Memoriae

Eva ed Adamo - disegno di Rodafà Sosteno

Ci fu un tempo in cui qualcuno, intendendo chiedermi come stessero i miei figli, ricorreva a una domanda singolarmente formulata: “E le bestie?”

Si presupponeva, da parte del richiedente, che io immediatamente comprendessi a chi si riferiva. “Bestie” uguale “figli”, da chiudere in qualche recinto, da controllare e mettere al sicuro. Neppure per un istante baluginò davanti all’interrogante l’idea che la richiesta, effettivamente preoccupata di dimostrare interessamento alla famiglia con linguaggio, però, tutt’altro che familista, molto “alla moda”, potesse apparire men che brillante ed arguta.

Vorrei farmi capire. Era, quella domanda, provocazione scevra da animo ingiuriante (almeno credo), desiderosa piuttosto di apparire, appunto, come accattivante e simpatica. E tuttavia – qui sta il punto – denotava un clima culturale dai tratti piuttosto precisi, ben marcati ed oggi presenti più che mai.

Provo e decifrare tale tratteggio.

Chi chiede delle “bestie” riferendosi ai figli, propri o di altri, denota, a mio avviso, un sostanziale disprezzo per il mondo animale, ridotto a coacervo di istinti ed azioni imprevedibili e comportamenti irrazionali forieri di disastrose conseguenze, ed attesta un sostanziale disprezzo per persone in crescita, nella totalità del loro essere, verso l’adolescenza e poi la giovinezza e poi la maturità, ma al momento “solo” bambini e bambine senza difesa, in meraviglia – anche ingenua – davanti al mondo.

Il mondo ha altre leggi ed altre coerenze che sarebbe il caso di apprendere senza troppi indugi e ritardi, anche se biologicamente giustificati da un’età ancora assai verde. “Che imparino ad esser bestie”.

Forse si potrebbe leggere la domanda (“come stanno?”) anche rovesciando il suo significato, senza contraddire quanto s’è tentato di interpretare.

Le “bestie” fanno nostalgia, la loro identificazione come tali (non “animali”, ma “bestie”) evoca una nostra individualità ancestrale, viscerale, profondissima: homo homini lupus. E di questa riconoscimento dovremmo finalmente diventare tutti consapevoli, con serenità ma anche con una specie di necessario cinismo, perché il mondo non è dell’infanzia, il mondo dev’essere dei realisti e consapevoli, dev’essere nostro. Da “nostro” a “mostro” il passo è foneticamente brevissimo, ma una possibile mostruosità di noialtri sarà riscattata dall’acquisita coscienza belluina del mondo che ci circonda. Le “bestie” appunto, sono gli altri, che devono star bene e che se stanno male vanno buttate via, perché le “bestie malate” sono inservibili, financo nel loro potenziale evocativo, non servono proprio a nulla e la loro cura sarebbe troppo dispendiosa.

Le “bestie” infatti si possono vendere e comprare al loro apposito mercato, “il mercato delle bestie”. Si possono fare affari, si possono risolvere problemi economici o di pratica gestione. Un baratto che sta esattamente all’opposto della condivisione. Mi dai “una bestia”, ti do il corrispettivo.

Ricordo quando alla periferia d’Asmara, molte estati (o inverni, dipende dalla prospettiva equatoriale) fa, un acquazzone monsonico fece affogare una mucca: fu rispettosamente lasciata immobile al limitare del corso d’acqua vicino e tutti, tutti, senza alcuna competizione e senza alcuno sotterfugio, poterono sfamarsene, affettandola ora dopo ora con un gesto che era sacrale, non mercantile. La “bestia” era rimasta “animale”, capace di sfamare altri “animali” quali noi siamo.

L’appello alla belluinità, il tentativo di rinfocolare una sua presunta memoria da troppo tempo seppellita dentro di noi assumono dimensioni di particolare inquietudine nella giornata odierna, che è Giornata della Memoria. Dimensioni che fanno paura.

I cadaveri dei milioni di persone del Popolo d’Israele sterminate con lucida e precisa pianificazione dai nazisti erano definiti – genera obbrobrio anche solo scriverlo – “pezzi”. Il film “Il figlio di Saul” lascia senza parole al riguardo. Le “bestie” vengono un attimo, solo un attimo, prima dei “pezzi”. Perché le “bestie” sono (ancora) viventi.

Devo spiegarmi, certo. Le parole fanno male.

Il cinismo che si fa perfetta macchina industriale di sterminio, studiato a tavolino e poi attuato in ogni sua fase progettuale, non è rischio scongiurato per sempre. Non è una malattia estinta, debellata. Il virus circola. Si fa respirare (http://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2019/01/24/giorno-della-memoria-mattarella-shoah-virus-pronto-a-risvegliarsi_9df75b46-aed6-4e1c-a5f0-3f070228582f.html).

Quel cinismo ha premesse politiche, filosofiche, economiche e di proprio orientamento esistenziale. “Noi” e “loro”. “Loro” le “bestie”, che noi sappiamo d’essere ma evitiamo di diventare rinchiudendo ed eliminando la belluinità, addossata agli altri. La ferinità è altrui. “Come stanno?” Il passaggio è più sofisticato di quanto si potrebbe pensare.

L’approvazione plaudente per la provocazione è diffusissima. Il provocatore fa incetta di consensi. Poi, però, cosa resta? È un esorcismo, forse più raffinato di quello da manuale religioso, ma ha esattamente la stessa funzione, usa la medesima tecnica. So di essere “bestia”, ne ho “memoria”, ma mi sottraggo a simile smascheramento ed assegno la condizione ferina a te, a lui, a lei, a loro, a voi. Trovo un capro espiatorio, in senso realmente simbolico, fisicamente simbolico. Anche la domanda su “come stessero le mie bestie” era una provocazione, lo si diceva, e attendeva infatti risata di consenso (che mancò, con dispetto dell’interlocutore).

C’è una memoria di popolo e c’è una memoria individualista.

La memoria personale sta dentro la prima, i ricordi appartengono ad essa. La memoria individualista invece è tormento per ciò che non si è e non si ha, è bipartizione del reale - di qua e di là -, è sezionamento della vita.

Stiamo atomizzando le nostre memorie, ognuno, ognuna per sé. Non le condividiamo, non diventano patrimonio comune.

L’atomizzazione delle memorie è preambolo di rancore. Ed il rancore è totalitario, se non nelle pratiche nei desideri. Vuole quel “tutto” che non può avere. Non accetta che non esistano “bestie”, da domare, bensì vite, vite umane, vite di popoli, vite animali, vite di un ambiente che va in consunzione tra il disinteresse del Potere.

La Giornata della Memoria per noi è sempre, ancora, lo sarà nel futuro, lo insegneremo ai nostri figli ed alle nostre figlie, sosta necessaria per capire chi siamo. E per sapere quali ideali annientino e quali facciano vivere.

Personalmente, mi riempie di speranza ed entusiasmo sapere di ideali che si propongano di “annunziare ai poveri un lieto messaggio”, “proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista”, “rimettere in libertà gli oppressi”, come legge Gesù a Nazaret secondo la narrazione del capitolo 4 di Luca oggi proclamata nella liturgia romana.

Ma gli ideali sono anche differenti, lo sappiamo, ce lo insegna la storia, lo vediamo in questi giorni. E la cernita si impone, anche senza ricorsi al messaggio evangelico, anche solo per salvare del tutto laicamente i valori di democrazia ed il riconoscimento dei più elementari diritti umani.

Buona domenica.

Stefano Sodaro