Il Vaticano e le nostre vite

La cupola di San Pietro - foto del direttore

Il 28 marzo 2019 sono ricorsi due anni dalla morte, avvenuta a Trieste, di Giovanni Miccoli, il grande storico della Chiesa, dichiaratamente laico (nel senso proprio di non credente, un’ammissione resa con sofferenza e consapevolezza), che era pure nato a Trieste ed aveva insegnato per una vita intera nell’Università del capoluogo giuliano – con una parentesi biennale a Venezia -.

Di Miccoli restano – oltre al tratto di straordinaria umanità, disponibilità ed empatia (persino verso il povero sottoscritto direttore del presente giornale, ove Miccoli pubblicò ben due suoi studi: uno sulle dimissioni di Benedetto XVI, https://sites.google.com/site/larchiviodirodafa/numero-200---3-marzo-2013/in-margine-alle-dimissioni-di-benedetto-xvi-alcuni-spunti-per-una-riflessione, ed uno sullo scisma lefebvriano, https://sites.google.com/site/larchiviodirodafa/numero-300---1-febbraio-2015/deux-ans-apres) – il rigore metodologico, la totale dedizione alla ricerca della verità storica, l’oggettività dell’analisi ma, insieme a tutte queste componenti della sua identità di studioso, la sua passione, la sua autentica, completa, ardente, evidente passione per tutti i temi relativi allo strutturarsi della comunità ecclesiale nel tempo.

Rimaniamo a Trieste.

Alla fine dell’ottobre del 2014 una tragedia umana ed ecclesiale sconvolse la città: il parroco di un paese del Carso, nell’entroterra triestino, in sospetto di “crimina graviora” commessi anni addietro a seguito di una denuncia presentata da una donna al vescovo locale (secondo quanto riportano le cronache), si fece trovare impiccato in canonica proprio nel momento in cui il vescovo andava ad incontrarlo per ricevere le sue dimissioni dalla guida della parrocchia ed avviare i procedimenti canonici nei suoi confronti.

Segmentiamo gli elementi di quella terribile vicenda: linea pastorale episcopale di un certo tipo (decisamente filo-ratzingeriana), rivelazione/scoperta di un fatto di abusi, azione sanzionatoria da avviarsi verso il denunciato, morte del denunciato, fine di ogni altra notizia al riguardo.

L’opinione pubblica al tempo si spaccò: la “pulizia” invocata dal cardinal Ratzinger purtroppo poteva avere necrofore conseguenze collaterali non volute, ma la ricerca della verità deve pur avvenire “ad ogni costo”, si sostenne da un lato; una maggiore attenzione, quasi strategica, a non compromettere irrimediabilmente il percorso giudiziario, anche di risarcimento verso l’accertata vittima in esito a tale percorso, avrebbe consentito di approfondire fatti e cause profonde, si sostenne dall’altro. Ma – oggettivamente - la morte del parroco impedì che giungessero a compimento d’efficacia sia l’una che l’altra esigenza.

Il pontificato di Francesco è del tutto consapevole che, mentre le istanze poste dalla teologia della liberazione sudamericana non solo sono rimaste inascoltate tali e quali sino ad oggi ma sono diventate più che mai pressanti su scala planetaria e richiedono dunque finalmente una piena accoglienza ecclesiale, le interrogazioni della cultura moderna e postmoderna, in tutte le sue sfaccettature, neppure hanno ancora abbozzato una diffusa ed ecclesialmente dibattuta elaborazione teologica, pur auspicata da quel Concilio Vaticano II che si concluse nel 1965.

E tra queste “no fly theological zones” tutt’ora in vigore ci sono la questione delle donne e quelle degli abusi, o – se si vuol restare più “aerei” appunto – la questione della soggettività e la questione della sessualità. Si tratta di due gangli vitali dell’attualità ecclesiale, due nervi scoperti, due fili elettrici ad alta tensione. Qui la profezia di quelle istanze teologiche, che sono state finalmente accolte dopo 20 anni, ha stentato a giungere, non ce l’ha fatta, ha segnato il passo dei tempi. Un limite intrinseco? In parte sì ma in parte anche no.

Che il Cristianesimo sia questione di corpi e non di anime (se no perché mai Dio si sarebbe incarnato?) pare fuori di dubbio ormai a tutti, ma l’ascolto dei corpi singoli, delle loro narrazioni, dei loro linguaggi emotivi, biologici ed anche psichici è appena iniziato. Ed è un ascolto anche di immani sofferenze. Di individuali sofferenze, anzi – meglio – di personali, soggettive sofferenze.

Sul piano di un tale ascolto è in apparenza intervenuto con i lampeggianti accesi – proprio a mo’ di ambulanza di una improvvisata concessionaria di pubblico soccorso o d’automobile a sirene spiegate di forze di polizia sempre in concessione a terzi – un certo settore di Chiesa che non può minimamente consentire con le linee magisteriali di riflessione dell’attuale pontefice, nonostante tutti i baci d’anello ricercati e magari negati.

Chiariamo però subito un punto: quella immane sofferenza c’è, immane sofferenza di corpi con le loro storie e le loro segretezze piene di pudore e di dolore, e se viene ascoltata ed intercettata dagli uni invece che dagli altri, questi altri poi restano di netto tagliati fuori.

Con il diritto canonico non avviene altrimenti: possibile che solo una certa scuola abbia la possibilità di intervenire, di specificare, di dettagliare, di dettar norme de iure condendo e che invece un altro approccio canonistico, decisamente più vicino a Francesco papa, sia quasi del tutto silente?

Ma la domanda è: la “dottrina” è di sicuro in grado di lumeggiare e sconfiggere la pedofilia clericale più e meglio della “pastorale”? Davvero la “verità” deve poter trionfare sulla “carità”, non potendo ritenersi così vero che la massima verità sia la carità, bensì dovendo alla fine riconoscere, con forza, che la massima verità sia affermazione, asserzione, pronunciamento e basta? Perché di questo si tratta. La “pastorale” non basta, ci vuole la “dottrina”, il messaggio è questo ed è chiarissimo. E siccome il Papa, l’attuale Papa, sembra maestro prima di tutto di pastorale, vi è bisogno che il richiamo alla dottrina sia posto con segni chiari, con ammonimenti abbastanza espliciti anche verso lo stesso vescovo di Roma.

La cronaca vaticana di questi giorni ha aspetti singolari: proprio il settore della comunicazione, al cui vertice il Papa ha nominato Prefetto di Curia (Prefetto!, cioè reggitore in nome e per conto niente poco di meno che del Papa medesimo, “vice Romani Pontificis”) un laico, vede dimettersi un intero gruppo di donne che lamentano gestione clericale con riguardo – guarda un po’ - allo specifico tema della comunicazione sugli abusi sessuali, quel tema su cui, appunto, la debolezza di una istanza contemporanea, non ancora assunta in pieno a livello ecclesiale, è effettiva. Che succede? Cosa sta succedendo?

Su Facebook lo storico Massimo Faggioli ha posto la seguente domanda che riassume sostanzialmente ogni altro interrogativo possibile ed anche gli risponde: “Dalle giornaliste/i femministe/i che coprono il Vaticano, quante interviste a teologhe femministe abbiamo visto?”

Perché, dopo aver enucleato la pugna all’arma bianca tra “dottrina” e “pastorale”, ciò che si fatica a comprendere è che la teologia gioca un decisivo ruolo pastorale, cosa che l’enunciazione dottrinale non fa, non è in grado di fare, non sa fare, non ne è capace. Benedetto XVI si è pur dimesso, nel mistero che permane (merita rileggere Miccoli), e quelle dimissioni restano ancora inaccettabili per molti e molte.

La “teologia pastorale” è vera teologia, cioè vera riflessione a partire dalla fede professata (dalla “dottrina” se si vuole). E tuttavia è principalmente metodo induttivo, non deduttivo, inculturazione, non astrazione. Assomiglia molto, moltissimo – dico oggettivamente, non mi permetto di affermarlo soggettivamente – alla passione storica di Giovanni Miccoli che, chissà come mai, pur lui laico, scrisse infatti uno dei suoi ultimi libri su “Francesco”, quello di Assisi.

Gli emicicli di piazza San Pietro sembrano tentare un abbraccio. Ne sono possibili di due tipi: uno che conforta, asciuga lacrime, ascolta, traduce le parole laiche in inedite parole di fede – magari senza rivelarlo per dovuto rispetto a chi piange – ed uno che invece può anche stritolare perché impone di aderire ad una ragione, ad una verità, pena l’esclusione, la scomunica, la condanna.

Il sentire cattolico è fatto di carne viva, anche quando pensa, per bimillenario condizionamento culturale, di poterne negare i palpiti ed i desideri, è fatto di complessità, di partecipazioni emotive ed intellettuali che s’attaccano ai corpi.

Il mondo cattolico delle comunità sa comprendere dove stia la novità dei segni dei tempi e dove l’arretramento. Proprio in queste ore.

Ma anche il mondo laico intuisce che la posta in gioco non è, in questi frangenti, tra coraggio e reticenza a dibattere delle donne nella Chiesa e della lotta agli abusi, bensì tra salita al piano superiore, laddove le reali decisioni si prendono, o discesa a quello inferiore dove si mina e si complotta per far crollare l’intero edificio.

Quante teologhe femministe adesso parleranno?

Tra altre poche ore la risposta. Ed allora vedremo.

Stefano Sodaro