L’ateismo del Papa

Il papa e l’ateo - disegno di Rodafà Sosteno

Mercoledì scorso, durante l’udienza settimanale, sviluppando un proprio percorso di catechesi magisteriale sul discorso della montagna (capitolo 5 del Vangelo di Matteo), il Papa ha testualmente affermato:

«Ecco il grande segreto che sta alla base di tutto il discorso della montagna: siate figli del Padre vostro che è nei cieli. Apparentemente questi capitoli del Vangelo di Matteo sembrano essere un discorso morale, sembrano evocare un’etica così esigente da apparire impraticabile, e invece scopriamo che sono soprattutto un discorso teologico (…). Ecco dunque come Gesù introduce l’insegnamento della preghiera del “Padre nostro”. Lo fa prendendo le distanze da due gruppi del suo tempo. Anzitutto gli ipocriti: «Non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente» (Mt 6,5). C’è gente che è capace di tessere preghiere atee, senza Dio e lo fanno per essere ammirati dagli uomini. E quante volte noi vediamo lo scandalo di quelle persone che vanno in chiesa e stanno lì tutta la giornata o vanno tutti i giorni e poi vivono odiando gli altri o parlando male della gente. Questo è uno scandalo! Meglio non andare in chiesa: vivi così, come fossi ateo. Ma se tu vai in chiesa, vivi come figlio, come fratello e dà una vera testimonianza, non una contro-testimonianza. La preghiera cristiana, invece, non ha altro testimone credibile che la propria coscienza, dove si intreccia intensissimo un continuo dialogo con il Padre: «Quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto» (Mt 6,6).

Poi Gesù prende le distanze dalla preghiera dei pagani: «Non sprecate parole […]: essi credono di venire ascoltati a forza di parole» (Mt 6,7). Qui forse Gesù allude a quella “captatio benevolentiae” che era la necessaria premessa di tante preghiere antiche: la divinità doveva essere in qualche modo ammansita da una lunga serie di lodi, anche di preghiere. Pensiamo a quella scena del Monte Carmelo, quando il profeta Elia sfidò i sacerdoti di Baal. Loro gridavano, ballavano, chiedevano tante cose perché il loro dio li ascoltasse. E invece Elia, stava zitto e il Signore si rivelò a Elia. I pagani pensano che parlando, parlando, parlando, parlando si prega. E anche io penso a tanti cristiani che credono che pregare è – scusatemi – “parlare a Dio come un pappagallo”. No! Pregare si fa dal cuore, da dentro. Tu invece – dice Gesù –, quando preghi, rivolgiti a Dio come un figlio a suo padre, il quale sa di quali cose ha bisogno prima ancora che gliele chieda (cfr Mt 6,8). Potrebbe essere anche una preghiera silenziosa, il “Padre nostro”: basta in fondo mettersi sotto lo sguardo di Dio, ricordarsi del suo amore di Padre, e questo è sufficiente per essere esauditi.

È bello pensare che il nostro Dio non ha bisogno di sacrifici per conquistare il suo favore! Non ha bisogno di niente, il nostro Dio: nella preghiera chiede solo che noi teniamo aperto un canale di comunicazione con Lui per scoprirci sempre suoi figli amatissimi. E Lui ci ama tanto.»

Così il Papa.

Riflettiamo ora un po’ distesamente.

C’è il rischio di poco comprendere dell’effettiva portata delle parole pontificie se ci si limita ad una specie di riabilitazione cattolica della figura dell’ateo o, specularmente, alla definitiva consacrazione - sempre molto cattolica – di un depotenziamento, di un disinnesco definitivo della carica sovversiva dell’ateismo.

La teologia della liberazione latinoamericana, in cui si inserisce Francesco Papa molto di più del card. Jorge Mario Bergoglio, dice altro e punta ad altro.

Da un lato, osserviamo, le “preghiere atee” sarebbero le preghiere “senza Dio”, in un’accezione, sia permesso annotarlo con ogni rispetto, un po’ povera di significato. L’ateismo, soprattutto nel contesto europeo-occidentale, ha una statura ermeneutica ben diversa dalla semplice negazione di Dio. Ed anche il “vivi così, come fossi ateo” forse non dà integralmente conto della drammaticità insita nell’ateismo, anche quando lietamente vissuto, non tanto in sé dunque quanto nei confronti della coscienza credente.

Ma poi “gridare, ballare, chiedere tante cose” fornisce finalmente, almeno a parere del sottoscritto, la chiave interpretativa fondamentale del discorso del Papa.

Quel “discorso teologico”, che non è mero “discorso morale”, è in effetti un discorso teologico-pratico. E la teologia pratica ha il limite di non essere teoretica – se di limite si può parlare – ed ha la ricchezza di provocare e mettere in crisi ogni astrazione religiosa, metafisica o dottrinale che sia.

La teologia-pratica, come poi in effetti tutte le teologie contestuali, nel momento in cui afferma di essere “teologia di” qualche cosa, si trova a doversi districare tra un complemento di specificazione soggettivo ed uno oggettivo.

Ricorriamo all’esempio, appunto, della teologia “della liberazione”. Quel “della” sta a significare che la teologia libera, dunque secondo un’accezione soggettiva, oppure che la liberazione umana, prescindendo ora dalla sua connotazione contenutistica, ha sempre una valenza teologica e dunque si tratta di teologia “di” qualcosa che viene oggettivato e così teologizzato?

La risposta rimane aperta, forse sono ammissibili due consensi contemporaneamente, al significato soggettivo ed a quello oggettivo. Allora proviamo a trarre qualche possibile conclusione.

La prassi interroga la teologia con istanze del tutto diverse da quelle di una teologia disincarnata da qualunque coinvolgimento “pratico”.

Lo stesso primato assegnato da Lutero alla fede – quel Lutero che giunse a maledire la carità (http://www.virgolettato.altervista.org/2017/02/26/quando-lutero-maledi-la-carita/) –, molto diversamente da quanto si può ritenere, è recupero di un’integrale debolezza della teologia di fronte a Dio, cioè di una consapevolezza dei riflessi che la debolezza della concreta vicenda umana, di qualunque vicenda umana, ha rispetto all’unico gesto possibile nonostante tale debolezza e cioè il gesto, anch’esso concretissimo, quanto mai pratico, della fiducia, dell’abbandono, dell’accettazione dello scacco, del rimettersi a cercare, del pianto che non abbia borghesi pudori.

La fede è interrogata dall’amore non in modo dissimile dall’interrogazione che le rivolge l’ateismo.

Che cosa importa alla fine? Credere o amare, soggettivo od oggettivo che sia?

L’alternativa si dà nella misura in cui la scissione è ritenuta necessaria accampando pretesi diritti della fede di fronte alle contaminazioni amorose.

L’alternativa non si dà più qualora, invece, appaia possibile una sovrapposizione, un non chiedersi più – perché privo di valore teologico appunto - se chi ho di fronte abbia identità confessionali o non ne abbia alcuna, importando solo la pratica dell’amore, la sua concretezza, la sua nominazione quale che sia, purché non travesta la violenza con reclami d’affetto.

L’ipocrisia, che il Papa condanna, non è la semplice “doppiezza” della vita (sarebbe interessante sapere chi se ne possa ritenere immune, ma ancor più se sia davvero virtuosa la sua assenza), l’ipocrisia è il non amore. Ipocrita è chi non ama, questo dice il Papa.

Si chiude un po’ il cerchio.

La fede degli atei c’è, esiste, ed è proprio la decisività dell’amore.

La fede dei credenti, se c’è, non è altro da questa questione decisiva, ma è invocazione, diciamo pure preghiera – assai debole, assai povera - affinché amare sia possibile, nonostante qualunque cosa in contrario, nonostante se stessi.

I diritti di Dio vengono così vanificati, certo, ed è scandalo per i clericalismi di tutto il mondo.

Ma ci piace pensare che Dio ne goda e salvi indebolendosi. O incarnandosi. Che non fa differenza.

Accadde qualcosa del genere – un Dio molto debole, anzi indebolito – agli occhi dei Magi, in fuga da Erode e dai suoi desideri di dominio.

Buona domenica.

Stefano Sodaro