Rosso habesha e francescano

Domenica scorsa, all’Angelus, il Papa ha annunciato il nome dei 20 nuovi cardinali – di cui 5 ultraottantenni - che riceveranno la berretta il prossimo 14 febbraio.

Altri, ben più autorevoli, commentatori (ad esempio Andrea Tornelli, al link http://vaticaninsider.lastampa.it/vaticano/dettaglio-articolo/articolo/concistoro-consistory-consistorio-38373/), hanno analizzato il significato di tali nomine che spiazzano completamente previsioni e coerenze date per scontate.

Che sedi tradizionalmente cardinalizie, come Torino e Venezia, continuino a non vedere imporporate le vesti del proprio vescovo indubbiamente fa pensare.

Ma sembra di capire che per Francesco papa il rosso sia da associarsi a tutt’altro rispetto al prestigio.

Viene in mente il libro di Leonardo Boff, “La fede nella periferia del mondo”, edito in Italia da Cittadella.

C’è un colore rosso che segna piuttosto l’intensità della vita vissuta, le sue passioni, i suoi struggimenti e, senza dubbio, i suoi amori.

Vorremmo qui soffermarci in particolare su una nomina soltanto.

Dell’elevazione a cardinale di Mons. Berhaneyesus Demerew Souraphiel, arcivescovo di Addis Abeba, non pare si siano prodotti sinora commenti.

Divenne vescovo – ausiliare sempre di Addis Abeba - il 25 gennaio 1998 per imposizione delle mani del suo predecessore, il Card. Paulos Tzadua, che, agli inizi degli anni Duemila, venne pure a Trieste invitato dall’Università.

Ma, proprio nel caso di Francesco papa, è sufficiente argomentare che Addis Abeba, cardinalizia prima, non poteva non essere cardinalizia dopo e sempre? L’eventuale risposta positiva non soddisfa. Torino e Venezia, per appunto, stanno lì ad attestare altre visioni.

Il nuovo Cardinale è l’unico di rito orientale nominato da Francesco.

E tuttavia non diventa cardinale, per decisione dell’attuale papa, nessun altro gerarca orientale, né patriarca – armeno, caldeo, copto, melkita, siro (mentre quello maronita lo è già per nomina di Benedetto XVI) -, né arcivescovo maggiore (non diventa cardinale, ad esempio, mons. Svjatoslav Ševčuk, arcivescovo maggiore degli Ucraini, mentre gli arcivescovi maggiori malabarese, malankarese e rumeno furono elevati al cardinalato sempre da papa Ratzinger).

Che cosa sono le Chiese Cattoliche Orientali?

Sul nostro giornale abbiamo affrontato il tema molte volte, ma merita rifocalizzare per un istante l’attenzione su tale realtà ancora pressoché sconosciuta.

Le Chiese Cattoliche Orientali sono Chiese che vivono all’interno della medesima Chiesa Cattolica – non sono Ortodosse, tanto per essere chiari – ma hanno caratteristiche proprie di assoluta originalità, nel diritto, nella liturgia, nella spiritualità. Sono, potremmo semplificare, Chiese autonome ma non indipendenti.

La riflessione interna alla Chiesa cattolica sui iuris – cioè, per appunto, benché un po’ grossolanamente, autonoma dal punto di vista giuridico – di Eritrea ed Etiopia, cosiddetta “Chiesa Etiopico-Alessandrina” o meglio “Chiesa Ghe’ez” (il “ghe’ez” è l’antica lingua liturgica del Corno d’Africa, corrispondente al nostro latino), la valutazione interna a questa Chiesa, dicevamo, si è negli ultimi decenni molto interrogata quanto alla possibilità di far rivivere l’antica tradizione dell’ordinazione presbiterale di uomini sposati. Sappiamo che qualche migrante abissino, residente in Europa, ha posto con frequenza al proprio vescovo di origine specifica domanda sul punto: posso diventare prete, anche se ho moglie e figli, a beneficio dei miei fratelli e delle mie sorelle qui?

Alle pagg. 101 e 102 del nostro, ormai piuttosto risalente, volume “Keshi. Preti sposati nel diritto canonico orientale”, pubblicato da Franco Puzzo Editore nel dicembre 2000, riportavamo quanto segue: «In una lettera autografa a noi indirizzata, il card. Paulos Tzadua, arcivescovo emerito di Addis Abeba, così ci scrive: «Il can. 758 § 3 del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali stabilisce la norma generale per quanto riguarda l’ordinazione di uomini sposati. Questo in teoria ci riguarda come riguarda tutte le Chiese Cattoliche Orientali. In pratica però, la nostra Chiesa, attenendosi a quanto praticato dai missionari, non ammette l’ordinazione di uomini sposati. Avviene invece che presbiteri sposati e non sposati (monaci) passino dalla Chiesa Ortodossa alla comunione con la Chiesa Cattolica. In tal caso vengono ricevuti nel loro stato di presbiteri coniugati e di presbiteri celibi. In qualche diocesi dell’Etiopia e dell’Eritrea i casi sono frequenti. Ad Addis Abeba vi sono due casi di presbiteri monaci, quindi celibi, e un solo caso di presbitero coniugato.».»

E indicavamo, sempre nel nostro volume del 2000, a pag. 102, che: «Per investigare le fonti della disciplina particolare della Chiesa Alessandrina-Etiopica sui presbiteri viventi in Matrimonio, dobbiamo rivolgerci all’antico testo del “Fetha Nagast” o “Legislazione dei Re”, noto come ‘Codice Ecclesiastico e Civile di Abissinia’. Al primo paragrafo del capitolo VI di tale opera possiamo leggere: «(…) Ha detto Paolo apostolo a Tito suo discepolo: “Sappi che ti ho lasciato per (…) costituire a prete ciascuno nella sua città, come ti ho comandato, colui che non abbia macchia, chi ha sposato una sola donna, ed ha figli fedeli che non sono accusati di lascivia e che obbediscono.». Più avanti, il capitolo V prevede come causa di decadenza dallo stato presbiterale il sacerdote che «ha sposato successivamente due mogli », ma, d’altra parte, decade dalla dignità sacerdotale anche il prete che «crede che la legge del matrimonio, il matrimonio legittimo e il mangiar carne e bere vino sia cosa interdetta». Ancora il testo prevede, al “rastab” (una specie di capoverso o di sottoparagrafo) 3 dello stesso capitolo che, «se il prete o diacono si separa dalla moglie sotto il pretesto di servire Iddio, non gli è lecito il separarsi, e se ripudia sua moglie per questa ragione, sia deposto.». Il capitolo IX, al “rastab” 13 prescrive che «chi ha sposato una seconda volta dopo il battesimo, chi è passato a seconde nozze, o tenga seco una concubina dopo sposata una donna, pubblicamente o nascostamente, o abbia sposato una vedova, o due sorelle, o una donna sospetta d’impurità o una fornicatrice o serva, o una che va ai teatri o una repudiata, o una che sia accasata, non può esser vescovo o prete o diacono».»

Sul “Fetha Nagast” esiste uno studio recente. Ci riferiamo a The Fetha Nagast and Its Ecclesiology: Implications in Ethiopian Catholic Church Today di Andre Domnic Negussie, edito nel 2010 da Peter Lang. A p. 237 l’autore sostiene: «(…) the ecclesiology of the FN [Fetha Nagast] is holistic and does not tolerate any arbitrary division between the one and the many. The ordained and non-ordained ministry are necessary for the Church; these ministries are at service of the laypeople.»

Potremmo richiamare l’insegnamento costante degli storici per cui i divieti sono preziosissimi a fini conoscitivi, perché permettono di conoscere quanto più dettagliatamente possibile – ed auspicabile – le effettive pratiche concrete su cui le norme intervengono.

Alcuni canonisti, anche orientali, ritenevano che, proprio alla luce di quanto rilevato dal card. Tzadua e nonostante le antiche previsioni del Fetha Nagast, fosse maturata, come si dice tecnicamente, una particolare consuetudine canonica in ambito cattolico abissino, cioè una norma diversa dalle norme legislative ma dotata della medesima forza obbligante e contraria all’ordinazione presbiterale di uomini sposati. Stop dunque ai preti sposati nella Chiesa cattolica Gh’ez.

Ed invece si è venuti a sapere solo un mese fa che gli “Acta Apostolicæ Sedis” di recente pubblicati, vale a dire, per capirci, la “Gazzetta Ufficiale” della Santa Sede, al vol. CVI, nel n. 6, del 6 giugno 2014, pp. 496-499, riportando i dettagliati “Pontificia Praecepta de Clero Uxorato Orientali” emessi dalla Congregazione per le Chiese Orientali – il dicastero papale che per appunto si occupa delle Chiese Cattoliche Orientali -, riportano, all’inizio della specifica “Nota Introduttiva” che precede il disposto normativo, le seguenti considerazioni: «Il c. 758 §3/CCEO stabilisce che: «A riguardo dell’ammissione agli ordini sacri dei coniugati si osservi il diritto particolare della propria Chiesa sui iuris o le norme speciali stabilite dalla Sede Apostolica». Ciò consente che ciascuna Chiesa sui iuris possa decidere circa l’ammissione dei coniugati agli ordini sacri. Al presente, tutte le Chiese orientali cattoliche possono ammettere uomini sposati al diaconato e al presbiterato ad eccezione delle Chiese siro-malabarese e siro-malankarese.»

Dunque la questione è definitivamente risolta. In modo che può persino destare sorpresa, se non – ma non sembra – sconcerto: nessuna consuetudine ostativa all’ordinazione presbiterale di uomini sposati si è formata nella Chiesa Orientale di Eritrea ed Etiopia. Al contario.

Da parte nostra, avevamo avanzato a pag. 234 di “Keshi”, e ci permettiamo di riportarla qui, la seguente considerazione (chiedendo scusa per l’inelegante autocitazione): «Il Card. Paulos Tzadua, Arcivescovo emerito di Addis Abeba, nella lettera a noi inviata, si è espresso proprio in tal senso [contrario al formarsi di una consuetudine]: il fatto che la Chiesa Cattolica Etiopica non ordini da molto tempo uomini sposati al sacerdozio non può essere considerato conseguenza di una norma consuetudinaria, ma di una semplice “praxis”, proprio perché il diritto comune orientale ormai contiene una previsione normativa generale – anzi quasi parenetica, se considerata rivolta al Legislatore di diritto proprio delle singole Chiese Orientali - sullo stato di vita matrimoniale dei chierici, derogabile solo da una norma di diritto particolare espressamente formulata in tal senso [il riferimento è al can. 373 del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali]».

Molti anni fa una bellissima “ambasciatrice” italo-abissina, per mandato del sottoscritto, ebbe a consegnar in Addis Abeba proprio a Mons. Souraphiel il libro “Keshi”, ricevendone parole di compiacimento quanto al fatto che un italiano, un triestino, un europeo – “Stefano” insomma, il cui nome venne così ripetuto da Sua Eccellenza, oggi Eminenza -, si peritasse di far conoscere istituzioni ecclesiali tipicamente d’Oriente, come quella dei preti sposati.

E noi vorremmo leggere la nomina cardinalizia dell’arcivescovo di Addis Abeba come una prosecuzione di commento pontificio, quasi un’enfatizzazione, del contenuto della soluzione contenuta nei “Praecepta” di sui sopra.

Interpretazione eccessiva e tendenziosa? D’accordo, ci sottoponiamo di buon grado ad ogni critica di estremizzazione ed unilateralità, con un’avvertenza però.

Può essere che sia del tutto campata in aria la nostra ipotesi. Può accadere che, nonostante norme e pronunciamenti, nessun prete sposato cattolico venga mai più ordinato nelle Chiese di Eritrea ed Etiopia. Però il senso del mistero, dell’insondato e dell’inesauribile, di qualcosa che supera tutte le codificazioni culturali a noi note e per noi pacifiche, questa luce sorgiva – “orientale” – non potrà più sfocare.

Che intendiamo dire?

Nel nostro tentativo di una possibile decodificazione culturale, i “keshi”, cioè i “preti sposati” abissini – distinti dagli “abba”, i preti non sposati e pertanto monaci – testimoniano non già di un accomodamento borghese, bensì di una radicale contestazione proprio ai modelli consolidati e ormai indiscutibili. Aprono uno spiraglio nel senso della compresenza, della non esclusione, dell’et et, che mette in crisi i vincenti (ma quanto poi?) modelli tecnocratico-competitivi. Parlano di un altro mondo. Annunciano la fine del mondo, la stessa da cui pure il papa ha indicato di provenire.

Paul Ricoeur su “Avvenire” di domenica scorsa, 4 gennaio 2015, in un’intervista a pag. 17, così afferma: «I grandi pensatori del XVIII secolo, come Adam Smith e altri, hanno visto nel commercio, nel mondo degli affari, e quindi nel capitalismo, lo sviluppo di quello che chiamavano le “passioni dolci”, opposte alle passioni bellicose. Quello che non avevano previsto era che l’impresa genera la guerra economica per mezzo della concorrenza e noi siamo in guerra economica. In modo che vi è, come ho detto, una polemizzazione dell’economico e del sociale (…). Si tratta di una questione molto importante, su cui non avevo mai detto nulla fino a ora.»

Ecco ci pare che la nomina a cardinale dell’arcivescovo di Addis Abeba inizi a dire qualcosa su temi per i quali nemmeno la più alta ed insigne filosofia ha sinora avvertito la necessità di parlare.

Che abolisca progressivamente la polemizzazione, non però attraverso una resa al sistema, bensì mediante una diversa strategia “polemologica”, come direbbe Emiliano Bazzanella.

Se dunque può trattarsi di “luci rosse” ecclesiologiche, l’accesso continua ad essere vietato solo per compassate presunzioni ed incapacità di rinnovarsi in fedeltà alla più vera tradizione.

Stefano Sodaro