Dove va Rodafà? Va in Oriente e che fa?

Un malinteso (o forse beninteso per i tempi, bisognerebbe indagare meglio e approfondire, potrebbe essere una pista di studio interessante) senso di coerente devozione cattolica portò Lady Isabel Burton, moglie di Sir Richard Francis Burton - il grande esploratore, scrittore, antropologo, geografo e orientalista –, a bruciare, pochi giorni dopo la morte del marito avvenuta il 20 ottobre 1890 a Trieste (sì, a Trieste!), tutti i diari quarantennali del coniuge e la traduzione, sempre ad opera del consorte, dell’intero poema erotico arabo dal titolo “Il giardino profumato”.

Doppio salto mortale di collegamento, di per sé del tutto illogico: Il Diario (1978-1980) dell’arcivescovo Oscar Arnulfo Romero, martirizzato dagli “Squadroni della morte” il 24 marzo di trentanove anni fa, ed edito dai tipi de “la Meridiana”, mi fu letteralmente messo nelle mani nel marzo del 1991, durante la Settimana Santa, da un altro vescovo, però italiano, Tonino Bello.

Le cronache – e i relativi commenti naturalmente – riportano che il segretario di quel vescovo martire del Centro America, nonché postulatore della sua causa di beatificazione, Jesús Delgado, sia stato poi privato dello stato clericale a titolo sanzionatorio in esito ad un processo penale canonico per abusi sessuali concernenti fatti successivi all’episcopato di Romero, accaduti negli anni 1980-2000 (cfr. https://www.lastampa.it/2016/12/19/vaticaninsider/el-salvador-tre-sacerdoti-ridotti-allo-stato-laicale-PMhprBLsXZGD2Q0Lj0fiDO/pagina.html e http://www.osservatoreromano.va/vaticanresources/pdf/QUO_2016_292_2112.pdf).

Che cosa importa tutto questo e soprattutto qual è il filo rosso che lega accadimenti così diversi? Dove sta l’intreccio?

Il processo di beatificazione, e quindi di canonizzazione, di mons. Romero è nel tempo diventato un simbolo delle contraddizioni ecclesiali che si sono protratte per un buon ventennio: non si riusciva a farlo procedere ma non si poteva neppure fermarlo del tutto, sino alla decisione, di definirlo positivamente, assunta da Francesco papa.

L’incertezza, se non l’ostilità, si ispirava ad una sorta di ombra orizzontalista – per alcuni addirittura filocomunista, ma si tratta di aggettivazione volgarizzante, in effetti ridicola – che avvolgeva agli occhi delle Autorità Ecclesiastiche la testimonianza episcopale di quell’uomo di Chiesa che il suo popolo aveva già decretato santo (e si trattava di un popolo molto diverso da quello acclamante il “santo subito” più di vent’anni più tardi).

Per dirla senza troppi giri di parole, la questione era quella della teologia della liberazione di cui mons. Romero divenne, appunto, un simbolo.

Il solo fatto che potesse esistere una destra cattolica eversiva e filofascista in un Paese centramericano come El Salvador creava imbarazzi ecclesiali di tipo istituzionale che solo la profezia sarebbe riuscita a far tacere e vanificare. I conti aperti con la teologia della liberazione – e dunque con l’ingombrante memoria di Romero – si sono chiusi solo con Francesco vescovo di Roma.

E, tuttavia, mentre la teologia della liberazione di nascita ed impronta latinoamericana segnava le stagioni ecclesiali degli Anni Ottanta e Novanta, ad Oriente la pluriformità istituzionale, disciplinare, canonica, liturgica, spirituale di antichissime Chiese Cattoliche, in tutto gemelle delle corrispondenti Chiese Ortodosse salvo che per il riconoscimento dogmatico del Papa, veniva quasi completamente ignorata. Certo, si promulgava il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali da Giovanni Paolo II il 18 ottobre 1990, ma i fermenti innovativi dal punto di vista ecclesiologico che avrebbero potuto beneficamente contaminare anche l’Occidente – il presbiterato vissuto nel matrimonio, ad esempio, o la dimensione sinodale, od il primato della liturgia, o l’autonomia ordinamentale delle singole comunità – si spegnevano e non si riaccendevano più.

La tesi del qui scrivente – mia insomma – è che così come fu emarginata la teologia della liberazione, parallelamente fu emarginata l’ecclesiologia orientale. Ed in questa doppia emarginazione i due mondi ecclesiali – quello latinoamericano e quello cristiano-orientale – non ebbero mai modo di parlarsi, nonostante la progressiva costituzione di circoscrizioni ecclesiastiche di rito orientale anche in Sud e Centro America.

Ma purtroppo non bastò, non basta.

Il cenno alla drammatica vicenda del segretario e primo biografo di mons. Romero presenta un motivo di riflessione specifico (sempre a mio modestissimo parere): vale a dire che la questione della soggettività non adeguatamente valorizzata né dalla teologia della liberazione né dalla vivacità cattolico-orientale è rimasta a covare sotto la cenere ed oggi è esplosa con fiamme da paura.

Forse Isabel Burton che manda in cenere i diari e la traduzione erotica del marito Richard diventa, suo malgrado, immagine di una intera cultura ecclesiale che, diciamo pure dal 1890 in poi per stringere in una morsa temporale del tutto arbitraria la complessità della storia, non ha saputo confrontarsi con il soggetto, l’erotismo, con una sessualità non matrimonializzata né matrimonializzabile.

Ed anche in questo caso i conti, sempre aperti, si sono in qualche modo chiusi (in qualche modo, beninteso, ma perché appunto così deve essere, dal momento che una normatività sessuale è qualcosa di prossimo alla perversione e dunque di non troppo auspicabile) solo con Francesco papa e con la sua Esortazione apostolica Amoris laetitia. In essa, per la prima volta nella storia bimillenaria della Chiesa, si afferma che una vita matrimoniale piena è ecclesialmente ammissibile, compresa la partecipazione ai sacramenti, anche dopo un primo matrimonio sacramentale pur vivente il coniuge sposato in quel primo matrimonio, ponendo dunque la gravissima questione teologica di che cosa sia il matrimonio, di come possa essere definito al di là di catechismi e codici.

Sotto altro aspetto però – è una specie di circolo ermeneutico da capogiro e da cui non si esce – l’individualismo di marca occidentale ha ingigantito la dimensione soggettiva a scapito di quella pubblica, politica, sociale, sino alle crisi di solidarietà civiche e al trionfo di solitudini personali che tutte e tutti conosciamo.

Cosa resta dunque?

Resta la voce e la testimonianza di Mons. Romero. Restano le istanze di quella teologia della liberazione che è diventata teologia critica, teologia femminista, anche teologia queer, persino “teologia indecente” (spero non sia necessario specificare di più).

Resta la voce e la testimonianza – schematizzo – dei preti sposati delle Chiese Cattoliche Orientali, con una evocazione che diventa potente in vista del Sinodo sull’Amazzonia del prossimo ottobre, purché si voglia ascoltarla.

Resta la voce e la testimonianza di chi – penso all’esperienza del Coordinamento delle Teologhe Italiane (CTI) – ha saputo tenere ben ferma la centralità della questione soggettiva (femminile, anzi femminista, ma non solo) senza rinunciare alle sue ricadute pubbliche, collettive, comunitarie.

Tutto resta, tutto si sarebbe potuto perdere, tutto può essere recuperato.

Tutto sta nelle nostre narrazioni, nella volontà di elaborarle, proporle, viverle ancora, sempre, nonostante tutto e tutti.

A tre numeri dal 500, Rodafà si sente interpellato fin nelle proprie fibre più intime dall’appello a narrare.

Buona domenica.

Stefano Sodaro