La teologia della liberazione

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Si avvicina la festa del 1° maggio, nata con l’intento di ricordare l’impegno dei movimenti sindacali e gli obiettivi sociali ed economici raggiunti dai lavoratori dopo lunghe (e purtroppo anche sanguinose) battaglie, la quale costituisce quindi non solo un giorno in cui riposarsi, ma anche in cui ricordare.

Mi sembra opportuno, in concomitanza con questa festa, ricordare la teologia della liberazione, di cui tanti hanno sentito parlare, mentre quelli che sanno esattamente di che si tratta sono molti di meno.

Come diceva Arturo Paoli riferendosi alla sua esperienza missionaria in Sud America, il Dio che si comunica o è oppio, o è liberatore.

La religione oppio è quella che dice: “State male qua, ma nella prossima vita starete bene perché sarete ricompensati”; la religione che libera riesce a dare forza qua, su questa terra, perché “Dio ha sentito il vostro grido, e qui presente, si ricorda di voi e vi aiuta” (Es 3, 7).

In America, la scoperta da parte del povero di un Dio presente nella storia, anche nella sua storia, è stata chiamata teologia della liberazione, la quale può perciò definirsi come un movimento che era riuscito a destare tante speranze perché aveva aiutato, se non altro, ad aprire gli occhi sulle implicazioni sociali del messaggio di Gesù, il quale – ricordiamolo - aveva promosso un progetto egualitario: tutti gli uomini hanno pari dignità.

Noi forse in Europa non ce ne siamo neanche resi conto, ma un’intera generazione in sud America si è per la prima volta risvegliata nella storia moderna vedendosi finalmente proiettata in un ruolo attivo della propria storia, ed ha scoperto la necessità di prendere partito nei grandi conflitti sociali.

La teologia della liberazione fa notare che da sempre, già nell’Esodo biblico, emerge un conflitto fra la fede di un popolo che lotta perché rifiuta di vivere oppresso e crede che nemmeno Dio voglia questa vita oppressa (Girardi G.), e la convinzione di altri che vedono Dio benedire le strutture sociali esistenti e ritengono che i conflitti siano suscitati da fomentatori o agenti estranei (Vigil J.M.).

Anche all’interno della Chiesa, dunque, è sorto un conflitto fra quelli che venerano il dio della tranquillità – dell’oppio, direbbe Arturo Paoli, - e quelli che venerano il Dio della liberazione, come nella recente storia della società secolare si è visto nelle lotte fra operai e padroni, fra rivoluzionari e forze conservatrici. Secondo questo movimento tutta la nostra attività cristiana dev’essere un “vivere e lottare per la causa di Gesù”, una partecipazione attiva per il regno di Dio, che deve iniziare già qui, e non certo nell’al di là.

È questo l’obiettivo, la causa. Per tutti, poi, la teologia della liberazione ricorda che, quando parliamo del potere, nessuno si può allontanare e vivere sereno credendo di non appartenere al potere: la neutralità non è possibile perché il silenzio, la passività, e la cosiddetta neutralità è una posizione in favore del potere, dello status quo, e ogni potere è sempre diabolico (Pixley J.)

Secondo il paradigma di lettura storico-sociale vigente in America Latina fino alla conferenza episcopale di Medellin del 1968, si sosteneva che tutti i Paesi si trovavano dentro un movimento di sviluppo, per cui – come in un fiume – i Paesi poveri, scendendo la corrente, avrebbero dovuto raggiungere quelli ricchi che si trovavano solo in po’ più avanti, semplicemente continuando ad andare avanti per la stessa strada.

Emerse invece, a un certo punto, l’idea della dipendenza, per cui si affermò che i Paesi poveri sono l’altra faccia (negativa) della stessa medaglia, mentre solo la faccia opposta (quella occupata dai Paesi ricchi) portava lo sviluppo ed il benessere.

Si spiegò che i popoli ricchi sono tali perché approfittano di quelli poveri depredandoli (Nolan A.): prendono a prezzo stracciato le materie prime dai Paesi poveri, e poi rivendono i propri prodotti a prezzi di mercato a chi è stato già depredato. Con questo sfruttamento, i Paesi poveri sarebbero rimasti sempre più poveri, quelli ricchi sempre più ricchi.

Quest’analisi fu fatta propria dalla conferenza di Medellin, la quale concluse – con un’opzione a favore dei poveri (Tamayo J.) - che, se la miseria non è naturale (NB: la miseria di ampie fasce di popolazione del Sud America è molto più miseria di quello che noi occidentali riusciamo a immaginare), ma un effetto della condotta dell’uomo su un altro uomo, si poteva e si doveva cambiare.

Occorreva una lotta di liberazione da parte dei popoli oppressi contro questo peccato strutturale della società, dovendosi incidere su questo rapporto causa-effetto fra ricchezza degli uni e povertà degli altri.

In altri termini, se il regno di Dio e la pace si accompagnano al rispetto e all’accoglienza di tutti gli esseri umani, ciò deve concretizzarsi innanzitutto in rapporti giusti tra le persone e i popoli. È evidente che ci potrà essere pace solo quando saranno rettificati i rapporti tra i paesi poveri e quelli ricchi, e se ciò non avviene tramite l’iniziativa dei ricchi, deve avvenire in base alla resistenza dei poveri (Nolan A.).

La teologia della liberazione, - esposta organicamente per primo da Gustavo Gutierrez, e tradotta in italiano col suo libro Teologia della liberazione, ed. Queriniana, Brescia, 1981 – nacque come atto di riflessione all’interno di questo movimento sopravvisto. Inoltre, il Gesù della teologia della liberazione fa parte della storia della ricerca sul Gesù storico, ricerca fiorita all’estero (in particolare in Germania e negli Stati Uniti), ma a lungo ignorata dalla Chiesa romana (Pesce M.).

La ribellione che si proponeva veniva fatta in nome dell’autentica volontà di Dio, perché Dio non vuole queste sottomissioni, questa dipendenza dell’uomo sull’uomo.

Dio diventa allora un Dio di parte, il Dio dei poveri, e bisogna partire da essi (in questo senso andava intesa l’affermazione di Jon Sobrino secondo cui non all’infuori della Chiesa non c’è salvezza, ma all’infuori dei poveri non c’è salvezza).

Dunque occorreva cambiare l’angolo visuale, il “da dove” guardare il mondo (cfr. n. 448 di questo giornale sui Concili ecumenici imperiali, https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/numero-448---15-aprile-2018/i-concili-imperiali), e in questa nuova ottica venivano letti i testi sacri, veniva riletta la storia di Israele.

Ci si domanda perché Dio abbia preso in simpatia un popolo piccolo, schiavo, insignificante, che non aveva neanche più la forza di pregare, ma solo di gridare?

Perché Dio guarda il mondo dalla parte dei più deboli, e si schiera contro il potente di turno che dall’alto del sul trono, approfitta per spadroneggiare ed accumulare ricchezze per sé. Ecco spiegato l’Esodo. Ecco spiegati il vestire l’ignudo, l’accogliere lo straniero, il visitare il carcerato. Anche Gesù ha detto (Mc 10, 44): «chiunque voglia tra di voi essere il primo sia lo schiavo di tutti». È strana questa espressione in bocca a Gesù, visto che egli ha sempre parlato di fratelli e di amici. Tutti sono fratelli all’interno della comunità, ma all’esterno – in quel mondo idolatra dove esisteva la schiavitù, dove esistevano padroni e schiavi - i seguaci di Gesù non possono mai allinearsi con i padroni, ma devono mettersi volontariamente accanto a quelli che soffrono l’oppressione. Dunque, all’interno della comunità tutti fratelli, con pari dignità: chi ambisce ad essere grande si mette volontariamente a servizio degli altri. Al di fuori della comunità, occorre stare sempre dalla parte degli ultimi. Tra il padrone e lo schiavo, sempre dalla parte dello schiavo.

Sicuramente, ragionando con i parametri politici attuali, questo sembra un Cristo di sinistra, e se buona parte della nomenclatura ecclesiastica si è opposta, significa che questi vescovi erano conservatori di destra: del resto loro non erano posizionati affatto male nella società (cfr. sempre il citato n. 448 del giornale).

Sta di fatto che, nei vangeli, Gesù mostra una particolare attenzione per i poveri.

Si inizia a predicare il Regno di Dio inteso come Regno da realizzare già su questa terra, come risposta umana all’idea che Dio ha dell’uomo. Dio ama anche i ricchi, ma principalmente è il Dio dei poveri, e sceglie i poveri perché essi hanno questa fragilità di base, storica, atavica, che non può essere più accettata.

Il Vangelo di Luca ci racconta di un Gesù, il quale vide che il posto migliore per annunciare il suo messaggio e il suo progetto era la Galilea, la regione dei più poveri, dei più ignoranti e dei più disprezzati, e ci spiega che questa decisione di Gesù fu il risultato di una spinta effettuata «dalla forza dello Spirito» (Lc 4, 14), col che viene espressa «un'affermazione programmatica». Non si tratta solo del fatto che Gesù andò a vivere e realizzare il suo progetto in Galilea, la regione più povera e di pessima fama. Oltre a questo e in questa regione di povertà e discredito, i vangeli sottolineano che Gesù volle vivere con gli ultimi degli ultimi, con coloro la cui ignoranza religiosa e il cui comportamento morale precludeva, secondo le convinzioni dell'epoca, la porta di accesso alla salvezza» (Jeremias J.).

Come è stato detto assai bene, la forma di vita che assunse Gesù fu pertanto quella che i sociologi di oggi qualificano come «una condotta deviata» (Theissen G.).

Anche dalla contrapposizione tra Gesù, che non è possibile averlo sempre, mentre i poveri invece è possibile averli sempre insieme a noi (Mt 26, 11), ben può sostenersi che i poveri nella comunità cristiana hanno preso il posto di Gesù. Anche questa affermazione è un duro colpo per il magistero che sostiene il vicariato di Pietro, ma se leggiamo il vangelo, quando Gesù si trova in casa del lebbroso Simone (Mc 14, 3), dice a chiare lettere così: «I poveri li avete sempre con voi… me invece, non sempre mi avrete» (Mc 14, 7; Mt 26, 11). Da questa contrapposizione emerge nitidamente che i poveri nella comunità cristiana prendono il posto di Gesù, cioè il posto di Dio stesso.

La presenza del povero all’interno della comunità è quella di Dio stesso, per cui il povero (non il papa) è il vicario di Cristo in terra.

In nessun passo dei vangeli, invece, Gesù afferma altrettanto espressamente che, quando lui non ci sarà più fisicamente in questo mondo, Pietro (e i suoi successori) prenderanno il suo posto in mezzo alla comunità. Noi non sappiamo chi è Dio, ma sappiamo dove lo si può cercare: nei poveri, perché in questi uomini Egli si nasconde.

E allora, il vescovo Romero può dire che la gloria di Dio sta nel povero che vive, nel senso che il riscatto del povero ad un livello di vita più dignitoso (anche solo quando riesce finalmente ad avere il suo pane quotidiano) è qualcosa di materiale che si trasforma in progresso spirituale.

Questa decisa opzione a favore di poveri, che pure sembra irrinunciabile nel Magnificat (Lc 1, 46-56) e fin dal momento della nascita di Gesù (Lc 4, 7.18-19) spaccò presto lo stesso episcopato sud americano.

C’era chi vedeva nell’istituzione ecclesiastica una Chiesa troppo autoritaria, troppo ricca, troppo zitta.

Al contrario, c’era chi nella nuova teologia subodorava un’infiltrazione comunista, e si schierava perciò con i governi autoritari che, utilizzando la fede per propri fini politici, mantenevano le prerogative dei ricchi con la scusa di combattere il diavolo-comunista: ennesima fusione fra altare e trono.

Vi fu un momento storico in cui l’episcopato argentino, che parteggiava per i generali, censurò perfino il Vangelo: dal Magnificat venne materialmente espunta (non più stampata) la frase che Dio ha rovesciato i potenti dai loro troni (Lc 1, 52). Una parte dell’episcopato riteneva dunque che la teologia della liberazione facesse apologia della violenza fatta nel nome di Dio, ed in effetti vi furono anche alcune frange cattoliche che passarono alla lotta armata (e sotto questo aspetto è difficile dar torto all’episcopato conservatore: è difficile cioè far passare per “cattolico” il kalashnikov come atto d’amore).

La realtà, però, era che la teologia della liberazione metteva in discussione la politica ed i pubblici poteri, tutti i pubblici poteri, e conseguentemente non salvava neanche la stessa struttura gerarchica piramidale della Chiesa: anche il ruolo della Chiesa nella società, ed il modo in cui fino ad allora si era fatta teologia e catechesi era messo in discussione. Una chiesa che nasce dal basso, dal popolo, finisce coll’impedire che il vangelo possa essere utilizzato per appoggiare l’autorità e l’ordine costituito, soprattutto quando ci si accorge che mai nel vangelo si parla di obbedienza in riferimento alle persone (Maggi A.).

La normalizzazione vaticana, conclusasi con il l’Istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede del 6.8.1984, firmato dall’allora suo prefetto cardinal Ratzinger (in Enchiridion vaticanum, ed. Dehoniane, Bologna, vol. 9 – nn. 866-987), dopo la scontata dichiarazione di principio che la Chiesa è sempre stata con i poveri, senza attaccare autori specifici o libri specifici, stroncò in blocco tutte le ramificazioni della teologia della liberazione, sotto un profilo politico e sotto un profilo teologico: politicamente questa teologia era troppo affine al marxismo (n. 867), giungendo fin a proporre una lettura politica del Magnificat (n. 957), di cui si era lamentato l’episcopato argentino e sobillando una lotta di classe (n. 941); teologicamente, poi, la teologia della liberazione metteva un accento unilaterale sulla schiavitù terrestre temporale, trascurando il peccato e l’importanza che esso ha (n. 886). Ponendo il pane prima della parola si confondeva la salvezza di Cristo con un progetto terrestre temporale. Ma soprattutto, veniva a formarsi un pericoloso magistero parallelo, non obbediente a Roma, mentre anzi la struttura sacramentale e gerarchica romana veniva screditata (nn. 952s.) e veniva respinta l’interpretazione autentica del magistero romano con un’interpretazione di classe che si allontanava dalla tradizione (n. 960). Si ricordava che il Regno di Dio non è un movimento di liberazione umana (n. 942) e non è di questo mondo (n. 987), e si ritornava sul “punto dolente”: i rapporti fra gerarchia e la base venivano presentati dalla teologia della liberazione come rapporti di dominio, negando la sacramentalità che sta alla base dei ministeri ecclesiali (n. 967). Ora, avendo avuto alle spalle la Santa Inquisizione, e sostenere oggi che il magistero non ha mai voluto dominare, sembra affermazione un po’ azzardata.

Dalla semplice lettura del decreto della Curia Romana, sembra però abbastanza evidente che il vero motivo della bocciatura stia nel fatto che la struttura gerarchica vaticana si è sentita in pericolo e che proprio la contestazione al magistero ufficiale sia stata la maggior preoccupazione della stessa Curia (non per niente la paura di veder screditato il magistero viene ripetuta due volte).

Come diceva lo psicoanalista Jung, noi non vediamo le cose per come sono, ma per come siamo.

Si tratta del principio secondo il quale il da dove si vedono le cose determina e condiziona come si vedono le cose. È evidente che da un palazzo o da un Paese ricco si vede la vita e il mondo in maniera molto diversa da come li si vede da una stamberga, o da una favela del Terzo mondo.

E Gesù, uomo come tutti gli esseri umani, non poté evitare questo condizionamento. Dalla Galilea non si vedeva e non si viveva la religione come la si vedeva e la si viveva a Gerusalemme, che, oltre ad essere la capitale dove vivevano ben insediati i notabili (sia religiosi che laici), era la città in cui il culto religioso era il segno d'identità dei suoi abitanti e costituiva la maggior fonte d'introiti per tutta la città.

Ma se è dal basso, dai piccoli (népioi), cioè dagli ultimi da dove ci si può sintonizzare con Gesù, e se solo da dove si posizionò Gesù possiamo incontrare quel Dio che si fece conoscere in Gesù, emerge subito una stranezza nella nostra religione: il magistero, coloro che detengono l'autorità e ritengono di avere il monopolio del potere religioso, sono sempre persone che non stanno in basso, bensì di sopra, che non sono soliti occupare gli ultimi posti, bensì i primi e, di conseguenza, non possono vedere allo stesso modo degli ultimi, degli esclusi (Castillo J.M.). Non a caso, il missionario Paoli poteva dire: «Avreste dovuto vedere le espressioni, i commenti, le esegesi dei vangeli che facevano i poveri con noi, alle riunioni. ‘Ma allora Gesù sta con noi, Gesù ci aiuta, vuole che non ci disperiamo, che ci riuniamo insieme, che ci aiutiamo l’un l’altro per stare un po' meglio... Ma tutti i cristiani capiranno il Vangelo come lo capiamo noi?’... ».

È vero, quanto all’aspetto sociale la Chiesa ufficiale non ha difficoltà a riconoscere che lo stesso Concilio Vaticano II (Gaudium et spes §§39 e 69) ha affermato che le Nazioni più forti e più dotate devono sentirsi moralmente responsabili delle altre affinché sia instaurato un vero sistema internazionale fondato sull’uguaglianza, visto che i beni creati debbono essere partecipati equamente a tutti.

Ma fra dire e mettere in pratica… Per la Chiesa va bene predicare l’uguaglianza, ma non mettere il pane prima della parola di Cristo, anche se Gesù ha detto: prima di predicare occorre darsi da fare, perché coloro che solo annunciano la parola di Dio, ma poi non la mettono in pratica, sono solo operatori di iniquità (Mt 13, 41); e qui allora si può capire il vescovo Helder Camara quando diceva: “Se dò da mangiare a un povero mi danno del santo; se chiedo perché il povero non ha da mangiare mi danno del comunista”.

E del resto, cosa dice l’ultima Beatitudine (Mt 5, 11)? Se sarete una comunità fedele a tutte le Beatitudini, se farete della condivisione la vostra bandiera, se sarete veri costruttori di pace, aspettatevi la persecuzione, non certo l’apprezzamento.

Quanto al severo richiamo dell’importanza del peccato individuale, ci si deve chiedere: può oggi soddisfare la gente una teologia che mette il peccato, anziché l’amore, al centro della propria esistenza?

Il vangelo parla di conversione per il perdono dei peccati (Mc 1, 4; Lc 24, 47).

La parola greca metanoia (conversione) significa orientare diversamente la propria vita: se fino ad ora hai vissuto per te, ora vivi per gli altri. Questo cambiamento dovrebbe di per sé solo essere sufficiente per il perdono, per la cancellazione dei peccati.

È senz’altro vero che la conversione invocata nei vangeli non concerne le ingiustizie strutturali, ma emenda l’ingiustizia personale, perché col nuovo atteggiamento il singolo rinuncia alla sua precedente egoistica e cattiva condotta.

In effetti, Gesù non si presentò mai come un leader politico, ma come il possessore della pienezza umana e, con essa, della condizione divina.

La sua opera salvifica si è sempre concentra perciò sul singolo, non sulla società, perché la comunicazione della vita divina avviene da individuo a individuo. La salvezza non inizia con un cambiamento politico-sociale, né con l’instaurazione di un regno terreno, ma col rinnovamento interno dell’uomo singolo.

La costruzione di una società nuova sarà poi l’obiettivo e il frutto dello sforzo di questa nuova umanità vivificata.

Ecco perché, per il progetto di Dio, serve la collaborazione di ogni singolo uomo, in quanto la giustizia sociale può nascere solo dalla confluenza delle giustizie individuali. Finché restano vive negli uomini le radici dell’ingiustizia, cioè gli egoismi e le ambizioni personali, lo sviluppo umano si vedrà ostacolato e non avrà vera e duratura soluzione per la società. Va anche detto a chiare lettere che il peccato, secondo i vangeli, è mangiare il pane pensando solo a sé stessi. Inoltre ogni attività, se non si fonda sull’amore che vivifica, si limiterà ad essere un’azione esterna che allevia le miserie, ma non potrà né guarire né vivificare l’uomo. La linea di sviluppo umano è l’amore, e un’attività senza amore non sviluppa né colui che la riceve, né colui che la esercita (Mateos J. e Camacho F.).

Probabilmente, perciò, la teologia della liberazione ha ancora qualcosa da dire a tutti i cristiani. Anche, e soprattutto, a noi europei. E per rendersi conto di quanto tutti noi (sia coloro che sono convinti di essere veri credenti, sia gli altri) siamo ancora lontani anni luce dal mettere in pratica i princìpi evangelici, duemila anni dopo Cristo, basta questo esempio: l’insistenza dei vangeli, quando parlano di alimentazione, si focalizza non sull’elemosina, ma sulla convivialità, vale a dire, sul fatto di condividere la mensa.

Infatti c’è una differenza abissale fra dar da mangiare a qualcuno, perché poi mangi dove e come può, o far accomodare qualcuno alla propria tavola per condividere con lui la stessa energia di vita che sostiene lui e noi.

Questo è ancor più evidente quando la persona che invitiamo a casa nostra non è un personaggio importante, un parente o un amico, bensì un signor ‘nessuno’, uno qualsiasi o, il che risulterebbe ancor più duro, qualcuno che ci sembra sgradevole o perfino ripugnante.

Far sedere alla nostra tavola un barbone, un vagabondo sconosciuto o una persona che c’ispira più repulsione o disprezzo che simpatia, tutte queste sono forme di condotta così infrequenti, che chi le pone in essere sembra un audace utopista, un uomo ingenuo o forse uno stravagante marziano (Castillo J.M.).

Il Vangelo è vita pratica, ma è duro, molto duro. Soprattutto non ha nulla da vedere con le questioni teologiche che mirano a spiegarci chi è Dio o chi è Gesù, questioni sulle quali invece siamo rimasti bloccati per tutte queste ultime settimane come se fosse questo il vero cristianesimo, erroneamente pensando che da queste questioni emergerà chi è vero credente e chi non lo è. Se solo ci facessimo un vero esame di coscienza, scopriremmo subito che siamo tutti operatori d’iniquità.

Dario Culot