Sposarsi per fede, sposarsi per gioco, sposarsi contro il male

Sposarsi nel corpo e nel sangue, disegno di Rodafà Sosteno

Hugo Rahner, proprio all’inizio del capitolo I del suo libro L’Homo ludens – pubblicato in Italia nel 1969 da Paideia Editrice -, rammenta che Platone definisce l’uomo un “pàighnion Theoù”, un “giocattolo di Dio” e che in questa caratteristica il filosofo scorge la suprema perfezione della creatura. Ed annota quasi di seguito: «Quando diciamo che Dio creatore ‘gioca’, esprimiamo metaforicamente una visione metafisica per cui la creazione del mondo e dell’uomo sono un atto divinamente logico ma in nessun modo necessario a Dio.»

Oggi saremmo alquanto cauti, se non guardinghi, dall’attribuire a Dio coerenze logico-metafisiche, ma che Dio giochi, che possa giocare, ci appare tuttavia concetto ancor più estraneo e peregrino che nel 1952, quando fu scritta l’opera di cui sopra.

Il marito che resta con la moglie africana in ospedale quattro ore il sabato sera, vedendo nei suoi occhi, sul suo viso, nelle sue mani la storia ignorata, sconosciuta, di un intero continente non si può certo dire che stia giocando, secondo la vulgata corrente. È preoccupato, ansioso, impaziente di esiti, diagnosi, rimedi.

Eppure Johan Huizinga, che prima di Hugo Rahner scrisse nel 1939 il suo Homo ludens - pubblicato in Italia da Einaudi nel 1946 -, scrive, all’inizio del capitolo III: «Anche quelle attività che sono indirizzate alla soddisfazione dei bisogni vitali, come per esempio la caccia, nella società arcaica assumono di preferenza la forma ludica. Nei giochi e con i giochi la vita sociale si riveste di forse soprabiologiche che le conferiscono maggior valore. Con quei giochi la collettività esprime la sua interpretazione della vita e del mondo. Dunque ciò non significa che il gioco muta o si converte in cultura, ma piuttosto che la cultura, nelle sue fasi originarie, porta il carattere di un gioco, viene rappresentata in forme e stati d’animo ludici.»

Ed il grande teologo evangelico Jürgen Moltmann così scrive alle pagine 67 e 68 del volume Sul gioco, Queriniana 1971: «Il bello è quanto suscita gioia in Dio. Per questo anche nella corrispondenza e nella risposta dell’uomo la nuova obbedienza si unisce al «nuovo cantico». Senza il libero gioco della fantasia e della dossologia la nuova obbedienza degenera in legalismo. In tale caso la vita cristiana consisterebbe soltanto nell’osservanza di cose che non si possono fare. Ma senza l’obbedienza corporale, cioè senza dei mutamenti fisici, sociali e politici, i cantici d’amore e le feste della libertà diverrebbero delle frasi vuote. «Non si ha alcun diritto di cantare gregoriano se non si grida in favore degli ebrei», aveva ricordato Bonhoeffer, durante le persecuzioni hitleriane contro gli ebrei, ad una chiesa che si chiudeva in se stessa rifugiandosi nella liturgia. Ma Bonhoeffer cantò con passione il gregoriano e gridò forte in favore degli ebrei costretti al silenzio, perché voleva un giorno cantare con essi in libertà.»

L’ospedale è il luogo dei mutamenti fisici, ma non può essere il luogo dei giochi. La sofferenza non è gioco. Il male non è un gioco.

Siamo sicuri che sia così?

Il male detesta il gioco, perché avverte, sa bene, che esso è altamente curativo, terapeutico, sana dolori e lenisce ferite.

Chi soffre vorrebbe tanto poter giocare e forse addirittura soffre, sta male, perché non ha mai giocato.

Oppure sta male perché il diritto al gioco, il sacrosanto diritto al gioco che contrassegna ogni vita, ogni storia, è stato negato, vilipeso, eliminato, represso.

Per sposarsi bisogna accettare di compromettersi, di rischiare forte, di rischiare tutto, non però in un azzardo – con la prospettiva segreta di poter cioè moltiplicare profitti e benefici a proprio vantaggio -, bensì in una danza d’amore, in un perdersi per ritrovarsi, in un darsi corpo e sangue che, in quanto supremamente erotico, diventa pure culturalmente intollerabile.

La nostra cultura, così preoccupata di legiferare in materia matrimoniale, ha del tutto dimenticato che il matrimonio o è gioco stupendo o non è niente, è un affare di bottega, un calcolo, una logica dell’uno più uno che dà zero.

Ieri sera il cardinale Gianfranco Ravasi, intervistato al Tg1, ha parlato di “sepolcri d’acqua” dentro i quali giacciono migliaia ormai di migranti abbracciati solo dalla morte.

Al Sud della Terra si sa giocare. Al Sud della Terra si insegna a giocare come arte indispensabile del vivere.

Persino la fuga in mare è – se riesco a farmi comprendere – un tentativo ludico di dare scacco alla disperazione, di sorridere con tutte le forze di cui si è capaci davanti al ghigno del terrore che veste i panni della fame, dell’assenza di futuro, della guerra, dell’oppressione intollerabile.

Meglio morire in mare che morire senza speranza.

Il mare danza ma fabbrica, nolente, sepolcri d’acqua.

Allora perché ci si sposa?

Le risposte sono sempre lasciate al luogo comune – è vocazione umana, è necessario per assicurare la specie umana, è richiesto come requisito di piena maturità umana e sociale – oppure sono confinate nel moralismo, nell’ammaestramento spiccio.

Invece ci si può sposare per fede.

Senza sapere molto, cioè, di canoni e divieti etici, ma conoscendo molto a fondo quanto importi dare forma ludica alle nostre esistenze, dare forma di resistenza danzante davanti agli obbrobri del pensiero unico che massifica e magari indossa pure solenni paramenti religiosi.

Sposarsi per fede vuol dire celebrare un matrimonio con la debolezza, con la provvisorietà, con l’incertezza, con il dubbio, persino con la paura, ma intuendo che lì, nel mio matrimonio, ritrovo il mondo, ritrovo tutti, sposo tutti, mi schiero necessariamente dalla parte di chi invoca liberazione, sposo pure chi non si è mai sposato e tanto avrebbe voluto farlo.

L’ospitalità nuziale del cuore è il significato più vero del matrimonio per fede.

Allora anche guardare il corpo, proprio e della sposa, dello sposo, che invecchia, che si ammala, è struggersi di tenerezza per la storia del mondo, che pure passa, prosegue, si evolve, avanza.

“Vos date illis manducare”, secondo il capitolo 9 del vangelo di Luca che si legge oggi nelle chiese cattoliche di rito romano, narrando proprio di quel Gesù che, mentre parla alle folle del Regno di Dio, guarisce quanti hanno bisogno di cure.

Ma la traduzione dell’invito di Cristo è del tutto errata in italiano. Non significa affatto “Voi stessi date loro da mangiare”, bensì “date voi stessi in pasto a costoro”, “diventate voi stessi loro cibo”, “sfamateli di voi stessi”, “sfamateli con voi stessi”.

C’è forse insegnamento ad un tempo più matrimoniale e meno scontato di questo?

Sfamare gli altri con noi stessi. Sposarsi per fede vuol dire questo.

Ma cibarsi è anche gioco, che guarisce dall’inedia mortale.

Cinque pani e due pesci sono il segno, la fede nuziale, di quel matrimonio più grande, l’unico possibile per fede, l’unico possibile per gioco, l’unico farmaco contro il male.

Stefano Sodaro