Tutto sarà tuo

La Confessione, Giuseppe Molteni, 1858 - Artgate Fondazione Cariplo

- immagine tratta da commons.wikimedia.org

Al momento si registra – a livello oggettivo – la condanna penale di un cardinale alla settimana. Dire che la cosa lasci stupefatti è dire molto poco.

La settimana scorsa il Card. George Pell, questa settimana il Card. Philippe Barbarin, Arcivescovo metropolita di Lione, per fatti omissivi e non commissivi, ma sempre per comportamenti illeciti di natura sessuale da parte di membri del clero, in tal caso soggetti al suo controllo.

In Francia, proprio in questi medesimi giorni, è stato diffuso il documentario “Religiose abusate: l’altro scandalo della Chiesa”, visibile al seguente link https://www.arte.tv/fr/videos/info-et-societe/enquetes-et-reportages/ (e su cui si può leggere sia il Sir al link https://agensir.it/quotidiano/2019/3/6/francia-in-onda-ieri-sul-canale-arte-docu-film-su-abusi-subiti-da-religiose-vescovi-profonda-indignazione-tristezza-e-rabbia/, sia Adista al link https://www.adista.it/articolo/60891).

Entrambi i Cardinali condannati erano – e sono tutt’ora – membri del Collegio Cardinalizio con diritto di entrare in Conclave.

Qualcosa di enorme sta appalesandosi non solo nella sua valenza di puro male – come ha ammonito il Papa nel suo discorso al termine del summit in Vaticano – ma anche nelle sue conseguenze che fanno balenare il terror panico della imprevedibilità su piani diversi e connessi.

Che cosa si può fare da parte di chi non può credere che la Chiesa sia una realtà liquidabile come se si trattasse di una società per azioni con bilanci fallimentari e responsabilità dirigenziali diffuse?

Sono necessari tre sobbalzi: uno teologico, uno psicologico, uno giuridico.

Per il primo, la piaga della pedofilia è sintomo, tragico, di un’immagine di Dio deleteria, ma non così orribile come si potrebbe forse credere. Dio sommo creditore di ogni umano debito è immagine potente che continua ad essere veicolata. E siccome è sommo creditore, ci saranno gli esattori da Lui medesimo direttamente incaricati.

Il sacro, cioè, fuoriesce dal crimine sessuale da qualunque pertugio. Avere dissociato, con secolare pervicacia, sacro e sesso ha portato a tentarne una riconciliazione spuria, abbruttita, perversa, autrice di reati gravissimi, in cui l’amore nemmeno può essere nominato perché è del tutto assente.

Ma occorre una teologia delle vittime, dalla parte delle vittime. Una teologia della liberazione a favore delle vittime degli abusi ecclesiastici. Bisogna pur dire, con molta pacatezza ma anche chiarezza, che di questa teologia c’è bisogno: Dio sta dalla parte della vittima, non del carnefice. Dio ascolta le urla soffocate delle vittime e non i seppellimenti omertosi di chicchessia verso le responsabilità di quelle urla.

Il piano psicologico – ma posso dirlo solo da canonista – richiede, da un lato, che siano investigate a fondo le ragioni per cui un uomo maschio decide ad un certo punto della sua vita, come si dice (in modo teologicamente del tutto scorretto ma corretto in chiave antropologica) “di farsi prete” e, dall’altro, che sia pure investigato il contenuto di quella “segretezza”, propria del cosiddetto “foro interno” che da essa ne è contrassegnato, al cui interno può avvenire di tutto a causa di una sudditanza mentale, psichica, psicologica appunto, verso chi detiene il potere sacro. Può capitare, nel caso di confessioni sacramentali in cui avvenga qualcosa che metta a disagio il confessore - senza per questo riferirsi di per sé a comportamenti fisici impropri -, che sia necessario interrompere, ad iniziativa del o della penitente, il colloquio sacramentale con parole del tipo “Basta così, padre, stia in pace, la mia confessione termina qui” e andarsene senza indugio.

Il danno che, dal punto di vista propriamente teologico-dogmatico, od ecclesiologico, viene arrecato da confessioni che mettono a disagio il, o la, penitente è incalcolabile, a volte irrecuperabile. Ed è tragedia per tutti, compreso il confessore.

Terzo piano, quello giuridico. Qui bisogna essere molto chiari: la paternità pastorale, in ambito ecclesiale, si accompagna indissolubilmente alla responsabilità di controllo in ambito sociale. Proviamo a fare un esempio: se mio figlio commette un crimine contro qualcuno, continuerò ad amarlo, gli starò vicino, e però, necessariamente, lo denuncerò. Non posso – vien da dire “purtroppo”, ma l’esclamazione paga il debito del mio coinvolgimento emotivo che non tiene conto di quello della vittima -, non posso fare altrimenti.

Qui la riflessione ecclesiale è carente, per un malinteso senso di “comprensione” che nulla ha a che vedere con le ricadute sul piano pubblico, pubblicistico, statale, che di esse non tiene alcun conto.

La riflessione è carente non solo per l’assenza di obblighi di denuncia codificati, ma anche perché la laicità non ha fatto scuola. Quella duplice identità, di membro della Chiesa e di cittadino di uno Stato, di padre e di detentore di specifiche e precise responsabilità sociali extra-familiari, extra-ecclesiali, non è passata come un valore evangelico da far apprezzare sempre di più, sempre più profondamente, sempre più intensamente. Sembra quasi che, se partecipo alla vita ecclesiale ed in essa magari ho un ruolo ministeriale, mi possa per questo disinteressare della complessità politica, sociale, culturale del contesto in cui faccio quella esperienza di fede comunitaria.

È la prima domenica di Quaresima.

La tentazione del potere è formidabile. Se poi è tentazione di potere sacro, diventa quasi irresistibile. E se, ancora, assume le vesti di potere sacro maschile, la sua maestosità si fa soverchiante.

Il sesso può molto avere a che fare con dinamiche di potere, ma è il potere dell’amore che danza, che assegna e sconvolge i ruoli, che gioca. Se la variabile “amore” viene tolta – in tutte le sue gradazioni possibili e con tutti i suoi nomi possibili – restano solo i due poli, sesso e potere, e la loro annichilazione reciproca è disastro di ogni umanità. E muore quella variante anche nei casi di dipendenza affettiva, di gelosia, di smania di controllo, di esclusione di qualcuno dal proprio cerchio che si ritenga amoroso per paura di insidie, di sottrazioni. L’amore vive di accrescimenti continui, non di esclusivismi e di sottrazioni.

“Tutto sarà tuo”. No grazie, non mi, non ci, interessa.

Gesù, nella narrazione del capitolo 4 di Luca, accetta di essere sballottato di qua e di là, ma risponde. Non resta inerte, reagisce. Ed è la sua reazione che manda in esaurimento l’Avversario.

Una Chiesa che reagisce non è una Chiesa che si difende, ma che difende chi soffre la violenza subita, difesa senza risparmi, senza esitazioni, senza sotterfugi, costi quel che costi.

Buona domenica.

Stefano Sodaro