Masquerade en maison haute

Carnevale di Venezia - foto tratta da commons.wikimedia.org

La notizia della settimana in ambito ecclesiale non strapaesano, diciamo così, è stata senza dubbio la condanna del Card. George Pell, già Prefetto della Segreteria per l’Economia della Santa Sede.

La prima annotazione che non si può, almeno per quanto ci riguarda, fare a meno di registrare è tuttavia l’indisponibilità pubblica, l’inaccessibilità, per quanto noto, della sentenza. Tutti parliamo e scriviamo della condanna del porporato, ma il documento giudiziale che contiene quella condanna nessuno lo conosce – pare – e nessuno lo consulta. Un po’ come se lo storico della pace di Versailles facesse a meno di andarsi a leggere il corrispondente Trattato, una cosa singolare, credo lo si debba ammettere, se non addirittura stravagante.

Come che sia, la condanna è tuttavia certa.

E qui, cioè davanti a questa condanna senza conoscenza di sentenza, i fronti interpretativi non sono due, contrapposti, ma tre.

Il primo.

Poiché la nomina del Card. Pell alla guida del citato dicastero di curia romana - ed anche, almeno inizialmente, a far parte del cosiddetto C9 -, è di diretta provenienza papale e dunque la sua condanna determinerebbe una evidente instabilità istituzionale dello stesso attuale pontificato, è bene “raffreddare” ogni entusiasmo perché giustizia s’è fatta. Qualcuno addirittura si è spinto ad affermare che, stante l’affaire Viganò, la condanna «è un attacco diretto al Papa» (https://www.lastampa.it/2019/02/27/vaticaninsider/caso-pell-imbarazzo-e-dolore-in-vaticano-un-attacco-diretto-al-papa-ngEyHoZIkwVsdAYAtR96PK/pagina.html).

Sarebbe pertanto opportuno prendere piuttosto le distanze dall’ignota sentenza, entrare nel merito giudiziario giornalisticamente – com’è ben lecito, sia chiaro – ricostruendo plausibilità o inverosimiglianza di un vescovo che s’assenta nel corso di una processione solenne per commettere dei reati e consegnare domande che evitino di fare del cardinale un bersaglio ormai facile di moralismi e desideri di nodo scorsoio o sedia elettrica.

Il secondo fronte.

Pur – merita ribadirlo ancora – in assenza del fondamentale documento del giudice australiano, la colpevolezza dichiarata (non da lui ma dalla Corte appunto) dell’ex prefetto vaticano dimostra la mancanza di coerenza, di credibilità, di autorevolezza spirituale e morale nientemeno che dell’intera Chiesa Cattolica, all’interno di tutte le sue articolazioni, e di tutti suoi i preti. Nessuno è in grado di dirigerla questa Chiesa, di accreditarla più neppure come povera seguace del Cristo di Nazaret. Tutto, tutta, da buttare, non resta nulla e nulla si salva. Lo scandalo criminale della pedofilia clericale si impersona nella figura del cardinale condannato che ne diventa l’emblema e dunque muoia Sansone e tutti i Filistei. Parafrasando Nietzsche verrebbe da esclamare che Dio è morto e loro (non noi, come asseriva il pensatore tedesco), i pedofili, lo hanno ucciso.

Il terzo fronte.

Importa sopra ogni cosa, e sopra ogni ruolo e ogni ricaduta giudiziale, prendersi cura di chi sia stato violentato, violato, massacrato da una sessualità perversa divenuta esercizio malato di un potere asseritamente sacro ed invece intrinsecamente diabolico in quanto criminale. Importano le vittime, non i carnefici. Importa la cura dei primi, mentre la condanna dei secondi è (solo) una necessità, una conseguenza, un cascame. I vescovi non devono essere obbligati a denunciare i propri preti che siano riconosciuti coinvolti in fatti di rilevanza penale, cioè – ma qui cominciano i problemi ermeneutici – di competenza statale. E così, nel caso di Pell, nessun procedimento canonico è stato avviato a seguito delle denunce raccolte dalla magistratura australiana e nemmeno a seguito del rinvio a giudizio; viene avviato ora, quasi che la notitita criminis sia costituita soltanto dalla condanna con le sue conseguenze, in quanto tale non più ignorabile.

Bisogna allora fermarsi. Riflettere ora riprendendo fiato.

Mettiamo assieme, se ci riusciamo, tutti gli elementi.

Un fatto orribile viene alla luce perché un bambino, una bambina, parla e qualcuno lo, la, ascolta.

Questo fatto, di per sé, astrattamente, va denunciato – usiamo i riferimenti dell’ordinamento italiano – alla Procura della Repubblica, ai Carabinieri, alla Polizia di Stato. Su questo bisogna avere e cercare chiarezza. Io esigo che lo Stato agisca verso chi ha commesso reati, non che ci sia un’altra Autorità, neanche se “divina”, delegata in qualche modo a perseguirlo e sanzionarlo.

Ma con ciò la responsabilità di chi ha obblighi di controllo verso chi commetta reati non viene certo meno, anzi. Proprio chi ha tali obblighi dovrebbe presentare un esposto all’autorità giudiziaria o di polizia qualora venga a sapere di comportamenti fortemente sospetti di un qualunque suo controllato. Sempre riferendoci alla prassi italiana, valuti il magistrato inquirente se nei fatti rappresentati vi siano estremi di rilevanza penale.

E qui, però, un certo sistema confessionale va totalmente in crisi. Proviamo a vedere e dire perché.

L’ordinamento canonico conosce due “fori”, cioè due ambiti. Il “foro esterno”, ossia l’ambito pubblico, e il “foro interno”, che pubblico non è affatto e che può essere sacramentale, se riferito al sacramento della riconciliazione (la confessione, per capirci), od anche extra-sacramentale.

Il “foro interno” non si può abolire. Ed il motivo è abbastanza semplice. Adottando una schematizzazione un po’ grossolana, esiste un “foro interno” così come esiste un segreto professionale. Il professionista tenuto al segreto non può denunciare il proprio cliente per quanto questo gli “confessi” all’interno del rapporto professionale, salvo non si tratti di un professionista che è anche pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. Per esemplificare, se io vado dallo psicologo e ho commesso un reato che gli rivelo nel corso del colloquio, lo psicologo non solo non può andare a denunciarmi ma neppure può essere chiamato a dare informazioni o a deporre su quella mia rivelazione.

E tuttavia se invece il “foro interno” viene adito da una vittima?

Le cose cambiano completamente. Non nel senso che quell’ambito possa essere violato, bensì nella prospettiva di comprendere che la “riservatezza”, la “confidenza”, persino il “sigillo” sacramentale, delle parole di chi riesca a rivelare d’essere stato vittima di una violenza sessuale, o di qualunque tipo, comprende necessariamente la punizione – sì, proprio così, la punizione – dell’autore di quella violenza, non solo il risarcimento del danno.

Allora, se così è, il necessario “quarto fronte” che può costruirsi, davanti alle vicende di cui il caso Pell diventa cartina di tornasole, è quello del rigore oggettivo, verrebbe da dire “tecnico”, che convochi tutte le implicazioni presenti in fatti simili. Ad esempio, se il pedofilo è ritenuto un malato, potrebbe non essere imputabile e nemmeno condannabile, dunque attenzione. Se le motivazioni di una certa sentenza non sono conosciute, manca la conoscenza dell’iter logico-giuridico che ha portato alla condanna e non è poca cosa. Se si invoca la pena di morte per il colpevole, si vanifica la campagna contro la pena di morte che ha ormai un credito universale. Se si insinua l’idea che la difesa in giudizio di chi sia accusato dei peggiori crimini sia superflua, si spalanca la porta ad un altro mostro, quello della giustizia del più forte in causa. Se si pensa che quel che dicono i bambini in effetti non sia poi mai così vero e vi si debba, come si dice, “fare la tara”, si scardina alla base ogni rapporto di fiducia in un contesto, quale quello ecclesiale, che o si basa sulla fiducia o defunge nella presa di distanza e nel sospetto. La fiducia va ai più piccoli, ai più indifesi, ai più deboli, non ai potenti e agli eccellenti. La “presunzione di fiducia” – per fare un po’ i giurisperiti – che i vangeli additano è quella di coloro ai quali il sistema fiducia non riterrebbe proprio di dare. E ci sono i bambini, ma anche le prostitute, gli esattori delle tasse, gli sperperatori di ogni bene paterno.

Dunque sembra richiesto un esercizio intellettuale un poco particolare. Quello di prendere le distanze dai nostri coinvolgimenti viscerali per smascherare le tante identità che si affastellano dietro chi a lungo è stato protetto da un sistema omertoso di silenzi e occultamenti.

E però per capire – sempre evangelicamente – quante siano le legioni dell’identità altrui, devo comprendere quante identità abbia io stesso e rappacificarmi con esse.

Quindi, secondo momento, oggettivare tutto e sempre, “farmi tecnico” il più possibile, che io sia giornalista, avvocato, giudice, vescovo, promotore di giustizia, medico o poliziotto.

Poi, terzo momento, agire.

Forte (o debole) di quel che so di me e di quel che so di fatti a me completamente estranei, e perciò pure delle persone in esse implicate, muovermi e assumere le mie determinazioni. Salire al piano superiore rispetto alla maschera delle contingenze – una maschera per niente ilare e carnevalesca – e adottare un’altra maschera, pure assai seria, quella della professionalità.

Per occuparsi di fatti come quelli di cui qui si discute non è ammesso alcun dilettantismo. Forse è il caso di ripeterlo, di ripeterlo a me stesso: per approfondire crimini paurosi come quelli pedofili, e discuterne, non sono ammessi dilettanti, chiunque essi siano.

Il piano superiore può corrispondere – figurativamente - ad una casa messa più in alto. Una casa alta.

Metafora di un appassionarsi, non secondo viscerale irrazionalismo, che nulla sottrae alla professionalità ma anzi la innerva di tutto ciò per cui merita dare la vita e difenderla, averne cura: la poesia, la bellezza, l’amore, l’arte, la filosofia, il sapere giuridico, letterario, musicale, pittorica, psicanalitica, storico, teatrale e teologico.

Perché la bellezza nulla ha a che vedere con il crimine e con la violenza.

Buona domenica.

Appuntamento a Casa Alta.

Stefano Sodaro