La fine del mondo

EDITORIALE

Per capire che cosa stia accadendo a Roma, nella Chiesa Cattolica, proprio adesso, bisognerebbe avere un po’ studiato. Forse sembreremo pretenziosi e prepotenti, ma è proprio così. Lo diciamo con semplicità.

Ciò che un tempo si faceva a scuola, poi all’università, oggi invece si delega all’offerta dei supermarket comunicativi. Studiare. Ciò che, invece, nei secoli, ad esempio nel Duecento, in pieno Francescanesimo (vedremo subito che c’entra), appassionava menti e cuori.

La storia della Chiesa non è semplice. Investigarla comporta fatica e capacità di sottili distinzioni, anche se con faciloneria può essere liquidata, con sommo disinteresse, quale affare di poteri.

Per capire, ad esempio, l’enormità di un papa gesuita, dell’unico papa gesuita sinora nella storia, primo: si dovrebbe sapere, ma proprio bene, che cosa voglia dire il papa nella teologia cattolica. Vescovo di Roma? Vicario di Cristo? Autorità infallibile? Infallibile in cosa? Sovrano? Di quale Stato?

Secondo: si dovrebbe sapere chi siano i Gesuiti nella storia della Chiesa contemporanea, quale sia la loro caratterizzazione identitaria, quale il loro posizionamento nel panorama ecclesiale attuale. Una battuta afferma che uno dei misteri della Chiesa, oltre a quello del numero delle suore e dell’entità del suo patrimonio mobiliare, è che cosa pensino i Gesuiti.

Per capire l’ulteriore sproposito del nome pontificio di Francesco – “I”, giustamente, se ce lo permette il confratello dell’eletto, direttore della Sala Stampa della Santa Sede, dal momento che inaugura una serie, lunga o corta che sia -, bisognerebbe sapere, poi, chi sia Francesco non nella sensibilità media del passante per strada, che suole confondere il Cantico dei Cantici con il Cantico di Frate Sole, ma nella costruzione di un’intera visione di Chiesa che, per essere tale, asseconda alcuni approfondimenti, alcune istanze, alcune specificità dottrinali e ne tralascia altre (ad esempio, sa che la Shulamit del Cantico dei Cantici ben si potrebbe trasfigurare in Chiara di Assisi perché sa chi fosse Chiara per Francesco e viceversa). E capire, pertanto, che differenza ci sia tra spiritualità ignaziana e francescana. Che cosa abbiano in comune, e che cosa proprio no, Gesuiti e Francescani.

Ancora: bisognerebbe cogliere che un’innovazione nell’ “imporsi il nome” da parte del papa non è cosa semplice né agevole. Condizionamenti storici, eredità onomastiche di varia natura stanno a bloccare qualunque fuga in avanti, fosse anche per venerare nuovi patroni.

Dunque, riassumiamo: un vescovo sudamericano, membro della Compagnia di Gesù, viene eletto papa e si fa chiamare “Francesco”.

Quindi, nella prima apparizione dalla loggia della Basilica di San Pietro, si inchina profondamente davanti al popolo di Dio della sua diocesi, di Roma, per chiedere la benedizione di tutti prima di impartirla.

Porta una croce pettorale di metallo diverso dall’oro, ha abbandonato mozzetta impellicciata di ermellino – mentre, con paradossale contrasto visivo, il Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie compare vestito con rocchetto e mantelletta - e la stola la indossa, come richiede la liturgia, solo per impartire la benedizione. Se la mette e se la toglie lo spazio del gesto sacro.

Certo, non evoca il Concilio. Non lo ha fatto ieri pubblicamente, né oggi nella Messa celebrata con tutti i Cardinali nella Cappella Sistina.

Ma di bocche sempre piene di citazioni, sia del Concilio che dei testi biblici, siamo francamente stufi. Citazioni che sembrano adempimenti giuridico-formali e tralasciano lo spirito del Concilio, che può essere riattualizzato profondamente anche senza nominare l’evento.

E finalmente poi questo papa – almeno ieri – non si sbracciava in gesti da imperatore. Alzava un braccio e rimaneva dentro la sua veste episcopale, senza nessunissima sbavatura mediatica, di alcun tipo. Ma come? Ci siamo abituati ai papi star e questo invece invita a dire le preghiere del Padre Nostro, dell’Ave Maria e del Gloria?

Qualcosa sta saltando.

Il tappo del passato ostruttivo di speranza è volato via.

“Questo papa era compromesso con la dittatura militare argentina”, s’è sentito dire in queste ore ed argomentare con resoconti e testimonianze.

Sarebbe del tutto fuorviante cercare nella storia sin qui del cardinale Jorge Mario Bergoglio motivi di sospetto o di entusiasmo. Non è questo il punto, come ha sostenuto un teologo, in fama di esagerato progressista (leggasi niente poco di meno che Hans Küng), ben più autorevolmente del sottoscritto.

Ha difeso o non ha difeso, Bergoglio, la teologia della liberazione? Pur interessante per una ricostruzione investigativa, senz’altro utilissima, a Roma però – a Roma adesso, non a Buenos Aires anche solo un mese fa – si stanno ponendo segni, gesti, agitando simboli, del tutto inconsueti, del tutto nuovi, del tutto azzardati. E non accorgersene sarebbe grave.

Eccoci qui, l’azzardo della tradizione. Ho sempre fermamente creduto che i maggiori innovatori siano coloro che, per un verso, hanno un radicamento, financo emotivo, in ciò che ritengono tradizione da preservare ad ogni costo e che fa inarcare le sopracciglia ai progressisti accademici e, per l’altro, sanno far piangere di commozione la gente di ogni giorno.

Questo sta accadendo ora.

Papa Giovanni voleva abolire il celibato ecclesiastico? Archiviare la recita del rosario?

Paolo VI si è astenuto dallo scrivere un’enciclica sulla contraccezione artificiale?

Eppure quanta distanza, abissale, c’è tra quei pontificati ed una stagione di Chiesa che pensavamo non finisse mai, tutta tesa a non emozionare, né emozionarsi più, se non secondo le richieste della comunicazione affascinante.

Qui invece al papa non importa niente di fare bella figura. Né di farla fare alla Chiesa. Sorride, se ne resta nei suoi panni bianchi non avvolti da altri sacri orpelli.

Si fa chiamare Francesco, lui, gesuita.

Sì, è la fine del mondo.

Stefano Sodaro