Cosa è la fede

La fede - Scuola del Parmigianino, secolo XVI

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In queste ultime settimane si è più volte fatto cenno alla fede. Da dove salta fuori questa parola? I primi cristiani hanno usato il termine fede al posto della parola religione, che non si trova nei vangeli. Siccome la finalità delle religioni è quella di spiegare, giustificare e organizzare la relazione degli esseri umani con Dio, per religione s’intende ciò che l’uomo deve fare per Dio. Di primo acchito si può dire che i cristiani non si sono limitati a parlare della relazione di Dio con l’essere umano, ma, oltre a questo, hanno affermato l’unione di Dio con l’essere umano, perché questo, in realtà, è ciò che rappresenta l’incarnazione di Gesù Cristo (Castillo J.M.).

Ma cos’è invece la fede? Sicuramente è un termine complesso che racchiude molti significati ed è difficile da sintetizzare (Magarelli L., Cos’è la fede oggi?, “Vita Nuova”, settimanale cattolico di Trieste, n.4881/2018, p.7).

I vangeli parlano di fede, ma non definiscono in cosa consista. Anzi, probabilmente si resterà sorpresi nel vedere che nei vangeli vengono indicati senza fede persone come i sacerdoti (a cominciare da Zaccaria, che non crede alle parole dell’angelo – Lc 1, 12-20) o coloro che sono attaccati al denaro. E gli apostoli? Quelli che, secondo l’insegnamento del nostro magistero, dovrebbero essere i nostri maestri, i nostri fari della fede? Ci aspetteremmo da essi una fede granitica e invece vengono normalmente presentati come uomini di poca fede (Mc 4, 40: Mt 8, 26; 14, 31; Lc 8, 25). Forse resteremo ancor di più sorpresi vedendo che i vangeli indicano come uomini di fede coloro che sia allora, sia oggi quasi nessuno considererebbe tali (Mt 8, 5-13: il centurione romano che segue un’altra religione; Mt 9, 20-22: l’emorroissa, che secondo la religione commette sacrilegio toccando Gesù; Lc 7, 50: la prostituta che irrompe in casa del puro e pio fariseo; Lc 10, 30-37: il buon samaritano ritenuto un miscredente senza Dio dalla religione ufficiale; Lc 17, 19: il lebbroso, impuro peccatore secondo la religione; Lc 18, 42: il cieco maledetto da Dio perché come tale non è in grado di leggere la Torah; Lc 19, 9: il pubblicano ladro Zaccheo, ecc.). Più si leggono i vangeli e più ci si accorge che rovesciano in continuazione tutti i nostri schemi mentali e le nostre convinzioni religiose.

“C’è un grande turbamento in questo momento nel mondo della Chiesa, e ciò che è in questione è la fede. Capita ora che mi ripeta la frase oscura di Gesù nel Vangelo di san Luca: «Quando il Figlio dell’Uomo ritornerà, troverà ancora la fede sulla Terra?» (…) Ciò che mi colpisce, quando considero il mondo cattolico, è che all’interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non-cattolico, e può avvenire che questo pensiero non-cattolico all’interno del cattolicesimo diventi domani il più forte. Ma esso non rappresenterà mai il pensiero della Chiesa. Bisogna che sussista un piccolo gregge, per quanto piccolo esso sia.” Così si confidava Paolo VI con Jean Guitton, l’8 settembre 1977 (Guitton J., Paolo VI segreto, ed. Paoline Roma, 1981, 152). Le sue parole sono attualissime, ma sarebbe stato interessante chiedergli allora cosa intendesse per predominanza del pensiero non-cattolico e soprattutto cosa intendesse per fede. Infatti il termine è ambiguo, perché lo si può usare in sensi molto diversi fra di loro, come vedremo subito.

Solo qualche anno fa il cardinal Ruini ha affermato categoricamente che la fede è viva solo se mediata dall’autorità della Chiesa, solo se si accetta l’autorità della Chiesa; al di fuori del recinto della Chiesa la fede è morta. La maggioranza dei seguaci dell’ortodossia tradizionale identifica in effetti la vera fede solo col blocco dottrinario che è proposto dalla Chiesa romana, sì che chi non crede a queste verità non è per loro credente, ma è uno senza fede. La fede cattolica – affermano infatti i nn.11 e 14 del Catechismo - è l’accettazione della Rivelazione che Dio si è degnato di manifestarci, così come insegnata dalla Madre Chiesa nella sua dottrina. Fuori di quest’ambito, c’è l’errore, l’eresia, l’ateismo, l’irrispettoso sacrilegio. Il n. 848 del nuovo Catechismo arriva a sostenere che senza questo tipo di fede (= credere e obbedire al magistero) è impossibile essere graditi al Signore. È inevitabile, si dice, che la fede esiga da parte dell’uomo uno sforzo di sottomissione e di obbedienza affinché sia mantenuta l’unità. Secondo l’ortodossia, perciò, vera fede è solo quella che si conforma all’insegnamento dei legittimi pastori della chiesa, deputati a stabilire cosa è eretico e cosa è ortodosso. C’è uno che comanda in nome di Dio e un altro che accetta in sottomissione e obbedisce. Sinceramente mi fa sorridere un insegnamento con pretese di validità assoluta (che esclude protestanti, ortodossi, ebrei, buddhisti, musulmani, induisti, ecc.) e che non tollera obiezione alcuna.

Proprio questo tipo d’insegnamento mi fa sorgere immediatamente un piccolo dubbio: com’è possibile che quello che agli occhi dell’autorità religiosa era considerato un sacrilegio, sia un gesto di fede agli occhi di Gesù? Pensiamo solo all’emorroissa, o al paralitico calato dal tetto, peccatori sacrileghi secondo la religione; anzi lo stesso Gesù è visto come bestemmiatore sacrilego dai legittimi pastori della chiesa di allora, quando perdona i peccati al paralitico. Ancora oggi molta gente plagiata dall’insegnamento religioso si ritiene indegna, per cui pensa di non potersi avvicinarsi al Signore esistendo un “impedimento oggettivo” (così, ad es., dice ancora oggi il nostro magistero per il divorziato che vuole risposarsi e poi pretenderebbe perfino di accedere all’eucarestia): in sintesi, per dirla con termini biblici, questa gente è impura e deve stare lontana da Dio. Così succedeva anche ai tempi di Gesù, ma quando questa gente impura trovava invece il coraggio di disattendere la regola religiosa, scopriva che non incorreva affatto nella maledizione di Dio, ma nella sua benedizione, perché questo coraggio di avvicinarsi non è stato mai catalogato da Gesù come sacrilegio, ma anzi come fede vera e viva. Ci è stato inculcata l’idea che solo se si obbedisce all’autorità religiosa si sta nella fede viva. Gesù dimostra invece che proprio disobbedendo all’autorità religiosa si sta nella fede viva.

Se accettare l’autorità dei sacerdoti non è per Gesù vera fede, neanche il più grande numero di fedeli che una Chiesa possa vantare è necessariamente segno di vera fede (Küng H.), visto che Gesù si chiedeva se troverà ancora fede sulla terra quando tornerà (Lc 18, 8), non se troverà tante iscrizioni nei registri dei battesimi o le chiese piene di gente raccolta in devota preghiera.

Nemmeno la teologia è fede e lo sono ancora meno le religioni, il culto, i riti, le celebrazioni che possono tutte coesistere, lo diceva già Amos (5, 21-24), con la più radicale miscredenza (Ortensio da Spinetoli).

San Paolo aveva definito la fede come la certezza di cose che si sperano, come dimostrazione di realtà che non si vedono (Eb 11, 1). Si può invece obiettargli che la fede si può avere o non avere, e quindi si può solo mostrare, ma non si può dimostrare (Balducci E., Ortensio da Spinetoli).

Per Sant’Agostino per aver fede bastava voler credere intensamente (De praedestinatione sanctorum, Cap. 5; cfr. anche n. 155 del Catechismo). Ma neanche questo è vero, perché, stando ai vangeli, non basta dire: “Signore, Signore,” magari in gruppo; bisogna porre in opera il disegno del Padre (Mt 7, 21; Lc 13, 25) (Mateos J. e Camacho F.): nella spiegazione della parabola del seminatore Gesù chiarisce che solo chi ascolta e mette in pratica la sua parola costruisce la casa sulla roccia (Mt 7, 24; vedi anche Gv 14, 23), mentre chi solo ascolta, magari si entusiasma, ma poi non fa, costruisce in realtà sulla sabbia (Mt 7, 26). Non basta allora un’adesione intellettuale al messaggio di Gesù (Mateos J.): non basta voler credere e professare la dottrina cristiana dopo aver ricevuto il battesimo per essere credente cristiano; non basta voler aderire ad una religione, voler accettare certi dogmi, voler obbedire al magistero della Chiesa e credere nella dottrina insegnata dai suoi legittimi pastori, perché occorre poi attuare con la propria vita l’insegnamento di Gesù, contribuendo a realizzare il disegno del Padre a favore degli altri uomini. Allora ciò che in realtà conta è come si vive, non la religione che a parole si professa. Come si è visto recentemente nell’articolo Conoscenza e convinzione di questo mese (https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/numero-495---10-marzo-2019/conoscenza-e-convinzione), la fede non può essere slegata dai comportamenti quotidiani; altrimenti si esaurisce nel rito, nel culto della domenica, in vuoti automatismi senza alcuna conseguenza nella vita di ogni giorno che sta fuori delle porte della chiesa. Un fede disincarnata, cioè priva di fatti, priva delle opere, è una pessima testimonianza di quell’amore gratuito che si dice di voler celebrare nella liturgia. Come risulta dalla parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18, 9ss.), la religione ridotta a mero culto fa sentire la persona religiosa perfino in credito con Dio, dal momento che ha osservato tutte le sue leggi: è andata a messa di domenica, ha mangiato di magro il venerdì, ha fatto l’elemosina al poveraccio, si è confessata ed ha fatto la comunione, eccetera, eccetera. Con tutti questi bei timbri di merito, cosa aspetta Dio a ringraziarla? Queste persone scambiano per fede solo il proprio desiderio di sicurezza (Maggi A., Castillo J.M.), barattano la libertà che Gesù ha loro offerto con la sicurezza che dà la religione, credendo così di aver fede.

Il teologo protestante Bultmann aveva già sottolineato con forza che la fede non è affatto l’affermazione di speculazioni metafisiche sulla divinità di Cristo e sulle due nature; la fede non è altro che la fiducia nell’azione di Dio in Cristo. Anche il medico e teologo Albert Schweitzer sosteneva che la fede non consiste affatto nell’aderire a dei dogmi, ma nel vivere nello e dello spirito di Cristo. Torniamo al solito punto: si vede se uno è cristiano non dal Dio in cui crede, ma dall’atteggiamento a favore degli altri. L’essenziale è che Cristo animi e ispiri la nostra vita, e Cristo non si può ridurre a formula (Gounelle A.,). Fede e religione sono due cose diverse, e se il cristianesimo non viene vissuto, manca la fede. Non serve a nulla proclamare ciò che si dice di credere, se nel contempo non si vive ciò che si dice di credere. La fede è fare, non un semplice sentire; è dare, non dire; è anche parlare, ma soprattutto agire. Se non si passa dalla teoria alle decisioni pratiche non si entra nel numero dei seguaci di Gesù, e quindi dei credenti (Ortensio da Spinetoli).

Naturalmente non si sta dicendo nulla di nuovo. Anche ai tempi di Gesù, “Alcuni dicevano: «è buono», altri dicevano «no, inganna la folla»” (Gv 7, 12). Come si spiegano due atteggiamenti così diversi nei confronti della stessa persona e davanti agli stessi comportamenti? Semplice. Quelli che guardavano a quello che Gesù faceva, dicevano che ‘è buono’; quelli che giudicavano in base alla dottrina più ortodossa dicevano che ‘inganna’. Sono indicazioni sempre attuali che l’evangelista sta dando alla comunità cristiana, anche a noi. Quelli che lo giudicano in base alle opere riconoscono la bontà di Gesù, per quelli che lo giudicano in base ai parametri dell’ortodossia religiosa Gesù è un pericoloso imbroglione (Maggi A.). Il fatto che alcuni dicano che Gesù inganna la folla, significa che per loro Gesù presenta un Dio talmente diverso dal Dio in cui loro credono, che merita la morte. E così avverrà.

Dice l’apostolo: «La fede, se non è seguita dalle opere, è in sé stessa morta» (Gc 2, 14-17). Molto diverso da quello che pontifica il cardinal Ruini, non vi sembra? E l'apostolo incalza ulteriormente: «Non ingannate voi stessi: non contentatevi di ascoltare la parola di Dio; mettetela anche in pratica! …Fratelli, a che serve se uno dice: «Io ho la fede!» e poi non lo dimostra con i fatti? (Gc, 2, 14)… Qualcuno potrebbe anche dire: c'è chi ha la fede e c'è invece chi compie le opere. Ma allora mostrami come può esistere la tua fede senza le opere! Ebbene, io ti posso mostrare la mia fede per mezzo delle mie opere, cioè con i fatti!» (Gc. 2, 18).

Dunque, da quanto fin qui detto, si può usare lo stesso termine “fede” in almeno due sensi molto diversi fra di loro (vedi quanto detto nell’articolo I binari della Chiesa, al n. 428 di questo giornale, https://sites.google.com/site/numeriprecedenti/numeri-dal-26-al-68/199996---novembre-2017/numero-428---26-novembre-2017/i-binari-della-chiesa). C’è la fede in senso soggettivo, come atto personale con cui si aderisce a Dio a prescindere dall’autorità che parla, poiché il contenuto che ci è stato esposto ci ha convinto (vedi l’articolo di questo mese Conoscenza e convinzione) e si cerca di viverlo di conseguenza: siamo davanti a una fede spirituale. C’è poi la fede in senso oggettivo o dogmatico come credenza nei contenuti dottrinali basata sull’autorità di chi parla, a prescindere dal contenuto che viene affermato: siamo davanti a una fede istituzionale, ed è a questo tipo di fede che fa riferimento il cardinal Ruini e buona parte della curia romana.

Del resto, questo insegnamento più conservatore della Chiesa è ancorato al concilio Vaticano I, secondo il quale la fede era l’accoglienza di verità rivelate, così come contenute nella dottrina insegnata dalla Chiesa. A queste verità occorreva ovviamente aderire con il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà[1]. Ma ci si dimentica che il concilio Vaticano II ha invece messo l’accento su un aspetto nuovo ed essenziale della fede: non più cieca obbedienza al magistero, ma necessità di abbandonarsi fiduciosamente a Dio[2].

Ci è stato anche insegnato che la fede è un dono che Dio infonde nella nostra anima (papa Benedetto XVI udienza generale 24.10.2012; settimanale cattolico di Trieste “Vita Nuova” n. 4464/13, 4 e n. 4881/2018, 7), per cui, in virtù di questo dono, crediamo essere vero tutto quello che Egli ci ha rivelato (Papa Benedetto XVI udienza generale 17.10.2012: “fede è accogliere la rivelazione di Dio”) e che per mezzo della Chiesa ci propone di credere (nn. 856, 861 e 864 del Catechismo di Pio X; nn. 1813ss. Catechismo). Ma questa è appunto la fede in senso oggettivo, come si è visto sopra. Nell’attuale Catechismo si aggiunge che la fede consiste nell’ascoltare la parola della predicazione e (serve) per condurre all’obbedienza (Fisichella R).

Il magistero della Chiesa ha sempre avuto la pretesa esclusiva di parlare a nome del Padreterno, ed io resto sempre stupefatto di fronte a coloro che parlano di ciò che Dio pensa e vuole, come se facessero colazione con Lui tutte le mattine. Anche nella Bibbia i sacerdoti dicevano : “così parla Dio, ed invece Dio non aveva parlato” (Ez 22, 28). E visto che le Scritture sono sempre attuali… Abbiamo già visto che non è possibile dire che Dio vuole questo o proibisce quest’altro (vedi l’articolo di questo mese Trascendente e immanente, https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/numero-494---3-marzo-2019/immanente-e-trascendente).

Ma a ben pensare, se la fede fosse un dono sceso direttamente dal cielo, Dio stesso sarebbe il diretto responsabile della fede, per cui se io non ho la fede, è Dio che diventa responsabile di questa mia mancanza, non io. Pertanto sarebbe sommamente ingiusto un dio che dà ad uno il dono della fede e il suo stesso dono gli rende quell’uomo assai gradito; invece a un altro non dà nulla, e per di più quell’uomo gli diventa detestabile perché non ha la fede.

Replica in proposito la dottrina ufficiale che il dono è per tutti, ma, come ogni dono, può essere accettato oppure rifiutato, quindi è sempre richiesta anche la collaborazione di chi riceve il dono. È vero, ma non è proprio così: se un dono – come la fede che porta alla salvezza - non può, ma deve essere accettato per potersi salvare, esso diventa in realtà un’imposizione del donatore (Valori P., Il libero arbitrio), e non è più un dono, nel quale è sempre essenziale la gratuità. Immaginate se, nel deserto, un camminatore arso dalle sete trovasse una persona che gli offre da bere ma solo se accetta di esserle poi sottomessa e obbediente: parleremo a quel punto di ricatto, non certo di un dono d’amore, che è di per sé gratuito. Anche nel campo del diritto, la donazione deve essere gratuita (cioè non può essere compensata da nessunissimo tipo di sacrificio), altrimenti non può proprio qualificarsi come donazione. Di più: siccome nessuno rifiuta ciò che a lui appare un bene per sé, visto che egoisticamente si tende a scegliere ciò che si presenta come più valido e vantaggioso, se il ricevente rifiuta il bene della fede, vuol dire che il dono non gli è stato prospettato e offerto in modo tale da risultare appetibile, il che significa sempre che Dio, il donante, poteva fare di più e meglio.

Ma soprattutto la fede non può aver nulla a che vedere con l’obbedienza. Nel film Shogun, Il Signore della guerra, ambientato nel Giappone del XVII secolo, c’è una scena in cui il signore dà ordine al suo samurai di uccidere seduta stante l’amata moglie (del samurai), come segno di pronta e cieca obbedienza. Noi restiamo quasi increduli di fronte a una simile richiesta di obbedienza, che però non è dissimile da quella che il Dio biblico chiede ad Abramo quando ordina di sacrificargli il figlio Isacco. Anche qui tutto si fonda sull’assoluta e indiscussa obbedienza dell’inferiore di fronte all’assoluta e indiscutibile volontà del signore (si chiami Shogun o Dio). Nessun sacrificio è troppo duro quando il Signore lo vuole. Per qualcuno questa è vera fede, ma “se c’è questa obbedienza totale, anche i crimini più orrendi compiuti per obbedire a un superiore risultano atti eroici (nel linguaggio della fede: “sacrifici”) e chi è disposto a compierli diviene il modello umano della fede più pura” (Mancuso V.). Se ci si appiattisce sulle indicazioni dell’autorità religiosa, che prende il controllo della vita dell’individuo, viene a mancare quello spazio dove può irrompere e operare lo Spirito, di cui parlava san Paolo (2Cor 3, 17). Pensiamo solo se Giuseppe avesse obbedito alla legge e ai legittimi pastori della chiesa (di allora) e avesse consegnato Maria alla legge per farla legalmente lapidare. Chi obbedisce ciecamente si spersonalizza, e può diventare una pedina pericolosa in mano al potente di turno; in nome dell’obbedienza sarà capace delle più efferate nefandezze, perché non va di mezzo la sua coscienza che non ascolta, ma l’ordine dell’autorità che non si discute. La storia insegna che non c’è nulla di più pericoloso di una persona obbediente, perché la persona obbediente non ragiona con la propria testa, e si trasforma in un mero esecutore di ordini. Sono stati sicuramente commessi assai più crimini in nome dell’obbedienza che in nome della ribellione (Snow C.P.): basta vedere come si è difeso lo sterminatore di ebrei Eichmann nel 1960, o Priebke per l’eccidio delle Fosse Ardeatine, e come si è difeso ancora di recente l’ultimo nazista chiamato a rispondere della strage di oltre 1200 persone; il ritornello è sempre lo stesso: “Ho solo obbedito agli ordini”.

“Ma questo non è mai successo alla Chiesa” protesterà il puro e pio credente. Ne siete sicuri? Il massacro totale dei valdesi in sud Italia? Le crociate, contro gli albigesi in Europa? L’Inquisizione? La conquista del Nuovo Mondo? C’è appena un filo sottile tra il fanatismo e la fede oggettiva. Può bastare un piccolo spostamento di ottica perché le parole che sono espressione della fede autentica e liberatrice diventino espressione e strumento di sopraffazione.

Abbiamo allora urgente bisogno di ridefinire l’idea di fede. Partiamo dal concetto che Dio è Amore (1Gv 4, 8), perché per quanto Dio sia l’indefinibile e l’inaccessibile, questa è l’unica definizione di Dio che si trova nei vangeli. L’amore di Dio è un dono che scende dal cielo, nel senso che è Dio a prendere l’iniziativa, e il suo interesse non è motivato dai meriti che la persona può vantare, e perfino prescinde da quale sarà la risposta che riceverà (Pèrez Márquez R.). Gesù passa davanti a Levi e lo invita a seguirlo, perché ama tutti, anche i peccatori (Mc 2, 14) come lui: spetta all’uomo però accogliere quest’onda di amore. Levi si alza, prima di cominciare a seguirlo: ecco la risposta (Mc 2, 14), e una volta che si trova in sintonia con Dio deve andare sempre con Dio (e non per Dio) verso gli altri. Se non esiste questo flusso interiore dello Spirito-vita tra Gesù e i suoi, l’attività di costoro non porterà al rinnovamento dell’uomo. La mera buona volontà, senza questa adesione ed unione, produrrà un frutto che non dura (Gv 15, 16). Invece, ricevendo lo Spirito, non ci sono più due principi d’azione, Dio e l’uomo, che convergono nell’opera, sono uno solo: Dio nell’uomo e l’uomo in Dio (Gv 10, 25-30; 10, 37-38) (Mateos J. e Camacho F.,). In questi termini ragionava Madre Teresa quando le chiedevano cosa sarebbe stato della sua opera dopo che lei fosse morta: “se viene da Dio, proseguirà; altrimenti finirà”.

Dunque, la fede va collegata a questa offerta d’amore e non consiste né nel concentrarsi su Dio, né nel credere a ciò che insegna la religione, né nell’obbedire alla legge divina o al magistero; può essere semplicemente definita come la risposta dell’uomo a ciò che Dio fa per noi. Dio può donarsi (e in questo senso c’è il dono di Dio, ma rivolto a tutti), ma poi, per amare, bisogna essere in due e non tutti rispondono. Se uno risponde (Mateos J. e Camacho F.) a Dio, che per offrirci il suo amore va alla ricerca dell’uomo (Bianchi E.), questo si chiama “fede”. Dunque l’amore è dono, la fede no (Maggi A.). Non è dono nel senso che non è Dio a decidere se io crederò o meno; la decisione resta sempre sotto la mia responsabilità, non di Dio. Né se rispondo oggi ho risposto per sempre: la fede rimane un cammino (Ratzinger J.) che non giunge alla meta una volta per tutte: ogni giorno occorre rinnovare la propria conversione e ogni giorno occorre rispondere. La religione nasce dagli uomini ed è diretta verso Dio; la fede nasce da Dio ed è rivolta agli uomini (1Gv 4, 10: «Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui che ha amato noi»). L’esercizio di fiducia in Dio, che induce ad accogliere il suo dono d’amore, è fede. Ma poi, per essere fede viva, deve incarnarsi in uno specifico modo di vivere, che deve manifestarsi ed essere visibile nel mondo, giorno dopo giorno. Molto diverso da quello che propugna il cardinal Ruini, non vi sembra? In altre parole, l’incarnazione di Gesù è la rivelazione, nella nostra fragilità umana, che l’unico modo per vivere è relazionarsi con gli altri in fratellanza, condivisione e amore, dove amore non è un semplice sentimento, ma è educazione, cura, rispetto, compassione, amicizia, e questo deve riversarsi in tutti gli atti della nostra vita. Ricordo che il recente documento di Abu Dhabi sulla “Fratellanza umana. Per la pace mondiale e la convivenza comune”, firmato il 4 febbraio 2019 da papa Francesco e da Ahmad Al-Tayyeb grande imam di Al-Azhar, afferma all’inizio che “La fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare”. Questa è fede viva, e ovviamente è una strada molto più difficile che seguire il culto, credere e obbedire al magistero.

Qualcuno mi chiederà irritato come oso affermare cose che vanno contro secoli d’insegnamento, accettato e ripetuto da intere generazioni di veri credenti. Semplicemente perché di quest’idea, tanto per cambiare, c’è riprova nei vangeli e ce lo conferma a tratti perfino lo stesso nuovo Catechismo:

(a) Quando per la prima volta nel Vangelo di Matteo appare il tema della fede («Vi assicuro che presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande» - Mt 8, 10), è evidente che la fede del centurione romano nasce come risposta alla disponibilità e all’amore di Gesù di andare a guarire il suo servo: «Gesù disse al centurione: “Vai e sia fatto secondo la tua fede”. In quell’istante il servo guarì». È evidente che in questo episodio la fede non è un dono di Dio all’uomo, ma è la risposta dell’uomo al dono di Dio, perché la guarigione del servo non è opera esclusiva di Gesù, ma della fiducia del centurione. Gesù non dice, infatti: “Va’ tranquillo, ci penso io a guarire il tuo servo” ma «fa’ secondo la tua fede». La fede, la risposta di un soldato pagano, di un nemico di Israele, è talmente grande che il servo guarisce (Maggi A.). Al contrario, quando Gesù va a Nazareth, nella sua città, non riesce a concludere niente perché i suoi concittadini non gli credono. I componenti della sinagoga di Nazareth, tutta gente pia, tutta gente religiosa, rendono del tutto inutile la capacità e la trasmissione d’amore da parte di Gesù. Un pagano, invece, la utilizza e la rende operativa. Qui si ha la riprova dell’abissale differenza fra persona religiosa e credente che ha fede.

(b) La vecchia idea di fede – definita come dono nel Catechismo di Pio X – sembra a volte abbandonata perfino dallo stesso Catechismo vigente, il quale finalmente conferma (nn.142, 160, 166 Catechismo) che la fede è la risposta a Dio invisibile che parla agli uomini nel suo immenso amore, come ad amici[3]. Ma ho detto “sembra” perché i nn.153, 162, 179 del Catechismo continuano a parlare di dono, contraddicendo il n.142. Se l’amore è offerta, va visto come una mano tesa che presuppone la libertà di risposta. Il rifiuto comporta fallimento, e anche Dio sperimenta l’impotenza, perché Dio non è onnipotente (cfr. l’articolo Dio onnipotente, al n. 440 di questo giornale, https://sites.google.com/site/numeriprecedenti/numeri-dal-26-al-68/199999---febbraio-2018/numero-440---18-febbraio-2018/dio-onnipotente).

È scontato che il Dio del terrore, quello che minaccia col castigo e impedisce la libertà, che impone le sue leggi divine e perfino il suo amore, non potrà mai creare una risposta d’amore nel cuore dell’uomo, ma al più una risposta ipocritamente interessata (Mateos J. e Camacho F.). L’amore deve uscire da sé, non può essere comandato, tanto meno se c’è paura. Se l’amore esce da una persona su comando è per paura o per ipocrisia, ma non è vero amore. Pensiamo a quando uno è innamorato di una donna e vuole baciarla: se questa donna è a sua volta innamorata e accetta il segno d’amore, la sua sarà una risposta d’amore; se invece non è innamorata e subisce il bacio come una violenza, quand’anche lei rispondesse con un bacio, il di lei bacio sarà dovuto alla paura o a un suo particolare interesse. La Chiesa pretende ancora spesso di baciare tutti, anche quelli che non vogliono essere baciati.

Papa Giovanni Paolo II ha detto (Redemptoris Missio, § 2) che la fede si rafforza donandola: ma allora saremmo davanti a un dono dell’uomo, non più di Dio. Se siamo, però, d’accordo sul fatto che la fede è una risposta individuale, dobbiamo dire che un altro soggetto, quand’anche santo, non può accrescerla direttamente in nessuno di noi. Al più può succedere che, guardando al suo comportamento, alla sua testimonianza di vita, potremmo ricevere un input di tale intensità da cercar di dare anche noi la sua stessa risposta al dono gratuito d’amore di Dio.

C’è un episodio in cui gli apostoli chiedono al Signore: «Accresci in noi la fede!» (Lc 17, 5) e molti pensano che Dio possa assecondarli con questo dono di fede (così in “Vita Nuova”, settimanale cattolico di Trieste, n. 4464 del 15.2.2013, 4). Invece no, perché la fede non può essere aggiunta o accresciuta neanche da Dio, proprio perché la fede non viene data da Dio, ma è la risposta al dono d’amore che Dio fa a tutti. Questa conclusione emerge nitidamente dall’episodio della resurrezione: quando i discepoli lo videro gli si prostrarono innanzi; «alcuni però dubitavano» (Mt 28, 17). Com’è possibile, visto che ce l’hanno lì davanti? In effetti non dubitano che fosse resuscitato perché lo vedono, e se gli si prostrano davanti, vuol dire anche che lo riconoscono anche come Signore presente. Questo stesso verbo dubitare si trova, sempre in Matteo, nell'episodio di Gesù che cammina sulle acque (Mt 14, 32), e da questo collegamento capiamo perché gli apostoli dubitano. “Camminare sulle acque”, o spostarsi sopra le acque, sono espressioni teologiche che indicano la condizione divina, perché l’unico che si muove sulle acque, che cammina sulle onde del mare è Dio (Gn 1, 2; Giob 9, 8). In varie civiltà, compreso l’islam, il mare è la possibilità universale: chi cammina sopra di esso ha il controllo di tutte le possibilità. Quindi Gesù ha mostrato la sua condizione divina e anche Pietro vuole provarci; ma, scrive l’evangelista, cominciò ad affondare. E Gesù gli si rivolge con le parole: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?» Pietro pensava che la condizione divina si ottenesse mediante un dono soprannaturale dall'alto. Gesù, invece, gli fa capire che la condizione divina dipende solo da lui, e si ottiene attraverso il dono della propria esistenza: all’offerta di Dio occorre rispondere, e solo questa è la fede. Pietro, affondando, sta dimostrando di non saper ancora rispondere adeguatamente. Allora, tornando agli undici, essi vedono che Gesù è resuscitato e anch’essi sperano di poter arrivare alla condizione divina come lui, ma ormai sanno attraverso cosa è passato Gesù (l’ignominia della croce) per cui dubitano, e forse si chiedono (come del resto ci saremmo chiesti tutti noi) se saranno capaci di passare attraverso il dono di loro stessi per giungere a questa condizione (Maggi A.). Nessuno nasce figlio di Dio; tutti, se vogliono, lo possono diventare, ma non lo siamo ancora completamente, e lo stiamo diventando faticosamente, rispondendo all’offerta di Dio (Molari C.). Questo è vero per noi, ma è stato vero anche per gli apostoli: se fosse stato un dono pensate che Dio non l’avrebbe elargito a piene mani almeno ai dodici?

Allora non hanno senso le frasi che spesso si sentono dire: “ho perso la fede, dopo quello che mi è successo”, oppure “come sei fortunato, visto che hai questa fede; io non ce l’ho, a me Dio non l’ha data.” Nel primo caso chi dice così scambia la fede con un’assicurazione contro gli infortuni: ero assicurato e quindi come si è permesso Dio di mandarmi quel rovescio? La fede viene così scambiata per qualcosa da riscuotere qui su questa terra, una controprestazione divina che dovrebbe salvaguardarci per sempre in cambio della nostra obbediente sottomissione. Ma perfino il papa emerito ha detto che la fede non è qualcosa che s’incamera semplicemente come una moneta, che s’intasca per sempre, visto che non si viene mai definitivamente a capo della fede. Nel secondo caso siamo davanti a una comoda scappatoia dalle proprie responsabilità, visto che la fede non è un regalo che scende dall’alto, a qualcuno sì e a qualcuno no, secondo il capriccio insondabile di Dio, e del quale Lui è il solo responsabile. Secondo Gesù, Dio non fa preferenze; Dio ama l’uomo perché Egli stesso è buono e fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi (Mt 5, 45); fa cadere la pioggia sul campo del buono e sul campo del cattivo (Mt 5, 45). Quando invece continuiamo a parlare di fede come sottomessa obbedienza a ciò che il magistero c’impone di credere, non ci deve poi stupire se lo stesso papa Benedetto XVI ha riconosciuto che l’istituzione fa problema, al punto che la chiesa è divenuta per molti, essa stessa, l’ostacolo principale alla fede (Introduzione al Cristianesimo, ed. Queriniana, Brescia, 2000, 330).

In conclusione, mi sembra di poter dire che aver fede significa credere in colui che Dio ha mandato, vuol dire comportarsi come Gesù, il quale ci assicura che operando con amore verso gli altri si assomiglia al Padre, perché Dio è amore (1Gv 4, 8). Perciò, la fede cristiana non è posta in una dottrina, in una verità, né tanto meno in formule o dogmi imposti dalla Chiesa, visto che la fede non è “credere che”, ma “credere in,” è cioè l'incontro con una persona, Gesù il Vivente, non con un'ideologia (Magarelli L., Cos’è la fede oggi?, “Vita Nuova” settimanale cattolico di Trieste, n. 4881/2018, 7).

Dario Culot

[1]§3 Costituzione dogmatica Dei filius, del Concilio Vaticano I, del 24.4.1870: La fede è una virtù soprannaturale, con la quale, sotto l’ispirazione e la grazia di Dio, crediamo che le cose da Lui rivelate sono vere, non per la loro intrinseca verità individuata col lume naturale della ragione, ma per l’autorità dello stesso Dio rivelante... Quindi si devono credere con fede divina e cattolica tutte quelle cose che sono contenute nella parola di Dio, scritta o trasmessa per tradizione, e che vengono proposte dalla Chiesa, o con solenne definizione, o con il magistero ordinario e universale, come divinamente ispirate, e pertanto da credersi... occorre aderire con il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà ... .

[2] Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione - Dei Verbum § 5 - del 18.11.1965.

[3] Vicina, ma al tempo stesso diversa, è l’affermazione di Fuček I, I dieci comandamenti, in Catechismo della Chiesa Cattolica, ed. Piemme, Casale Monferrato (AL), 1993, 992, secondo cui la fede è la risposta dell’uomo al dono di Dio, ma questo dono non sarebbe l’amore, bensì la rivelazione.