Conoscenza e convinzione

Cristo e la Samaritana, Angelika Kauffmann, 1796 - immagine tratta da commons.wikimedia.org

Diversi non credenti osservano dubbiosamente che mancano prove sufficienti sui dati storici riguardanti la vita terrena di Gesù. Conosciamo troppo poco del Gesù storico per affidargli le nostre vite: in base a cosa diciamo che i vangeli sono credibili? Avremmo bisogno di tanti più dati attendibili: come si fa a dire che Gesù ha veramente raccontato certe parabole, ha veramente compiuto certe azioni, per non parlare poi della sua risurrezione? Come si fa a credere? In mancanza di notizie più precise sull’uomo Gesù di Nazareth, la religione non si armonizza con la conoscenza razionale, e credere diventa allora solo un’illusione irragionevole. Ancor più irragionevole quando ci s’imbatte in persone che, definendosi credenti, si sentono in dovere di sovrapporsi alla scienza, soppiantando le conoscenze (queste sì, certe) che gli uomini hanno elaborato in questi ultimi secoli. Oggi crediamo alle conoscenze scientifiche e questo è il motivo per cui la religione sprofonda nell’insignificanza.

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È un dato di fatto che molti si affannano per giungere alla più corretta ed esatta conoscenza di Gesù e alla verità di ogni pagina, di ogni racconto che si trova dei vangeli. Ma come osserva con grande acutezza il prof. Castillo, se simile ossessione che riguarda la conoscenza non si vede poi accompagnata da una corrispondente preoccupazione e dal necessario interesse per vivere in accordo con la buona notizia che è il Vangelo, è inutile cercar di sapere quali parole esatte ha pronunciato Gesù duemila anni fa.

Innanzitutto è chiaro che le parole esatte non le sapremo mai, visto che allora non esistevano i registratori e il Gesù terreno ci è stato predicato attraverso il filtro dei testimoni.

Poi nei vangeli si trovano sicuramente anche parole della prima comunità cristiana, posteriori alla risurrezione, messe in bocca a Gesù per esprimere qualcosa d’importante di cui la stessa comunità era convinta.

Inoltre, cosa s’intende per “credenti”? È da mettere ben in chiaro che una statistica che indichi come “credenti” coloro che vanno a messa alla domenica e come non-credenti coloro che non ci vanno è assolutamente fuorviante, perché l’uomo non credente e l’uomo credente non si distinguono per qualcosa di esteriore, come l’appartenere (a parole) a un certo gruppo religioso, o l’andare in giro col crocifisso sul petto, o il farsi vedere mentre si prega, o l’accapigliarsi sul fatto se ha ragione la scienza o la Bibbia, ma si differenziano per qualcosa di molto più profondo: come diceva quel grande mistico che era Giovanni Vannucci, occorre vedere nel credente il contatto vivo col fuoco ardente (che è Dio) compiersi nell’intimo della coscienza di ciascuno che si dichiara credente, a prescindere dal fatto che sia poi cristiano, buddhista, musulmano o altro.

Della risurrezione parleremo un’altra volta, prima di Pasqua, ma anticipo fin d’ora che non può essere un fatto storico.

Invece è vero che, forse a causa dello gnosticismo (cfr. quanto detto nell’articolo Gnosticismo, al n. 486 di questo giornale, https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/numero-486---6-gennaio-2019/gnosticismo), nel nostro mondo occidentale la conoscenza è considerata ancora oggi la «chiave della razionalità» da chi crede e da chi non crede.

Di più: anche chi crede pensa spesso – al pari degli gnostici - che la salvezza venga dalla conoscenza. In effetti, nei primi secoli del cristianesimo, con le controversie cristologiche si cercò di puntualizzare fin nei minimi dettagli l’esattezza delle formule dogmatiche per arrivare a una retta conoscenza di Gesù, dimostrando che si voleva raggiungere innanzitutto la conoscenza di chi era stato veramente questo Gesù. Ma tutta questa preoccupazione concentrata sulla conoscenza ha fatto scemare – proprio come osservava giustamente il prof. Castillo - quello che doveva essere l’interesse primario: vivere in accordo con la buona notizia che è il Vangelo. A riprova, ancora oggi molte persone che si professano credenti sono più interessate a conoscere i dogmi, la vera natura di Dio e di Cristo, piuttosto che vivere la propria vita in accordo con quello che fu la vita di Gesù (e quindi col suo messaggio), per cui si può concludere che nel cristianesimo la conoscenza ha vinto la partita sulla convinzione. Cosa c’entri la convinzione lo vedremo subito.

Hanno perfettamente ragione coloro i quali affermano che non è possibile scrivere una cronistoria di Gesù e che quindi non si può conoscere a sufficienza il Gesù terreno. Ma come ha di nuovo spiegato il prof. Castillo, queste persone, che a questo punto dicono di non credere, confondono «l’evidenza del dato storico» con la «convinzione», due cose che, ovviamente, hanno a che fare anche con la conoscenza, ma sono in realtà assai diverse e si relazionano l’una con l’altra a partire da punti di vista assai diversi.

È da tener cioè presente che i vangeli non contengono una serie di dati storici che ampliano la nostra conoscenza, ma presentano una serie di convinzioni che determinano (o dovrebbero determinare) la nostra vita, una volta letti, assimilati e fatti propri. Pertanto, ciò che interessa al credente quando legge i vangeli non è tanto il dato storico che in essi ci viene presentato, quanto il messaggio di vita che deve segnare il suo futuro. Gli evangelisti non furono né dei cronisti, né degli storici che ci hanno raccontato vera storia. Gli evangelisti sono stati dei credenti che hanno voluto trasmettere una fede. Una fede che deve durare nel tempo, per cui è come se il Vangelo fosse una conversazione che ancora oggi continua, anche per noi.

È assolutamente pacifico che la storia, la sua conoscenza, e quindi la mera conoscenza, di per sé, non possono mai portare alla fede. Anche se avessimo un’infinità completa ed esauriente di dati storici, non avremmo per questo più credenti. Se uno si affida al mero dato storico, resterà quasi sicuramente ateo o agnostico. È infatti evidente che una conoscenza completa e perfetta di tutta la storia di Giulio Cesare o di Napoleone non condizionerà mai il nostro modo di vivere, nel senso che nessuno di noi – conosca o non conosca quella storia - si sentirà spinto a vivere come visse Giulio Cesare o come visse Napoleone. E questo anche se ci vengono presentate evidenze inconfutabili su cosa essi hanno fatto o cosa essi hanno detto.

Del resto i discepoli, di cui ci parlano i vangeli, non conobbero Gesù dopo aver ascoltato lezioni magistrali di cristologia o avendo appreso profondi concetti metafisici sulla sua natura, ma lo hanno conosciuto accodandosi a lui e condividendo il suo modo di vivere. Dunque, la fede è possibile solo nella misura in cui teoria e pratica, quindi la conoscenza e il modo di vivere si uniscono e si fondono in una sola cosa. Se ci si limita a credere in alcun verità metafisiche, seppur intellettualmente stimolanti, non è autentica fede, perché lo specifico del credente non è conoscere Gesù, ma credere in Gesù. Quindi, fermandosi alla prima stazione (la conoscenza), non c’è sostanziale differenza fra il sedicente credente e il non credente (ateo o agnostico).

La convinzione è qualcosa di diverso e di più rispetto alla semplice conoscenza. La convinzione non è (e non può essere) esente da dubbi, e proprio per questo la convinzione presuppone a monte una decisione personale, e per di più questa decisione è sempre libera. In altre parole, quando l'uomo ha solo certezze su Dio, può esser certo che è lui che fa Dio a sua immagine e somiglianza. Se avessimo certezze su Dio, saremmo noi stessi Dio.

Al contrario, di fronte allo studio della storia di Giulio Cesare o di Napoleone non c’è motivo perché intervenga la libertà individuale. Anche quando si studia aritmetica sapere che 2 + 2 = 4 non richiede alcuna previa decisione personale e certamente nessun uso della propria libertà. Il risultato non ammette dubbi e s’impone da sé, senza portare a dividersi fra non credenti e credenti. Davanti a Gesù, invece, occorre porsi la domanda: “mi fido di quello che mi hanno raccontato, credo che la strada da lui aperta sia quella giusta e che anch’io faccia bene a seguirla?” Quando Gesù, durante il processo, alla guardia che lo schiaffeggia chiede ragione della sua azione (Gv 18, 22s.), non offre umilmente l’altra guancia. Ritieni che la sua sia stata una scelta giusta? Al suo posto cosa avresti scelto? In base alla risposta che uno si dà, deve scegliere. Dopo aver sentito raccontare la storia di Giulio Cesare, invece, nessuno deve scegliere un bel niente.

Giustamente il teologo Habernas ha chiarito che una convinzione è definita dal fatto che noi orientiamo ad essa il nostro comportamento e questo lo si fa liberamente anche a costo di rompere con tutte le nostre precedenti abitudini. Anzi, la convinzione dà la forza per rompere con il precedente comportamento abitudinario non solo personale, ma forse anche di tutta la comunità in cui si vive. Centra perfettamente il punto sempre il teologo Castillo quando afferma: uno è convinto di qualcosa quando la mette in pratica. Colui che è veramente convinto che è necessario smettere di fumare, lo fa. E se non lo fa, non è veramente convinto. Come ha rilevato ancora lo stesso Habernas, se uno è convinto di una determinata cosa è possibile perfino prevedere in anticipo quale sarà il suo comportamento futuro, perché l’agente si comporterà in base alla sua convinzione. Siamo davanti a credenze inseparabili da un determinato modo di vivere.

Del resto, Gesù aveva detto: quando pregate non fate come gli ipocriti che lo fanno per essere visti (Mt 6, 5s.) E quando ha detto che Dio fa levare il sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa cadere la pioggia sul campo di tutti (Mt 5, 45), voleva dire che sia nel campo del contadino giusto che di quello ingiusto ci sono a quel punto germi di vita che possono essere fatti crescere. In questo modo il vangelo ci dice chiaramente che a Dio non interessano proprio le nostre opinioni dottrinali su di Lui, ma che quei germi di vita, in cui ciascuno di noi s’imbatte, siano custoditi e fatti crescere con amore.

Ne consegue che, se la relazione con Gesù si riduce a mere conoscenze dei dati storici o peggio, dei dogmi definiti dal magistero della Chiesa, in tal caso la persona – anche se conosce a memoria tutti gli atti dei concili, tutte le encicliche -, sarà anche un ottimo storico, ma non per questo un credente, anche se va a messe tutte le domeniche e le feste comandate. Come argutamente sottolinea sempre il prof. Castillo, una persona, convinta che il discorso della montagna sia verità, a prescindere dalle parole esatte pronunciate da Gesù duemila anni fa, vive in accordo con quello che Gesù insegna nel testo evangelico. Criterio determinante per sapere se una persona è o meno un credente in Gesù è osservare i suoi comportamenti, che devono essere coerenti e costanti. Quando la condotta non coincide con le abitudini e le preferenze di Gesù, con il suo modo di vivere e di relazionarsi con gli altri, non ci può essere fede, per quanto esatta sia l’ortodossia dottrinale del soggetto, o per quanto documentate siano le sue conoscenze storiche. Nel caso di una retta ortodossia che non si traduce cioè in forme di condotta conformi al vangelo, si verifica nel soggetto una falsa illusione di avere una fede che in realtà non ha.

Perciò chi dice di essere convinto che nel discorso della montagna ci sia una grande verità, ma poi accumula per sé denaro e proprietà, dimostra con i fatti che la sua vera convinzione sta nella sicurezza economica che il denaro apporta, mentre il racconto evangelico resta una mera conoscenza storica, la quale non influisce minimamente nella sua vita. Se uno dice di credere al racconto evangelico “ero straniero e mi accoglieste, ero nudo e mi vestiste” (Mt 25, 35s.) e poi non sceglie di metterlo in pratica, non è credente, anche se agita davanti a tutti il vangelo e grida davanti a tutti che – come cristiano, - non vuole che altri minaccino la sua identità. Analogamente, chi vive la Chiesa come un «porto chiuso al traffico», dimostrando di aver paura degli stranieri, dei musulmani, delle donne, dei gay, dei teologi non allineati, non è in linea col vangelo (così il vescovo Pedro Casaldáliga), anche se segue tutti i riti di santa romana Chiesa. Va infatti ricordato che, stando ai vangeli, Gesù fu sempre accogliente e tollerante con tutti, e non domandò mai a nessuno di cambiare la propria religione. Insomma, una persona la quale afferma con convinzione che credere in Gesù è il massimo, ma poi si comporta (in non poche cose) in modo opposto da come si è comportato Gesù, è una persona che non crede in Gesù, perché la fede non consiste nell’essere sicuri di una serie di conoscenze o di verità, ma nell’avere certe convinzioni che producono una certa condotta, un modello di vita.

Dunque, una cosa è conoscere Gesù, altra è credere in Gesù. Si possono allora conoscere tante cose su Gesù, forse anche tutte, però non credere affatto in lui. Il sapere rientra nella conoscenza. Il credere appartiene all’ambito della convinzione. Conoscere tutti i fatti e detti di Gesù è proprio della storia, credere in Gesù è caratteristico della spiritualità che noi chiamiamo religione cristiana, poiché la storia si basa sulla conoscenza che abbiamo di ciò che accadde nei tempi passati, mentre la religione si fonda sulle convinzioni che danno un senso alla nostra vita e determinano i nostri comportamenti. Ne consegue che la storia si costruisce mediante l’accumulo di dati, di informazioni, di documenti. Invece la fede comporta un insieme di credenze, vale a dire di convinzioni liberamente accettate e in grado di incidere sulla nostra condotta quotidiana. La sola memoria del passato fa parte del «conoscere», mentre la fede è una «convinzione», che genera una condotta e precisi stili di vita. Certo le cose bisogna averle prima sentite o lette, perché se non si conoscono non servono a nulla. Ma poi non basta conoscerle. Se consideriamo che la fede non consiste solo in una conoscenza, ma che specificamente implica una convinzione possiamo anche intuire quale forza dà una fede sorretta da una convinzione, forza che la mera conoscenza non può dare.

Con ciò spero di aver chiarito a sufficienza l’abissale differenza che c’è fra conoscere Gesù e credere in Gesù, sì che non si può dare dell’irragionevole a chi crede anche senza avere a disposizione il 100% dei dati, per cui non conosce il 100% dei fatti realmente accaduti duemila anni fa.

A questo punto sarà scontato sentire quest’obiezione: non è ragionevole fondare la propria vita su convinzioni perché sono le conoscenze (di fatti direttamente osservabili) ad essere fondamentali nella vita di ciascuno, e solo la conoscenza ci rende liberi: la scienza, la tecnica si basano su conoscenze certe, confrontabili, criticabili, confutabili, non su impalpabili convinzioni.

Chi la pensa così insiste nel dire che la religione basata su mere convinzioni va rifiutata. Su questo punto, ancora una volta osserva correttamente il prof. Castillo, ciò che dà equilibrio alla nostra vita, ciò che ci rende felici o infelici, è invece tutto un insieme di convinzioni che non sono, né saranno mai dimostrabili con argomentazioni di prima evidenza.

L’amore, l’odio, la gioia, l’infelicità, la sensibilità, la forza morale, la speranza, il senso o il non-senso della vita, tutto questo non proviene dalle conoscenze, bensì dalle convinzioni. Ciò dimostra che la cosa più importante nella nostra vita non è affatto il sapere che si fonda su ragionamenti irrefutabili, ma proprio la convinzione che si accetta liberamente. Sicché, dal momento che la convinzione è liberamente accettata, proprio per questo la convinzione arricchisce la nostra umanità, cosa che non può fare la mera conoscenza. C’è un evidente rischio, allora, di restare intrappolati dalle illusioni della pura conoscenza, in particolare della tecnologia e della scienza, non solo l’inverso come pensa il non credente parlando dell’illusione della convinzione.

Che non siano le dimostrazioni logiche a prevalere nella nostra vita, ma la nostra capacità di affidamento, è comprovato dal fatto che se uno ha paura dell’aereo, non servirà mostrargli scientificamente che questo è il mezzo trasporto più sicuro in assoluto. Nessuna statistica, per quanto dettagliatissima ed esauriente, gli farà passare la paura e lo convincerà a salire sull’aereo.

Ma forse la dimostrazione migliore di quanto sto dicendo si ha con i giovani di oggi, di cui si può dir tutto, tranne che siano felici (salvo rare eccezioni). Armando Matteo, che ha a lungo studiato le problematiche giovanili, ha sintetizzato così i suoi studi: fino agli anni ’50 la giovinezza era breve, perché ogni generazione aveva la sua guerra; poi l’entrata nel mondo del lavoro, la stipula di stabili legami familiari e l’esercizio della genitorialità si collocavano a ridosso dell’uscita dall’adolescenza, intesa come breve tempo dato per diventare adulto. Oggi la giovinezza è prolungata di 10-15 anni: c’è tutto il tempo per decidere quale tipo di persona s’intende diventare. Mai come oggi il tenore di vita dei giovani occidentali è stato così alto, economicamente, ma anche socialmente e culturalmente: i giovani occidentali hanno tempo e mezzi per accedere a tutti i tipi di conoscenza.

Però, dopo il ’68 sono saltati in aria i ruoli sociali, gli stati di vita, i mestieri, la politica e anche la religione con la sua morale rigida e conservatrice. Il mondo adulto, spesso malato di protagonismo e fortemente concentrato su sé stesso, ha tenuto ai margini quello giovanile, vedendolo come un temibile concorrente e preferendo farlo restare infantile iperproteggendolo. Gli inglesi parlano di helicopter parenting, genitori che seguono sempre e ovunque i propri figli come fossero su un elicottero, e non li lasciano mai veramente liberi, anche di sbagliare. Gli adulti non sono disponibili a fare spazio ai giovani, i quali restano così “parcheggiati” con percorsi formativi (non solo universitari) abnormi; poi, se va bene, il precariato e un infinito periodo di fidanzamento, che spesso dura più del matrimonio. Quando il futuro non si presenta più come si presentava a noi (quando eravamo) giovani, cioè come un orizzonte di promesse, di speranze, di aperture, bensì come indefinito grigio, come fonte di angoscia, come minaccia, allora il meccanismo evolutivo psicologico del giovane si blocca sul presente, nella vana attesa di avere tutto e subito. Lì dove il futuro ha il volto di uno stabile precariato, di un mutuo destinato ad accompagnarti oltre la morte, di un debito pubblico impossibile solo da concepire, di un sistema finanziario sempre sull’orlo di una crisi di nervi, di un mondo dominato sempre dagli stessi politici, dagli stessi uomini di potere, di una concorrenza sfrenata di coetanei cinesi e indiani molto più determinati e risoluti, di un incombente disastro ecologico, di una prossima imprevedibile e inarrestabile pandemia (pensiamo ad ebola), di un’improvvisa scomparsa delle risorse energetiche che spegneranno cellulari e computer, un tale futuro non può essere desiderato: è solo un buco nero, il che impedisce anche il maturare di una coscienza responsabile e si finisce con l’arrendersi al nulla.

Come ha detto il prof. Galimberti, la vita dei giovani non appare priva di senso perché costellata dalla sofferenza, ma al contrario appare insopportabile perché priva di senso. Il male dei giovani è un male dell’anima, non una carenza di conoscenze, non certo una carente padronanza di tecnologie.

Pur con tutte le nostre conoscenze tecniche e scientifiche non riusciamo ad arrestare il riscaldamento globale della terra, ma continuiamo certamente ad alimentare il raffreddamento delle nostre relazioni umane. Viviamo su un pianeta sempre più caldo, fatto per uomini e donne sempre più freddi, dice sempre Armando Matteo. Se la nostra umanità tende verso la disumanità, se la nostra speranza si spegne, questo non ha molto a che vedere con le nostre conoscenze, che sono assai maggiori rispetto al passato, ma solo con la mancanza di convinzioni. Sono queste ultime il sale che dà senso alla vita, e senza sale non si vive.

E allora, per concludere dando una risposta personale alla domanda iniziale (come si fa a credere? Come faccio a credere nel vangelo e in Gesù?), risponderei con le parole che ho sentito da don Mario Vatta: “Io sono credente, non so se molto o poco, credo comunque nel vangelo,” pur avendo spesso tanti dubbi. Ma spesso mi consolo agganciandomi a quanto detto nell’articolo sulla Legge naturale (n. 482 di questo giornale, https://sites.google.com/site/ultimotrimestre2018rodafa/numero-482---9-dicembre-2018/la-legge-naturale): per la Chiesa cattolica essere cattolico significava innanzitutto obbedire al magistero, ma proprio gli episodi riportati nell’articolo hanno dimostrato limpidamente che aver obbedito in allora ai vari papi non significava affatto essere veri cristiani, perché al contrario, proprio chi in coscienza allora disobbediva al papa anticipando i tempi (in punto libertà di coscienza, libertà di stampa, ecc.), esprimeva un cristianesimo più vero di quello dei papi di allora. In altri termini, chi era scismatico era più cristiano di chi obbediva ossequiosamente al papa. L’unico torto di chi allora era stato condannato come scismatico era quello di aver avuto ragione troppo presto. Dunque non posso legare il credere all’obbedienza cieca al magistero, e penso che ognuno deve assumersi le sue responsabilità. Neanche nel Dio dei vangeli, nel Dio di Gesù, troviamo l’invito a sottometterci incondizionatamente alla Legge religiosa, con le sue regole, le sue osservanze, le sue proibizioni, le sue minacce e condanne, perché Gesù relativizzò le leggi religiose e le riconobbe valide solo se servivano per dare vita agli esseri umani, rispettare i loro diritti e la dignità (pensiamo solo alle continue violazioni del riposo del sabato, all’inosservanza delle norme sull’impurità).

Posso perciò dire che mi trovo in perfetta sintonia con questo papa, il quale si richiama tanto ai vangeli e così poco ai dogmi e ai principi non negoziabili, mentre tanti che si professano a spada tratta credenti duri e puri non lo possono sopportare.

Ma se è per questo, anche Gesù era visto come un pericoloso miscredente dalla condotta deviata da parte di coloro che allora si professavano credenti duri e puri. E lo stesso Gesù aveva indicato come modello di vero credente il buon samaritano: leggendo la parabola (Lc 10, 30ss.), tutti percepiscono che il sacerdote, la persona religiosa che si crede credente e che devia per non toccare il ferito, obbedisce alla legge ma in realtà sta togliendo la vita. Tutti si rendono conto che un impuro peccatore al quale è perfino vietato l’accesso al sacro Tempio di Gerusalemme, il quale neanche lontanamente pensa in quel momento di essere credente, né pensa minimamente a Dio, in realtà assomiglia a Dio perché in lui tutti possono vedere la presenza di un Padre che ridona la vita, la garantisce, la cura. E anche nel racconto del giudizio universale (Mt 25, 31ss.), nell’ora della verità definitiva, l’unica cosa che conterà per decidere la salvezza o la perdizione, non sarà né la pietà, né la religiosità, né tanto meno ciò che ciascuno ha fatto o non fatto con Dio, ma neanche la spiritualità e la fede. solo quello che ciascuno di noi ha fatto o non ha fatto con gli esseri umani.

È ora di riformulare la definizione di credente, perché molti di quelli che si dichiarano non credenti, lo sono forse anche a loro insaputa; molti di quelli che si dichiarano credenti, non lo sono affatto.

Dario Culot