2 novembre 2015

Andrea Ponso, in un post su Facebook, ha posto la seguente domanda, convocando Andrea Grillo e, assai indegnamente, il sottoscritto: «Cosa ha insegnato il rito e la sua pratica al sinodo? Forse, principalmente, quella capacità di tenere insieme norma ed evento, immediatezza e mediazione, gerarchia e comunità, attenzione alla concretezza delle singolarità viventi e relazionalità, conversione continua non solo dei fedeli ma anche delle gerarchie - insomma, la capacità di lavorare non per limitare e gestire la grazia ma, piuttosto, per riuscire a vederla e a riceverla dove liberamente essa stessa si dona.»

Andrea Grillo ha risposto qui http://www.cittadellaeditrice.com/munera/azioni-rituali-e-sinodo-una-buona-domanda/.

Per quanto mi riguarda, di necessità devo limitarmi alla mia prospettiva assolutamente parziale, pure residuale, di suo umile e direi pure “ultima”, quella giuridico-canonistica.

Come ha ben enucleato Grillo, il rito, il celebrativo, la liturgia stanno prima, molto prima della normazione sia magisteriale sia etico-personale.

Ma se parliamo di “tradizione rituale” da un punto di vista strettamente canonistico, dobbiamo constatare che la nozione ha un preciso significato, quanto meno a norma di quel che dice il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali (CCEO).

Eppure questo significato afferma molto di meno di quel che si potrebbe pensare sulle presunte origini allogene delle stesse tradizioni. In altre più semplici parole: non c’è alcuna norma, norma giuridica intendo, che fondi una tradizione rituale, dovendo piuttosto solo limitarsi a riconoscerla.

Accade così per le cinque grandi Tradizioni rituali dell’Oriente Cattolico: l’antiochena, l’alessandrina, l’armena, la bizantina, la siro-orientale.

Afferma il can. 27 del CCEO: “Si chiama, in questo Codice, Chiesa sui iuris, un raggruppamento di fedeli cristiani congiunto dalla gerarchia, a norma del diritto, che la suprema autorità della Chiesa riconosce espressamente o tacitamente come sui iuris.”

Dunque l’autorità riconosce soltanto, espressamente o tacitamente, ma non crea.

La tradizione rituale è un continuum di prassi che attinge ad un nucleo fontale e fondativo direttamente afferente alla fede ma assai distante dal canone, quanto meno come lo intendiamo dal codice piobenedettino in poi.

Ed il can. 28 CCEO nei suoi due paragrafi infatti precisa: “§1. Il rito è il patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare, distinto per cultura e circostanze storiche di popoli, che si esprime in un modo di vivere la fede che è proprio di ciascuna Chiesa sui iuris.

§2. I riti di cui si tratta nel Codice sono, a meno che non consti altrimenti, quelli che hanno origine dalle tradizioni Alessandrina, Antiochena, Armena, Caldea e Costantinopolitana.”

Al Sinodo sono dunque comparsi - così pare a me - tentativi ecclesiologici, pur parziali e provvisori, di nuovi “riconoscimenti”.

Dobbiamo avere il coraggio di riconoscere nuove tradizioni rituali.

Quelle che nascono, sgorgano, dalle prassi celebrative delle nostre stesse esistenze, delle nostre – come opportunamente si sottolinea – narrazioni.

Diversamente, la stessa comunità cristiana diventa afasica, perde la parola fontale, quella propriamente celebrativa e c’è il rischio che la modernità esprima una propria ritualità per così dire post-etica.

Consideriamo che la massima parte delle dottrine neoliberiste indica questi stessi ammaestramenti, spesso dalle apparenze propriamente religiose, come necessari ammodernamenti di vecchie istituzioni.

Un Paese moderno è, ad esempio, un Paese che in buona parte dimentica, che non ha memoria, che decide di congedare ideologie ed utopie, che non scrive più, non elabora, non critica, ma fa, produce.

Anche l’odierna cronaca giudiziaria vaticana sembra quasi dire che vi è un accerchiamento neorituale intorno ai simboli sommi dell’Antico in nome dell’efficienza, dell’innovazione, della competenza tecnica.

Non possiamo stare alla finestra per lasciare che il mito del turbo efficientismo capitalista occupi militarmente ogni spazio del simbolico.

È come se il Sinodo avesse aperto una porta, da un lato, alla possibilità/necessità di sottrarre il matrimonio alla ritualità post-moderna e post-etica, “consumistica” potremmo approssimare, ma, dall’altro, pure alla consapevolezza che per riuscirvi la tradizione non debba più apparire “vecchia”, vetusta, incapace di parlare.

Ci sono o non ci sono nuove tradizioni rituali che celebrano le nostre vite matrimoniali?

Merita pensarci ancora un istante: sul rito si regge la stessa intera partizione ordinamentale, dunque giuridica di rimando per così dire, tra un diritto d’Occidente ed uno d’Oriente.

Qui, al raccordo tra riconoscimenti già avvenuti di tradizioni rituali consolidate – per quanto sorprendentemente giovani, guardando ad Oriente – e timidi accenni di riconoscimenti di tradizioni rituali nuove, tutte occidentali, nostre ma non individuali, comunitarie ma non prima di tutto giuridiche, sta lo spazio del futuro che il Sinodo ha abbozzato.

Stefano Sodaro