I paradossi dell’immaginario

In un’epoca post-ideologica quale dovrebbe essere la nostra, ci troviamo invece a vivere all’interno di un’ideologia probabilmente più pervasiva e tenace rispetto alle cosiddette ideologie classiche. E questa ideologia di nuovo tipo, soggiacente e microfisica, poco incline alle manifestazioni eclatanti, viene incarnata dal pensiero liberaldemocratico, cioè dalla convinzione diffusa che il modo di vivere dell’Occidente, cioè lo stile e le politiche attraverso le quali siamo governati e governiamo noi stessi, realizzino il miglior mondo possibile e siano pertanto esportabili anche con l’uso della forza. Zizek ha evidenziato bene i paradossi di questa condizione, smascherando le ipocrisie dei buonismi e dei moralismi attraverso le quali occultiamo anche a noi stessi la pratica di una certa violenza. Da parte sua Derrida, in Stati canaglia (2003), ci mostra come la condizione stessa di “canaglia” non sia precipuamente quella propria degli stati non democratici, ma, esattamente all’opposto delle nostre attese, connoti invece nella sua essenza ogni forma statuale di tipo democratico. La democrazia, in altre parole, porta in sé un germe demoniaco ed è per questo che essa non è mai compiuta, ma si auto-rilancia di continuo in una sorta di autoimmunizzazione che ne fa sempre qualcosa di a-venire, un Messia senza Messia e quindi una sorta di paradossale attesa.

Ora, potremmo interrogarci sulle modalità fenomenologiche in cui questa nuova ideologia capillare, silente e microfisica in qualche maniera si manifesta e prende per così dire “corpo”, agendo fattivamente nel tessuto sociale. Mentre l’ideologia classica si mostrava in tutto il suo fastigio roboante quanto prepotente, oggi ci troviamo ad aver a che fare con delle nuove strategie le cui finalità sono quelle di inculcare determinate convinzioni non attraverso forme di personalizzazione carismatica, bensì attraverso modalità di diffusione pluralistica ed immaginaria.

La posta in gioco è quella di tradurre la sfera astratta delle idee in qualcosa che diviene sensibile e percepibile: è un problema che affronta già Hegel nelle Lezioni di estetica laddove vede nell’arte la capacità miracolosa di “incarnare” lo Spirito, saldando così paradossalmente i due versanti semantici denotati dal tedesco Sinn, che indica nel medesimo tempo il “senso” inteso come campo della sensibilità e della sensazione (donde i “cinque sensi”, il “buon senso”, etc.) e il senso nella sua accezione astratta, ideale e per così dire “noetica”.

Ora, sempre seguendo Zizek su questa linea di argomentazione, il modus in cui l’attuale ideologia agisce e si fenomenizza è caratterizzato da un’inflazione epidemica dell’immaginario, cioè da una prevalenza sistematica dell’immagine sulla dimensione simbolica. Lo mostrano eloquentemente il successo dell’arte contemporanea e la popolarità smisurata delle grandi mostre-evento, la moltiplicazione dei canali televisivi tematici di fiction, entertainment, movie, etc., le sempre nuove tecnologie che – come fanno un po’ i Social Network - mediano in ogni istante la nostra esistenza, distanziandoci dalla realtà e da emozioni e sensazioni effettivamente vissute. Non si tratta d’altronde di una novità: il fastigio dell’immagine era tipica ad esempio delle grandi monarchie dove c’era l’esigenza di corroborare e rafforzare l’idea della sovranità assoluta in un’epoca in cui le comunicazioni erano molto più rarefatte. Così come, retrocedendo nel tempo, i grandi imperi – da quello persiano a quello romano – avevano quale priorità quella di celebrare la propria potenza attraverso architetture roboanti e scenografie sociali in cui dominava quello che Lacan definisce “sembiante”, cioè un’immagine che possiede una connotazione simbolica.

Se dobbiamo allora rintracciare qualche elemento d’originalità nell’immaginario contemporaneo, oltre al carattere inflattivo facilitato dai progressi tecnologici, dobbiamo forse guardare a Guy Debord che tra i primi ha delineato i contorni di una società dello spettacolo qual è quella in cui stiamo vivendo oggi. Che cos’è che caratterizza questa nuova forma strategica dell’immagine? In che cosa essa differisce dall’immagine imperiale della sovranità ad esempio? Innanzitutto – e qui la cosa potrebbe apparire sorprendente – l’immaginario dell’ideologia classica, essendo precisamente strategizzato, possedeva un puntuale carattere simbolico, talché l’immagine in se stessa era un aliquid stat pro aliquo che rimandava ad un certo significato non manifesto. Se invece vogliamo indagare sul senso dell’immaginario post-ideologico o, meglio, tardo-ideologico, possiamo notare come esso sia sempre più avulso da un connotato semantico ben identificabile e presenti semmai dei toni che, derridianamente, possiamo definire “spettrali”. In altre parole, l’immagine non è più, come intendeva ad esempio Peirce, un particolare tipo di segno che egli chiamava “icona”, me è divenuta vieppiù un “fantasma”, cioè un’immagine che ad un certo punto ha acquisito una vita propria, uno statuito ontologico abbastanza inquietante che la pone tra la vita e la morte. In questa prospettiva noi oggi possiamo parlare di “eterotopie” (Foucault), “non-luoghi” (Augé), “noggetti” (Sloterdijk), “oggetti a (Zizek-Lacan), etc., ovvero non di realtà concrete, effettive e traumatiche, ma di quasi-esistenze spettrali che si pongono tra l’essere e il non-essere.

Dietro a questo nuovo statuto ontologico, troviamo tutto un complesso meccanismo immunologico che tende a tenerci distanti da un reale che presenta i caratteri dell’oscenità e del trauma: gli eventi propagati continuamente dai media di atrocità, cataclismi e sofferenze umane d’ogni sorta non sono affatto il sintomo di una società più trasparente ove, grazie a internet e alla globalizzazione, possiamo sapere tutto ciò che accade nel mondo standocene tranquillamente seduti nel nostro salotto davanti al tablet o all’iPad. Esattamente all’opposto, questa pletora di immagini ci allontana dalla realtà, la fa apparire un film, se non proprio una fiction: essa scandalizza, angoscia e agghiaccia ma come lo potrebbe fare un serial-horror o un film apocalittico degli anni Ottanta.

Facciamo due esempi d’attualità: 1) le immagini delle teste mozzate dai membri dell’Isis, con tanto di rituale fatto di divise, proclami, sentenze, etc.; 2) le docce gelate dei vip del mondo. Nel primo caso assistiamo indubbiamente ad un intento che potremmo definire “terroristico”, poiché le immagini così cruente e violente sono finalizzate a diffondere la paura e quindi ad indebolire l’avversario e a indurre risposte emotive ed inconsulte. Possiamo enfatizzare questa sfumatura, mettendo in relazione tali immagini con quelle scarsissime che i nazisti avevano fatto dei loro campi di sterminio. Documenti ce ne sono moltissimi, certo, ma non erano destinati alla diffusione ed erano per lo più immagini carpite, come se ci fosse stata l’intuizione inconscia delle azioni inumane che ivi si stavano compiendo. Le immagini della Shoa, anzi, si contrapponevano all’intenzione nichilistica radicale dello sterminio, come se il ritratto anche di un solo ebreo potesse rappresentare una sorta di resistenza ontologica, una sopravvivenza al di là della morte e del sapone che veniva prodotto dalle ceneri dei forni crematori.

Le teste mozzate riprese in mille varianti sembrano avere una finalità esattamente antitetica, poiché è proprio dell’esistenza di quelle immagini che si tratta, cioè di un processo di reificazione che tende ad evitare qualsiasi forma di oblio e che quindi tende a perpetuare il terrore anche al di là dell’esistenza in carne ed ossa dei terroristi. Immagini che come spettri non sono né vive né morte, ma aleggiano mortifere ed eterne nell’animo dell’Occidente come perpetuo ammonimento.

Le docce gelate, invece, sono più significative nel senso dell’ideologia liberaldemocratica poiché mettono assieme un buon proposito che ci fa sentire tutti più buoni con qualcosa d’altro. In fondo il messaggio iniziale era questo: o fai una donazione per una buona causa e quindi puoi auto-definirti “buono e probo”; oppure scegli la via traumatica della secchiata in testa di acqua gelida. Ora, ci si sarebbe aspettata una corsa diffusa alla donazione anche perché bagnarsi nel Minnesota d’inverno, con 30 gradi sottozero per evitare l’elargizione, non solo era segno di un’avidità sproporzionata, ma poteva diventare controproducente dal punto di vista della propria salute. Eppure i vip non solo hanno scelto preferenzialmente la seconda via – quella più traumatica – ma hanno invaso il mondo con le loro immagini. Il problema della SLA (sindrome laterale amiotrofica), malattia incurabile che porta ineluttabilmente alla paralisi assoluta, è stata ricoperta da una stratificazione smisurata di immagini in cui i selfie hanno di fatto sostituito il reale ed hanno, nella loro inconsapevolezza, alienato gli stessi soggetti che magari, attraverso l’immagine, confidavano in una pubblicità suppletiva e, quindi, in una sorta di attestazione esistenziale (esisto poiché sono “postato” e “pubblicato”). Strano incantamento dell’immaginario, quindi, che da semplice rappresentazione della realtà è sempre sul punto di trasformarsi in un fantasma, cioè – come diceva Marx – in un tavolo di legno che inizia a ballare, né vivo né morto.

Emiliano Bazzanella