intense, ma niente più li emoziona facilmente. Il problema è che nessuno può trovare grandi stimoli se si limita a considerare solo la materia. L’entusiasmo arriva quando si guarda oltre la materia. Il campo artistico, letterario, la giustizia, le scienze, questi sono i settori per cui gli uomini diventano grandi; settori, cioè, in cui non c’è solo materia: quando un uomo tracanna un whisky guardando vogliosamente la cubista contorcersi avvinghiata a una pertica, in quel momento si ferma alla materia, e non va certamente oltre. Tutto ciò che invade il campo dell’Uomo non può essere e non deve invece essere solo materia. C’è questa tendenza, che abbiamo tutti dentro di noi, verso l’al di là della materia. Anche vivere da puri razionalisti, ancorati esclusivamente alla realtà materiale, credere solo a ciò che è sperimentabile, palpabile, comporta delle evidenti limitazioni: lo scienziato tutto ragionamento che vede un blocco di marmo saprà sicuramente darci una perfetta descrizione chimica di quel solido, ma non sa nulla del possibile; non sa cosa potrà diventare veramente quel blocco. Occorrerà un Michelangelo per dargli forma e ne uscirà la Pietà o un Mosè che sono unici, perché nessun altro riuscirà a replicare l’esperimento. Il marmo che si tocca, si pesa, si vede, si misura è reale, ma per vivificare la realtà occorre il sognatore, l’artista, perché il Mosè era già dentro quel blocco; bastava togliere il marmo superfluo e realizzarlo; eppure per realizzarlo ci voleva una gran sognatore pensante ed estremamente abile. Si parte tutti dalla materia, si è limitati dalla materia, ma si deve andare oltre. La materia è come il trapezio. Il trapezio condiziona l’acrobata, ma cosa si può fare con quel trapezio!

Tutti vedono il ferro: mero materiale. Anche l’animale lo vede, e si ferma lì. Solo l’uomo sa andare oltre: pensa, studia, inventa. Dal vapore nasce l’idea della caldaia, della locomotiva, dei pannelli solari che ci daranno calore d’inverno. Insomma, l’uomo è certamente condizionato dalla materia, ma ha una marcia di più. In realtà, a ben pensarci, l’Uomo diventa veramente grande solo quando fa cose che – viste in un’ottica solo materialistica – sono del tutto inutili: La Divina Commedia, la Torre di Pisa, le sinfonie di Beethoven, sono queste le cose che restano nel tempo e tutti, anche dopo secoli, restano estasiati nel leggerle, vederle o sentirle.

Sono le cose inutili, allora, quelle che più ci avvicinano alla felicità.

Il lavoro dell’Uomo è grandioso non tanto quando riguarda le cose indispensabili per vivere (coltivare per mangiare), ma le cose inutili (un vino eccezionale); oppure, ancor di più, quando riguarda il campo della non-materia: pensiamo a Omero, a Tchaikowsky, a Michelangelo. Perché questi uomini ci colpiscono, ancora oggi, più del calzolaio che ci ha riparato con perizia le scarpe, dell’impresario che ha fatto un sacco di soldi costruendo case che dopo qualche mese presentano gravi difetti, del sollevatore di pesi che ha sollevato 150 chili come fossero 15? Perché solo i primi, non i secondi, sono riusciti a farci sognare.

Il sogno dell’infinito – strettamente correlato alla felicità – caratterizza allora la vita dell’Uomo. Per questo l’Uomo esplora lo spazio e va sulla luna.

Per questo esplora le grotte, gli abissi marini, e sale in cima alle più alte montagne.

Per questo dipinge, scrive musica e scrive poesie.

Ma per questo stesso motivo, molti di coloro che non riescono a raggiungere quello cui aspirano, o che sono troppo deboli per impegnarsi, cercano una risposta rapida nella materia per assopirsi, per non dover più pensare, per non tormentarsi ogni giorno in questa continua ricerca, anch’essi però pensando di riuscire in tal modo ad andare al di là della materia: per fare un facile esempio, pensiamo al flagello della droga.

In conclusione, mi sembra che l’idea della religione, che riconosce l’esistenza di una realtà superiore (chiamiamola Dio, Allah, Natura, Caso con la C maiuscola, il nome poco importa) nasce allora non solo dalla paura della morte come pensa più di qualcuno; ma anche, e soprattutto, dal sogno dell’infinito, da questa tendenza innata che tutti noi abbiamo verso l’infinito, perché istintivamente sappiamo che solo lì, un giorno, saremo appagati.

Neanche la religione, allora, che ci parla di un tentativo dell’uomo di risalire a una dimensione che per convenzione chiamiamo spirituale, ma che pur sempre è strettamente collegata alla nostra struttura materiale umana, è poi così irragionevole.

Dario Culot

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[1] Il teologo Vito Mancuso, nel suo libro L’anima e il suo destino, ed. Raffaello Cortina, Milano, 2007, ha dato una risposta molto più approfondita della mia, che qui cerco di sintetizzare, spero correttamente: La natura è il luogo di nascita dell’essere. La nascita è continua, continuo è il lavoro generativo: natura-physis. La realtà fondamentale è l’energia (la capacità di produrre lavoro). L’universo è sempre al lavoro. Il lavoro è il respiro del cosmo. L’energia ha prodotto per prima cosa la materia-mater, che ha poi prodotto noi mediante un lungo processo evolutivo. La materia non è qualcosa di morto, e la vita sorge da là in basso, sorge dal continuo lavoro dell’energia che diviene prima materia-mater e poi natura naturans, cioè vita (p. 12 s., 52 s.,).

Il lavoro della natura-physis non è riducibile solo a materia, ma produce anche un livello superiore dell’essere, lo spirito, la vita dell’energia a prescindere dalla materia, che sussiste anche dopo la dissoluzione della materia. L’anima non è una sostanza separata che proviene direttamente da Dio, non proviene dall’esterno, ma resta una peculiare configurazione dell’unica energia che ci costituisce. L’anima è ordine dell’energia che noi siamo e non sostanza che giunge da un’altra dimensione; viene cioè dal basso, non scende dall’alto (p.53 s e 109).

Sostiene un altro autore che dualismo che considera la materia una realtà fisica, statica, inerte, passiva, per cui si deve dare per scontato che, se c'è un'attività, questa deve eccedere la materia, è incrinata dalla conoscenza che oggi abbiamo della materia, perché la materia è un condensato di energia. Man mano che la natura riesce a rendere più complesse le strutture materiali, la vita assume nuove modalità di espressione: pensiero, riflessione, sensibilità. Non è più necessario parlare di anima e corpo, ma di strutture complesse che consentono il fiorire di forme nuove di vita (Boncinelli E., La vita della mente, ed. Laterza, Roma-Bari, 2011).

[2] Lo ha confermato ancora questo febbraio, nel corso di un programma televisivo Rai, rivolto ai bambini, Daniela Santanchè: “il denaro è l’unico vero strumento di libertà”, cfr. https://www.ilmessaggero.it/televisione/santanche_alla_lavagna_bambini_soldi_liberta_luxuria-4277147.html.

[3] Anche qui le parole che usiamo sono sempre insufficienti e incomplete. Il discorso appena fatto potrebbe farci pensare che Dio sia lassù in alto, al di sopra di tutte le cose: ma chi sta al di sopra non può essere effettivamente implicato in quelle cose. Allora bisognerebbe forse pensare – come ha fatto Tillich (riportato in Robinson J.A.T., Dio non è così, ed. Vallecchi, Firenze, 1965, p.71) – che al concetto di altezza debba sostituirsi quello di profondità, per cui Dio non sta sopra di noi, non sta al di là, ma al centro della nostra vita; e non lo si raggiunge con una “elevazione individuale”, quanto piuttosto con “una più profonda immersione nell’esistenza”: per fare qualche esempio, si pensi alle vite di S. Francesco o Madre Teresa di Calcutta.