I giorni del “come” al posto del “che cosa”

Fiera del Libro di Torino, anno 2006, stand della Lavazza

- foto tratta da commons.wikimedia.org

Che cosa sia accaduto in una manciata di giorni forse non può essere ben compreso a ridosso delle ultime ore, perché la contingenza ci schiaccia. E tuttavia proprio lo scorrere impetuoso degli eventi può decidere della direzione delle nostre vite, anche in un batter d’occhio, ed esige di non rimanere, nella personale avvertenza di ciascuno e ciascuna, codificato, criptato, inaccessibile, gnoseologicamente “extra-vagante” come direbbero i canonisti medievali.

Vorremmo guardare ad una serie di fatti: l’esclusione della casa editrice AltaForte dal Salone del Libro di Torino, la promulgazione del Motu Proprio sugli abusi Vos estis lux mundi quale emanazione di norme canoniche per la Chiesa universale (http://w2.vatican.va/content/francesco/it/motu_proprio/documents/papa-francesco-motu-proprio-20190507_vos-estis-lux-mundi.html), le parole del Papa sulle diacone (https://www.lastampa.it/2019/05/10/vaticaninsider/il-papa-sulle-donne-diacono-non-si-pu-andare-oltre-la-rivelazione), il cenno di ieri dell’Osservatore Romano (http://www.osservatoreromano.va/it/news/il-papa-visita-allaccademiav-ecclesiastica), in cui, con riguardo al celibato ecclesiastico, «il Santo Padre ha ribadito che si tratta di un dono prezioso di Dio da conservare e custodire, non escludendo però la possibilità di scelte disciplinari diverse nelle situazioni eccezionali di certe aree geografiche.»

I fatti sono di per sé molto diversi, in apparenza per nulla accostabili, eppure un filo rosso li lega. Proviamo a districarlo se ci riesce.

Vi sono due modi di interrogarsi sul significato di quanto è accaduto: assegnare centralità di riferimento al metodo, alla forma, al contenitore, oppure non poter prescindere dal contenuto che quella cornice dovrebbe racchiudere, che quel recipiente dovrebbe riuscire a versare nei bicchieri secondo la loro giusta misura.

I due modi corrispondono a due campi interpretativi della vita molto ben demarcati ed in tale demarcazione il fascismo, anche inespresso, ha un ruolo molto importante, anzi decisivo. Lo ha perché, nella nostra visione rodafiana, di tutto decide l’amore e l’amore non è mai un metodo.

Potremmo assegnare alla visione fascista delle cose e del mondo - secondo un orientamento interpretativo abbastanza diverso da quanto di solito si ritiene - un’attitudine alla conoscenza non propriamente sostanzialistica, quasi valoriale o addirittura “metafisica”, ma piuttosto metodologica. Il senso delle cose che il fascismo ha da dire, a nostro avviso, non c’è se non come corrispondenza alla violenza, mentre gli importa molto, moltissimo, l’approccio metodologico, l’individuazione di modalità specifiche, precipue, precise con cui manifestarsi. Naturalmente il grumo dei problemi giuridici sta nell’individuare, con inoppugnabile verità – quella che solo l’esito di un giudizio di accertamento in un’aula di tribunale assicura – chi sia fascista e chi no, pur magari ispirandosi a quel mondo.

La cronaca odierna, proprio di quest’oggi, riporta un fatto illuminante a tale proposito: la manifestazione di Forza Nuova contro il Papa a San Pietro (https://www.lastampa.it/2019/05/12/italia/striscione-di-forza-nuova-in-piazza-san-pietro-bergoglio-come-badoglio-stop-immigrazione). Si tratta di libera manifestazione del pensiero da proteggere – quantunque nella piazza di uno Stato estero soggetto alla vigilanza dello Stato italiano, il che pone delicatissime questioni -, oppure va oltre e integra estremi di reato?

La domanda è fondamentale perché proprio da essa si origina quella biforcazione verso l’interpretazione dei fatti che poi divide anche le direzioni delle singole esistenze.

Ci sono diversi orientamenti per parlare e ragionare di fascismo. Uno è quello di ritenerlo un’opinione come tante, meritevole della considerazione pluralistica che ogni pensiero, ed ogni suo travasamento in scrittura, richiede.

Ma diventa preliminare ed indispensabile proprio il chiarimento di un’opzione metodologica, per appunto: mentre chi non è fascista accetta di distinguere bene tra cultura di destra e subcultura fascista, chi è fascista – che lo dichiari o no – non ammette alcuna propria coabitazione a destra con chicchessia, esaurisce ogni orizzonte, mangia tutto, fa saltare il tavolo.

Il “che lo dichiari o no”, tuttavia, non è faccenda di poco conto. Il fascista non dichiarato è, ad esempio, uno che stenta molto a pronunciare parole d’amore, pure un semplice “ti amo” gli fa grande problema, perché avvertito come un cedimento, forse una estensione che il suo monolitismo etico gli vieta, un compromesso che sporca quella durezza e quella purezza indissolubilmente unite davanti al mondo cattivo e che egli avverte di dover ribadire, anche solo con un fraseggio volutamente volgare, in ogni dove.

Il fascista non dichiarato – ancor di più di quello dichiarato – è l’esatto capovolgimento del Principe Myskin di Dostoevskij o del Dottor Zivago di Pasternak.

Il fascista non dichiarato crea legami che devono nutrirsi di gelosia verso tutti i diversi vincoli che egli stesso ha contratto e che dichiara di non poter troncare. Lui può avere molti amori, chi è ammesso al suo amore invece no. È la storia sentimentale di Mussolini, che fascista assai dichiarato comunque era.

E ovviamente deve far credere ai suoi molti amori con indubbia abilità - il fascista non dichiarato oppure sì - che ognuno di essi è per lui, pover’uomo, in conflitto terribile con gli altri dai quali afferma vagamente che vorrebbe ma non può sciogliersi. Però a soffrire sono gli altri, mica lui. Lui gestisce i giochi, incrocia le coordinate, stabilisce e determina gli orari, come i treni alla stazione, lascia fuori dalla porta degli affetti chi dev’essere relegato, secondo il suo indiscutibile parere, nell’oscurità, facendogli credere che incomba una maledizione della vita, un fato avverso non combattibile, su quell’esclusione.

Cova dentro molta rabbia verso la vita, molto rancore, avverte un’inconfessabile debolezza, vi soggiace ma reagisce con l’insulto, il vituperio, la provocazione, il dileggio. E siccome simile stile suscita immediato consenso presso certi simpatizzanti di certa platea, ecco il colpo magistrale: ma cos’abbiamo capito? Il fascista non dichiarato è un combattente di sinistra, un partigiano, un rivoluzionario vero, ahinoi poveri idioti che non ce ne siamo accorti.

Una strategia maieutica la sua, un affinamento di penetrazione negli eventi per rovesciarne i risvolti. Guardare le cose, gli oggetti, da un’altra prospettiva. Ma per puntare lo sguardo dove? Qual è la direzione esatta per la quale varrebbe la pena inforcare un paio d’occhiali completamente diversi, che ne sappiamo, magari addirittura privi di lenti per un qualche nuovo ritrovato ultramoderno? Perché costa l’impossibile pronunciare un “ti amo” a chi pur si afferma di amare? Sembra una quisquilia, non lo è.

L’approccio esclusivamente metodologico può estendersi anche all’attualità vaticana e così come si ritiene che AltaForte non doveva essere esclusa dal Salone del Libro una volta ammessa, a prescindere dai suoi obiettivi di diffusione editoriale e dal suo impianto ideale che non dovrebbe in nulla rilevare, anche nella lettura di ciò che il Papa dice e promulga rileva, importa, a contrario, secondo tale approccio, non il senso ultimo e profondo, bensì il percorso metodologico che assorbe ogni interesse dell’analisi; risultano centrali la sua forma, il suo contenitore, che esauriscono e immergono nel nulla l’oggetto specifico di quella metodologia.

Questa non è ovviamente la sede – non ce ne sarebbe lo spazio adeguato – per soffermarsi sui singoli pronunciamenti papali, ma, per quanto ad esempio riguarda l’ordinazione sacramentale delle diacone, se si assegna centralità ultima, definitiva, al solo profilo metodologico, si potrebbe ritenere del tutto chiusa la questione fondamentale, il suo merito, per tutti i secoli dei secoli. Al di là, cioè, delle parole, delle forme, ma anzi dello stesso condizionamento della storia, non ci sarebbe altro. La teologia vivrebbe così rinchiusa dentro gli spazi angusti della sola metodologia, del solo “come”, perdendo di vista il suo “che cosa”.

Il Motu Proprio sugli abusi è stato posto al centro dell’attenzione suscitata da una sola domanda, squisitamente metodologica: è finalmente sancito un obbligo di denuncia all’autorità statale da parte di chi venga a conoscenza di abusi sessuali commessi da ecclesiastici o no? La risposta è contenuta, davvero con sottile costruzione di metodo, alla lett. b) del § 1 dell’art. 1 del Motu Proprio: le nuove norme canoniche si applicano a “b) condotte (…) consistenti in azioni od omissioni dirette a interferire o ad eludere le indagini civili o le indagini canoniche, amministrative o penali, nei confronti di un chierico o di un religioso in merito ai delitti di cui alla lettera a) del presente paragrafo.” E pertanto la mancata denuncia all’autorità statale può configurarsi come un’elusione di indagini civili, poiché oggettivamente può impedirle non consentendone neppure l’avvio. Ma la norma canonica ha chiarissimo – com’è nella sua natura, pur affrontando il peso di una storia bimillenaria – quale sia il “che cosa” cui tende. In qualche modo, se è consentita l’espressione, “gioca con il diritto”, così come si può “giocare con un linguaggio” (interessantissima l’analisi di Mauro Barberis, mio professore di filosofia del diritto, che si può rinvenire al link https://www.studocu.com/it/document/universita-degli-studi-roma-tre/filosofia-del-diritto/saggio/barberis-pluralismo-argomentativo/3811404/view).

Eppure, sempre sul fronte del “come”, accadono cose che invertono, sovvertono, la priorità del metodo ed ecco che, in mezzo a quella che sembrerebbe una paralisi di evoluzione delle acquisizioni teologiche, anzi propriamente ecclesiologiche, lo stesso Papa parla di una possibile diversa declinazione del celibato nella Chiesa latina per determinate aree geografiche. Il metodo sorride di se stesso, per così dire, dà scacco matto allo spasmo metodologico che il fascismo oggettivamente assume e suscita le ire delle estreme destre – non si può dire naturalmente se fasciste o no in assenza di sentenza (il metodo prima di tutto ancora, certo) – del mondo intero. Il diritto canonico come messa in crisi del fascismo conoscitivo è una buona pista di approfondimento, una bella sfida.

Restano dunque le pietre dei giorni, amari, difficili da assaporare perché la pietra non si mangia. Resta però anche una speranza, una prospettiva, un sogno, un’utopia. La liberazione da se stessi come ritrovamento del “che cosa” della propria vita.

Del resto le mamme, ogni mamma, sanno bene quanto il “come” vada all’aria davanti al “che cosa” che ha cambiato loro l’esistenza per sempre.

E così abbaglia come il sole il gesto materno del Cardinale Elemosiniere del Papa che, attuando una vera e propria forma di disobbedienza civile in vista evidentemente di una sostanza pure molto civile, riaccende la luce, non più erogata, in un immobile occupato abusivamente da senza dimora. Il trionfo del “che cosa” al posto del “come”: https://roma.repubblica.it/cronaca/2019/05/12/news/roma_l_elemosioniere_del_papa_toglie_i_sigilli_al_palazzo_occupato-226065275/. Figuriamoci ora i fascismi di qualunque provenienza. Ma quel sole riscalda, quella reazione raffredda e lascia nel gelo (non quello climatico, o almeno non soltanto).

Gli eccessi dell’amore spediscono a casa di chi è amato/a non meno di una quarantina di rose. Rosse. Alla faccia di ogni buona metodologica creanza.

E donano anelli, a forma di cuore.

Insomma fanno di tutto, ma certo molto peccano di scriteriatezza, di gravi colpe di metodo. Che poi pagano.

Bisogna vedere alla lunga come finirà.

Buona domenica, buona Festa della Mamma.

Stefano Sodaro