Ma Gesù è stato da subito identificato con Dio?

Primo Concilio di Nicea, Vasily Surikov (1876-1877), Cattedrale di Cristo Salvatore, Mosca

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Mi si contesta una contraddizione logica: se tutta la gente (compresi gli apostoli, stando a quello che ho scritto) era convinta di trovarsi davanti a un uomo, e se la cosa era veramente così ovvia e così evidente come ho sostenuto, come mai la Chiesa si vide costretta già nel V secolo a definire come dogma di fede, per di più nella forma solenne di un Concilio (di Calcedonia), una cosa che doveva essere così ovvia ed evidente per tutti?

Poi mi viene ribadito che la dottrina della Chiesa è riuscita a proporre con piena evidenza ciò che all’inizio poteva anche apparire nebuloso. Se da subito già i primi cristiani hanno creduto che Gesù fosse vero Dio e non solo uomo (convinzione raccolta dai Concili di Nicea e Calcedonia), è allora inutile che, contro questo dato di fatto e contro l’insegnamento tradizionale del magistero, sostenga che Gesù è (per identità) solo vero uomo, ma non Dio.

Non ho la pretesa di avere la verità in tasca e non ho nulla da insegnare a nessuno.

Il diverso cammino prospettato da tanti teologi (sia cattolici che protestanti) mi è sembrato più ragionevole e logico di quanto insegnatomi, e per questo l’ho accolto e fatto mio.

Certo che, se questi teologi avessero ragione, vorrebbe dire che la religione che ci è stata insegnata era sbagliata, almeno in certi casi; ma questo è inaccettabile per molti che passerebbero dalla sicurezza all’incertezza, scoprendo che non basta il filtro magico del magistero per rispondere a tutte le domande con cui la vita c’interpella; soprattutto, per questi molti, è indigeribile rendersi conto che Dio non può essere costretto entro i limiti e gli schemi di un sistema religioso.

So anche benissimo che nella Chiesa ci sono persone che, per restare fedeli alle loro credenze, disdegnano quelli che non la pensano come loro o non si adattano alle esigenze del loro “Credo,” convinti che ciò che dice il magistero equivalga a volontà di Dio.

Ora, se io sono giunto a certe conclusioni sulla fede cristiana che altri, invece, non sono disposti ad adottare, nessun problema da parte mia. Che ognuno resti pure ancorato alle sue idee. Quello che non accetto è che le idee di un altro debba per forza accettarle io, anche quando non mi convincono, perché – come, credo, i più - ho bisogno di credere ragionevolmente (anche Papa Benedetto XVI ha scritto nel suo libro Dio e il Mondo che una fede senza ragione non è autentica fede cristiana).

Sono convinto che i tempi siano ormai maturi per affermare a chiare lettere che nessuno di noi dovrebbe denigrare le diverse porte d’ingresso attraverso le quali altri viaggiano nella loro faticosa ricerca per entrare nell’ambito misterioso di Dio, perché l’importante è la destinazione finale, meno la strada che si percorre, che può essere anche diversa.

In ogni caso, un’idea che si discosta dalla piatta adesione alla Verità Rivelata così come insegnata dal magistero non può essere automaticamente un errore peccaminoso; in ogni caso l’errore deve essere, prima di tutto, dimostrato in maniera logica e coerente da chi sostiene che di errore si tratta. Infatti, un’affermazione può essere accettata quando è ragionevolmente coerente per la nostra mente; se non è coerente non la si può accettare. Questo deve valere ovviamente per i miei scritti, ma anche per gli insegnamenti del magistero. Allora per convincermi che ho torto e che il magistero ha ragione, pretendere – come fa ancora la buona ortodossia – che si debba credere al magistero perché è esso a dire che ciò che insegna lo riconosce la ragione, significa mortificare la stessa ragione, in quanto qualcun altro ordina ciò che la ragione deve fare; al contrario ciò a cui può arrivare la ragione deve essere essa sola a stabilirlo, non certo l’autorità della Chiesa (Mancuso V.).

Ecco perché sottoscrivo appieno quanto detto dal vescovo anglicano John Shelby Spong: “Chi reagisce con rabbia a interpretazioni che mettono in discussione la propria comprensione di Dio e del cristianesimo, dà segno evidente di dimostrare che ciò che viene disturbato non è tanto la verità di fede, quanto la sua sicurezza religiosa. Per di più, ipotizzare che Dio e la propria comprensione di Dio siano la stessa cosa non è solo smettere di crescere, ma è morire nei confronti della ricerca della verità, la quale deve essere sempre cercata”. Infatti la Verità non è mai raggiunta, mentre la pretesa di possedere già integralmente la Verità, tipica dei fondamentalisti, è normalmente solo causa di tensioni, contrasti e violenze. La Verità è sicuramente una sola, ma come dice lo stesso n. 819 del Catechismo, parecchi elementi di verità si trovano ancora fuori dei confini visibili della Chiesa Cattolica, sì che il nostro incontro terreno con la Verità è sempre limitato, motivo per cui è indispensabile il dialogo per raggiungere questa Verità (n. 821 Catechismo). Wow! Scommetto che molti ferventi credenti non conoscevano questi articoli del Catechismo.

In conclusione, sta al singolo lettore decidere se accettare una spiegazione (tradizionale o meno), perché la ritiene coerente, oppure buttarla ritenendola incoerente. “Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?” ha detto Gesù (Lc 12, 57). Se si segue questa linea, dire che la Chiesa è riuscita a spiegare con assoluta chiarezza ciò che prima era nebuloso mi sembra affermazione piuttosto azzardata. Faccio osservare che, finora, mi sono state fatte varie contestazioni; qualcuno mi ha rinfacciato di non essere teologo, e che un vero teologo mi avrebbe distrutto in cinque minuti; ma pur essendo passati ben più di cinque minuti, finora non ho ricevuto risposta logica e coerente alle domande che avevo posto. Neanche ad una. Se tutto era così chiaro nella dottrina ortodossa, per replicare alle mie domande doveva essere sufficiente rinviarmi a quanto già scritto e spiegato nel Catechismo, ma (ahimè!) il Catechismo non risponde quasi a nessuna domanda.

Ma ora torniamo a noi. Nicea ha detto che Gesù è propriamente Dio come è propriamente uomo. Dunque, in lui abbiamo l’unione della perfetta Divinità e della perfetta Umanità. Ma come? Neanche dopo tutti questi secoli il magistero ha logicamente saputo rispondere a come stiano insieme queste due realtà così diverse; non ha saputo rispondere neanche alle domande che per primo si era posto il vescovo Apollinare (310-390 d.C.), pur dichiarandolo eretico: “Due principi compiuti e perfetti non possono diventare uno. Se l’uomo nella pienezza si fa uno con Dio, non sarà mai un uomo, ma un Dio umano. L’essere umano non può nel Dio-Uomo essere uguale ad ogni altro essere umano, uno fra i tanti uomini”.

Se Gesù è uomo perfetto come lo sono io, e lui ha esattamente lo Spirito Santo come il Padre, mentre io no, come si fa a dire che è un uomo uguale a me, uguale agli altri? Siamo sempre fra Scilla e Cariddi, ovvero c’è il costante rischio di rendere Gesù così umano da perdere la sua divinità, ma anche di renderlo così divino da perdere la sua umanità. Dunque, mi sembra che ancora oggi la risposta data dal magistero al problema di capire come in un uomo che è totalmente uomo (Gesù) possa sussistere contemporaneamente una piena divinità, resti ancora abbastanza nebulosa.

Quanto all’intervento di Calcedonia, il teologo Castillo José Maria spiega che questo fu necessario perché, a cominciare dallo gnosticismo, c’era nel cristianesimo una forte tendenza a vedere in Gesù più Dio che l’uomo. Molti, cioè, non accettavano che un uomo, fatto di carne e ossa, potesse rendere presente in questo mondo il Dio trascendente, che per definizione non è alla nostra portata. Ma i padri conciliari si resero conto che, se l’idea gnostica avesse trionfato, la memoria e l’immagine di Gesù sarebbero rimaste per sempre deformate, e così pure il mistero dell’Incarnazione (termine con cui si vuol dire che Dio si è fatto visibile, presente, in un uomo), perché se Dio non s’incarnò in un uomo, perfettamente uomo, l’incarnazione non sarebbe che una specie di travestimento che Dio aveva messo in atto per apparire come uomo, senza esserlo nel senso pieno e veritiero della parola. Quindi il concilio di Calcedonia affermò con chiarezza e fermezza una cosa fondamentale: che ci può essere incarnazione di Dio solo quando tale incarnazione si realizza in un uomo, non in un’apparenza di uomo, non in un uomo incompleto e sminuito o, come dicevano i seguaci di Eutiche, in un uomo che in pratica rimase come assorbito e diluito nell’immensità di Dio. Dunque Calcedonia si pronunciò (una volta per tutte) contro qualsiasi dottrina o rappresentazione che possa interpretarsi come un annacquamento o come una negazione della piena e perfetta umanità di Gesù. Su questo punto, i miei articoli sono in perfetta sintonia col dogma di Calcedonia.

Ma andando al cuore dell’odierna contestazione, si tratta di vedere se è vero che i primi cristiani, da subito, avessero identificato Gesù con Dio, perché va ricordato che, nel giudaismo, chiamare qualcuno Figlio di Dio poteva significare solo che aveva servito Dio con particolare fedeltà; non significava che Gesù fosse un essere divino, ma indicava, come per altri profeti, una persona che aveva fedelmente adempiuto una missione particolare affidatagli da Dio. Solo i cristiani hanno preteso più di questo (Placher W.), trasformando un essere umano in un essere divino.

Il vescovo John Spong fa questa puntuale osservazione: è assodato che il Vangelo di Matteo incorpora circa l’80% di Marco, e Luca circa il 50%. Ma, tolto Marco, restano ancora molti punti in comune fra Matteo e Luca: da qui era sorta, nel XIX secolo, la convinzione che fosse esistita una fonte (Quelle) antecedente comune (teoria Q, tuttora valida). Il materiale Q, oggi perso, sarebbe il più vicino in assoluto ai tempi di Gesù. Anche il Vangelo di Tommaso – riscoperto a Nag Hammadi solo nel 1945 - è più antico dei vangeli canonici. Ora, il fatto che né la fonte Q, né il Vangelo di Tommaso riportino storie miracolose di alcun genere deve farci pensare. Questo suggerisce allora che l’armatura soprannaturale divina, che fu posta in seguito su Gesù, non era originale, e che la vita di Gesù fu vista inizialmente come una vita umana attraverso cui le persone sperimentavano la presenza di Dio.

Raymond Brown, uno dei maggiori biblisti cattolici americani, ha svolto una ricerca interessante (testo solo in inglese, in http://d1ckv7js84buaj.cloudfront.net/26/26.4/26.4.1.pdf) nella quale affronta la questione se a Gesù sia stato applicato, nel Nuovo Testamento, il titolo di “Dio”.

Il biblista premette di non voler discutere il fatto se Gesù sia effettivamente Dio: “la questione”, egli dice, “è stata definita dalla Chiesa col Concilio di Nicea” e i dogmi non si discutono. A questo punto vorrei sommessamente ricordare che se uno vuole tenersi lontano dalle censure ecclesiastiche fa meglio a non entrare nel merito delle implicazioni dogmatiche, ed anzi ad assicurare che le lascia intatte e vi si adegua. Il rischio di chi esprime le sue idee stando dentro all’istituzione ecclesiastica è sempre quello di non essere abbastanza ortodosso per i suoi censori, anche se dice cose assolutamente ortodosse. Pensiamo solo a come diversi vescovi e cardinali stiano attaccando Papa Francesco. Fatta questa premessa, la conclusione del biblista - forse sorprendente per qualcuno - è che l’identificazione di Gesù con Dio è stata solo graduale e non è emersa con immediatezza nei primi scritti. In altre parole, la definizione della natura divina di Gesù non compare mai durante la sua vita e neanche nei primi decenni dopo la sua morte, né è presente nella prima Chiesa, quella di Gerusalemme, retta inizialmente da Pietro, Giovanni e Giacomo (apostoli), e poi solo da Giacomo (fratello del Signore). Ricordo anche che, per san Paolo (Rm 15, 25-27), la colletta da lui organizzata fra le varie chiese greche da lui fondate in favore della chiesa Madre di Gerusalemme era un dovuto atto di riconoscenza, essendo sempre poca cosa rispetto a quanto ricevuto da quella Madre; tutti i cristiani, dunque, sono in debito rispetto al suo insegnamento, nel quale però non era compreso l’insegnamento della divinità di Gesù.

Quindi posso subito smentire il mio contestatore: l’uso del titolo di “Dio” per Gesù non è stato affatto immediato. Gesù non ha mai detto di essere Dio in forma umana. Né lo ha pensato la cerchia dei suoi discepoli. Solo più tardi ha cominciato a pensarlo la Chiesa (Lenaers R.).

Brown dà atto che Gesù non è mai chiamato Dio in nessuno dei tre Vangeli sinottici e anche negli Atti degli Apostoli Gesù è indicato semplicemente come uomo accreditato da Dio (cfr. i passi specifici richiamati nell’articolo Gesù e Calcedonia, n. 449 di questo giornale, https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/numeri-dal-26-al-68/1999992---aprile-2018/numero-449---22-aprile-2018/gesu-e-calcedonia).

Ma forse è ancor più importante notare come il termine uomo non venga mai qualificato da alcun aggettivo che ne connoti in qualche modo la divinità: agli ascoltatori di Pietro viene prospettata solo la piena umanità di Gesù (così anche Penna R.). Se nel primo dei vangeli (Mc 10, 18) è Gesù a parlare direttamente e a rigettare per sé il titolo di Dio, neanche nel Vangelo di Giovanni (che pur in qualche passo sembra arrivare all’identificazione) c’è mai un’auto-attribuzione diretta del titolo da parte di Gesù. Gesù, neanche in questo vangelo, mai dice di essere Dio.

Il dirlo avrebbe tagliato la testa al toro. In altri termini, la fede nella divinità di Gesù è un fenomeno comparso abbastanza presto nella Chiesa cristiana, ma non durante la vita di Gesù e non durante il primo periodo dopo la sua morte.

Di più: la convinzione che Gesù potesse essere divino e umano, divenuta maggioritaria nel III secolo, non poteva sicuramente prender piede con facilità in Palestina. Il rigido monoteismo giudaico, la fine spaventosa di Gesù sulla croce, l’idea greca che la divinità non può soffrire né cambiare, erano tutti elementi di peso contrari a simile impostazione, e sarebbe sembrato quasi di credere in due dèi (Placher W.).

Comunque, già nel secondo secolo comincia ad essere attestato a chiare lettere che Gesù è Dio (ad es. Ignazio, †107 d.C., nella Lettera agli Efesini): il cristianesimo, dunque, è cambiato. Come mai? Sicuramente l’applicazione a Gesù del titolo di Dio è la continuazione di un uso già iniziato nel primo secolo, e la cosa viene spiegata non solo da Brown, ma anche da altri (ad es. vedasi anche il Gesù di Nazaret di Lohfink G.) in questi termini: una popolare formula confessionale dei tempi del Nuovo Testamento diceva che “Gesù è il Signore” (At 10, 36; Fil 1, 2; Ef 5, 19); sennonché il termine greco Kyrios, tradotto con Signore, era la parola standard usata nella traduzione greca della Bibbia dei LXX per parlare di Dio, solo di Dio, al posto dell’impronunciabile Yhwh.

Dunque c’è stato un evidente contributo ellenistico al vocabolario teologico cristiano, posto che – come già detto - non c’è la minima prova che Gesù fosse chiamato Dio nelle prime due decadi del cristianesimo nella chiesa madre di Gerusalemme.

Lo stesso titolo di Kyrios manca del tutto fra i primi fedeli che vengono chiamati non servi, ma amici (Gv 15, 14).

Quei fedeli si sentono talmente prossimi a Gesù che rifiutano da sé il predicato di servi e perciò evitano decisamente anche il titolo di Kyrios. Questo titolo si fa strada in maniera decisiva solo nel cristianesimo primitivo ellenistico (Bloch E.).

La spiegazione più plausibile di questo graduale cambiamento è che nella fase più antica del cristianesimo ebbe a prevalere l’eredità dell’Antico Testamento nell’utilizzo del termine “Dio”, per cui “Dio” era un titolo troppo esclusivo e specifico per poter essere applicato anche a Gesù: esso si riferisce esclusivamente al Padre di Gesù, al Dio da lui pregato in continuazione.

Nella sinagoga il nome di Dio è Kyrios, Signore. Gradualmente, però, forse già negli anni 60, il termine “Dio” cominciò ad essere inteso in senso più ampio: si vide che Dio aveva rivelato così tanto di sé stesso in Gesù al punto che Dio includeva sia Padre che il Figlio.

Il nome Kyrios venne cioè imposto al suo messaggero. Anche Gesù è chiamato Signore, Kyrios (in aramaico Maran).

Al messaggero di Dio viene così imposto il nome di Dio. Chi confessa questo messaggero di Dio confessa Dio; chi lo ripudia pecca (E. Schillebeeckx).

Questo è tanto più evidente se parliamo del Cristo risuscitato: l’invocazione di Kyrios che la comunità credente e rivolge al Resuscitato, ha già il carattere di una professione di fede con cui la comunità si sottomette al suo Signore, confessando al tempo stesso che egli è il Signore del mondo. Però è sempre Dio che resuscitò Gesù (At 3, 15) e lo elevò alla categoria di Kyrios universale (Fil 2, 9ss.). Gesù, da solo, non si è resuscitato.

Il biblista Brown suggerisce pertanto che l’attribuzione del titolo di Dio a Gesù abbia una doppia origine:

(1) a un certo punto, i due termini Signore e Dio vennero resi equivalenti perché si utilizzava per entrambi l’unica parola greca Kyrios (cfr. anche n. 202 Catechismo);

(2) ma il motivo principale sta nell’uso liturgico e nella preghiera delle comunità cristiane, come si evidenzia dal fatto che, ad esempio, i passi in Tt 2,13, Gv 5, 20, 2Pt 1,1 sono chiaramente delle dossologie (cioè quelle orazioni di lode, di glorificazione di Dio - cfr. Ap 1, 5-6; Rm 16, 25-27). In altri termini, la maggior parte delle identificazioni di Gesù con Dio contenute negli scritti neo-testamentari sono copiate pari pari dalle preghiere in voga presso le comunità. Lo stesso Eb 1, 8-9 richiama un salmo (Sal 45, 6-7) ed è noto che i salmi - anche quelli del Vecchio Testamento che erano adattabili a Cristo - venivano cantati durante le cerimonie cristiane (1Cor 14, 26; Ef 5, 19; Gesù stesso, finita l’ultima cena, esce verso il monte degli Ulivi dopo aver cantato un inno: Mc 14, 26). Anche l’inizio del Vangelo di Giovanni era inizialmente un inno (confrontate infatti i versetti di Gv 1, 6-8 che sono in prosa, il che significa che c’è stata un’inserzione aggiuntiva nel testo che aveva una metrica precisa), e perfino la formula dell’apostolo Tommaso «Signore mio e mio Dio» (Gv 20, 28), che sembra un fatto storico, non fa eccezione perché ben può essere una formula battesimale o liturgica (analoga a «Gesù è il Signore») usata già ai tempi della Chiesa degli evangelisti.

Non basta ancora: assai probabilmente, siamo pure davanti a una consapevole e voluta scelta per contrapporsi al fatto che Domiziano, imperatore dall’81 al 96, esigeva che ci si rivolgesse a lui col titolo “Signore e Dio” (Svetonio).

I cristiani con quella formula rimarcavano invece che non era l’imperatore il vero Signore e Dio, ma piuttosto Gesù (Lenaers R.).

Se Ercole, se gl’imperatori romani potevano essere annoverati tra gli dei, perché un cristiano nato nel paganesimo non avrebbe potuto venerare come dio la figura salvifica di Gesù di Nazareth? Sicuramente egli meritava questo titolo mille volte di più di tutti gli dei e semidei di cui la cultura pagana era ricca. Dunque, sembra ben ragionevole la supposizione che “dio” sia stato usato inizialmente nel senso ellenistico come un titolo di onore. Buon gioco in tutto questo ebbe appunto l’irrompere trionfale nella Chiesa dell’elemento ellenistico e il rapido affievolirsi dell’elemento rigorosamente monoteista ebraico dopo la distruzione di Gerusalemme del 70 d.C.

I cristiani usciti dal paganesimo, attribuendo a Gesù il titolo di Dio, davano un nome all’immagine che si erano fatti di lui in base alla predicazione sentita, all’esperienza di salvezza e di rinascita interiore che ne risultava. Se sapevano (pur non avendolo incontrato) che era un uomo, era altrettanto chiaro che non apparteneva a questo deludente mondo; lo superava ed era in questo senso trascendente.

Lentamente, con quel titolo, i fedeli provenienti dal paganesimo, che presto sopravanzarono i giudeo-cristiani, sottolineavano il fatto che Gesù, come gli dei del pantheon ellenistico, trascendeva i nostri limiti umani: era ormai immortale, non soffriva più, non era più legato alle limitazioni del mondo terreno, udiva e vedeva ciò che accadeva sulla terra, si prendeva cura di coloro che lo veneravano e imploravano il suo aiuto, e a quelli che credevano in lui dava la vita eterna dopo la morte (Lenaers R.).

Ci volle invece un bel po’ di tempo per cominciare a fare i conti con le implicazioni teologiche di una confessione che, nonostante il suo accento monoteista (ebraico), “cantava inni a Gesù come a un dio” (quasi deo, come Plinio il giovane scrive all’imperatore Traiano).

Chiamare Gesù Dio era, per i primi cristiani, semplicemente espressione della loro venerazione e della loro totale devozione a lui, non un’affermazione teologica e non ci si rendeva conto che si stavano acriticamente e pericolosamente mischiando due immagini (ebraica ed ellenistica) e due linguaggi diversi (Lenaers R.).

All’inizio, infatti, si credeva in Dio e si credeva in Gesù, senza porsi particolari problemi. Basta leggere cosa scrive Paolo (Fil 1, 2): Grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo. Nessun problema a tener ben separati i due soggetti. Invece, in qualche decennio, il linguaggio poetico dei canti si trasfuse nel linguaggio teologico, e una pratica di preghiera finì col trasformarsi in una regola del credere (Lenaers R.: l’uso della preghiera, lex orandi, diventa regola di fede, lex credendi).

Progressivamente, il ricordo di Gesù si trasformò sempre più nella direzione del culto di Gesù-Dio e, da Figlio dell’Uomo, Gesù passò sempre più frequentemente a Figlio di Dio, e poi direttamente Dio (titolo, si ripete, che Gesù mai si è auto-attribuito nei vangeli).

La salvezza-in-Gesù da parte di Dio fu interpretata, stante la prassi credente della preghiera rivolta a Gesù, nella prospettiva della vera divinità di Cristo (Schillebeeckx E.). In questa direzione spinse anche la teologia politica, come si è visto nell’articolo I concili ecumenici imperiali (n. 448 di questo giornale, https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/numeri-dal-26-al-68/1999992---aprile-2018/numero-448---15-aprile-2018/i-concili-imperiali).

Ma come si poteva riconoscere Gesù come Dio senza al contempo contraddire l’unicità di Dio, visto che Gesù non era sicuramente Yhwh o Dio-Padre? Spiega il gesuita Lenaers che gli sforzi per armonizzare questa incongruenza non cominciarono prima del terzo secolo: il che significa che per circa due secoli i cristiani non si erano seriamente posti il problema dell’identità di Gesù. Se si torna al linguaggio iniziale delle Scritture, prima delle dispute cristologiche e trinitarie che diedero a Gesù una posizione divina, risulta evidente che i titoli protocristiani attribuitigli sono stati da subito molteplici (Signore, Salvatore, Messia, Agnello di Dio, Figlio dell’Uomo, Figlio di Dio, cioè la controparte umana di Dio: titoli che possiamo ancora oggi utilizzare al pari dei primi testimoni del cristianesimo); questa molteplicità di appellativi dimostra che nessuna singola immagine e nessun singolo titolo era in grado di esaurire la ricchezza che i fedeli seguaci di Gesù riconoscevano alla sua personalità. Alla fine si è posto l’accento sul singolo titolo “Dio”, perché era più facile fare ricorso a un unico titolo omnicomprensivo e per di più chiaramente superiore a tutti gli altri, giungendo, sì, all’idea di assolutezza (perché più di Dio nulla può esistere), ma finendo col far prevalere una determinata tradizione a scapito delle altre. Mi sembra abbastanza evidente che se Gesù fosse stato considerato Dio fin dall’inizio, tutti gli altri titoli non sarebbero stati usati così diffusamente perché pacificamente inferiori: del resto, quando parliamo di Dio-Padre, non usiamo per Lui titoli diversi.

Solo al termine di un’evoluzione durata ben cinque secoli (grosso modo dal II al VII secolo), che ha creato crisi e spaccature particolarmente gravi perché lacerò la gerarchia ecclesiastica, mettendo i vescovi gli uni contro gli altri non in atteggiamento costruttivo di dialogo, ma di reciproca scomunica, la Chiesa, una volta elaborata faticosamente una risposta, ha smesso di interrogarsi, ha smesso di rivolgere di nuovo la domanda a sé stessa, e si è limitata a diffondere esclusivamente la risposta che aveva ormai scelto. Ancora oggi, infatti, la Chiesa ufficiale non ammette dubbi e con convinzione conferma l’identità fra Gesù e Dio, una sola persona divina, con natura divina, ma anche con natura umana senza però essere persona umana. Per di più, vedendo una minaccia in qualsiasi sfida al castello teologico da essa stessa costruito, vorrebbe che nel cuore dei cristiani risiedessero solo appropriate risposte (le sue), mentre non è affatto entusiasta di sentirsi porre delle domande.

Una prima conclusione che - mi sembra - si debba trarre è che Gesù non solo non si è mai preoccupato di spiegare chi effettivamente era (cfr. Mt 11, 3: alla domanda di Giovanni Battista su chi realmente era, Gesù non chiarisce chi è, ma cosa fa), ma neppure ha mai combattuto, a differenza di quanto ha fatto in seguito l’istituzione, per far prevalere una sola fra le tante idee che da subito già circolavano su di lui; men che meno ha anticipato la necessità di cacciare (scomunicare) chi non vedeva in lui una persona divina con due nature (divina e umana): anzi, non ha mai rifiutato nessuno e si è sempre rifiutato di cacciare chi lo avvicinava (Gv 6, 37: «colui che viene a me, non lo caccerò fuori»). Perfino se quel qualcuno non lo seguiva. A conferma, c’è questo bel episodio: quando gli apostoli vedono uno sconosciuto che riesce dove loro avevano fallito ne sono molto disturbati, corrono da Gesù e gli dicono: «Abbiamo visto uno che cacciava i demoni nel tuo nome. Glielo abbiamo impedito». Perché? Non perché non seguiva Gesù, ma perché «non seguiva noi» (Mc 9, 38-40), cioè non faceva parte del gruppo che, essendo a diretto contatto col Maestro, si riteneva privilegiato. Più importante della persona singola è il gruppo, il gruppo organizzato, l’istituzione, la Chiesa.

Anche per gli apostoli (Giovanni parla per tutti, visto che usa il “noi”), da subito, l’istituzione interessa più della persona; che un uomo sia liberato dal demonio non è il primo dei loro pensieri: interessa di più l’istituzione, la comunità dei discepoli, l’ecclesia. Eppure, se quel tizio era riuscito a cacciare i demoni, vuol dire che in qualche maniera seguiva Gesù, anche se non sapeva quale fosse la sua vera identità, tant’è che Gesù ordina loro: «Non glielo proibite». E Gesù fa comprendere che si può essere uomini di Dio anche senza essere uomini della comunità (di Chiesa): “chiunque dà da bere un bicchiere d'acqua” (Mt 25, 35), cioè chiunque fa del bene è uomo di Dio.

Allora, come seconda conclusione, va detto che non sono i titoli che attribuiamo a Gesù il criterio per distinguerci come suoi seguaci, o meno.

La Chiesa continua a insegnarci che bisogna imitare Cristo, vero uomo e vero Dio. Ma è possibile seguire solo un uomo, non certo Dio. Mai una creatura umana sarebbe in grado di seguire un Gesù elevato all’Infinito. Se ci viene proposto un modello “infinito”, per principio sarà impossibile imitarlo. Se allora noi pensiamo a imitare Gesù che è Dio, siamo perdenti in partenza non potendo neanche lontanamente pensare di competere con Dio. Se invece, come dicono gli evangelisti, Dio ha dato la capacità a tutti gli uomini di diventare figli suoi - e Gesù resta l’uomo che ha aperto la strada -, resta per tutti una speranza di poter cercare di imitarlo (Maggi A.).

Pertanto, sostenere che la Chiesa è riuscita a proporre con piena evidenza che Gesù è vero Dio e vero uomo, cosa che prima poteva apparire nebulosa, mi sembra affermazione un po’ azzardata, tant’è che ancora oggi sono pochi i credenti che riescono a rispondere linearmente alla domanda con cui c’interpellano sempre i musulmani, i quali ci accusano di politeismo: com’è possibile riconoscere Gesù come Dio senza al contempo contraddire l’unicità di Dio? Il cattolicesimo, a questa semplice e stringata domanda, ha risposto con fiumi d’inchiostro, con libri su libri; ma se occorre scrivere tanto, è perché non si ha una risposta semplice e chiara, che tutti possano facilmente capire.

Infine teniamo presente che l’essenza del cristianesimo non consiste nell’attribuire a Gesù il titolo di Dio, ma nell’ammettere che aspettiamo la nostra salvezza interamente dalla fede in lui, perché in lui noi riconosciamo comunque l’azione di Dio che si avvicina a noi per salvarci e perché effettivamente siamo in grado di sperimentare questa salvezza. In altri termini, la domanda è: dire che Gesù è Dio, la seconda persona della Trinità, lo rende forse più Salvatore di quanto lo vedevano i primi discepoli dei primi decenni che non pensavano a lui come Dio, ma solo come uomo accreditato da Dio che ci porta la salvezza?

Dario Culot