Numero speciale - A vent'anni dalla morte di p. Balducci

Disegno di copertina, "Prete antianticonciliare", di Rodafà Sosteno

25 aprile 2012

VITA DA PRETE

In un’importante assemblea degli azionisti di un’importante azienda, un socio domanda se siano state mai “irrorate” sanzioni alla società di cui è, per appunto, comproprietario-azionista. “Irrorate”, chiede. E nessuno batte ciglio, anzi tutti si preoccupano, giustamente, di dargli adeguato riscontro nel merito, ma nessuno sembra accorgersi dello svarione lessicale.

C’è stato un progressivo, continuo, inarrestabile imbarbarimento dell’espressività verbale, della correttezza linguistica, di cui nemmeno possiamo dire di essere stati testimoni, perché piuttosto ne siamo divenuti complici più o meno consapevoli, più o meno consenzienti. Non si tratta di preziosismi culturali irrilevanti per la coscienza civile e sociale. Tutto al contrario: è come se si fosse ispessita l’incapacità di argomentare, di scendere nella complessità, di scavarla a fondo, di farsi continuamente domande.

Anni bui i nostri, ma anni bui pure quelli in cui improvvisamente morì, il 25 aprile 1992 – il giorno di festa per la memoria della liberazione dal nazi-fascismo -, padre Ernesto Balducci, prete dell’Ordine dei Chierici Regolari Poveri della Madre di Dio delle Scuole Pie, fondato da San Giuseppe Calasanzio, santo fattosi pericolosamente prossimo a Tommaso Campanella e Galileo Galilei, agli inizi del Seicento.

Certo Balducci sarebbe trasalito apprendendo, da una semplice annotazione di cronaca, che i momenti istituzionali dell’aziendalismo sono ormai indifferenti alla degenerazione dell’italiano corretto. Ne avrebbe colto il segno terribile di una marcescenza di quelle propagandate radici cristiane di un’intera cultura che, invece, nulla di evangelico, nei suoi meandri più nascosti e più condizionanti, ha mai avuto.

Scriveva in “L’esistenza cristiana”, ed. Testimonianze, 1968, pp. 47-48: «Diventare cattolici non significa aver smesso di essere pagani, perchè il paganesimo tendenziale è proprio intrinseco con la nostra natura, è una dimensione della nostra natura. Anzi il cattolicesimo, a rigore, non lo cancella nemmeno questo sentimento pagano di Dio; lo adempie e lo obbliga ad un capovolgimento, quello cioè di cercare Dio non come l’uomo vuole o come indica la natura, ma come Dio ha voluto e ci ha indicato. Però, se la fede non rimane integra, succede che questo rapporto riprende la sua posizione originale: allora abbiamo le manifestazioni di religiosità basate soltanto sulla natura; quindi la ricerca delle grazie, la fiducia che Dio concederà le grazie non appena si chiederanno in quel dato modo, con quelle date novene, eccetera. Queste forme non dobbiamo apprezzarle, dobbiamo a volte tollerarle, in quanto segni di una saggezza umana e spirituale che non tocca a noi violentemente portare alla sublimità: occorre sopportarla, come in fondo la Chiesa fa nei suoi momenti ufficiali; ma non dobbiamo nemmeno sollecitarle o accarezzarle con una ammirazione che non meritano. Come sapete, queste forme di fede degenerate nella superstizione si compongono benissimo con una vita privata tutt’altra che morale. La fede, quando è pura, quando è ben aderente alle strutture costitutive della Rivelazione autentica di Dio, produce un cambiamento di vita nel comportamento, nell’osservanza della legge morale. Invece la fede superstiziosa voi la ritrovate anche nelle persone che vivono professionalmente nell’immoralità.»

La predicazione di Balducci (anche ma non solo o, oseremmo dire, perfino non tanto sulla pace – una passione di evidenza, peraltro, talmente totalizzante da portarlo, nel 1986, a fondare una casa editrice con il nome “Edizioni Cultura della Pace” –) ha più senso oggi di vent’anni fa.

Perché quella predicazione era in effetti un rimanere avvinghiati, per forza d’innamoramento, alla potenza della parola e delle parole.

Ha parlato tanto Balducci, tantissimo. Ma mai troppo. La sua stessa eccedenza verbale veniva avvertita come una necessità testimoniale di un principio di riscatto per le nostre, angosciate e angoscianti, opacità esistenziali.

Nel giro di pochi mesi, nel corso dello stesso anno 1992, tacquero le voci di David Maria Turoldo e di Ernesto Balducci. Nel 1993 tacerà anche quella di Tonino Bello.

Ha più senso ora, la predicazione di Balducci, perché l’origine della violenza non sta più nello sgancio delle bombe aeree – come accadde in Iraq, nella ex Jugoslavia, ai tempi dell’intenso ultimo ministero, autenticamente presbiterale o semplicemente pubblicistico, a seconda delle preferenze degli interpreti, del padre scolopio -: quell’origine sta altrove.

In un luogo molto difficile da individuare e da illuminare. Una dimensione dove si incrociano istinti e razionalizzazioni logiche, emozioni primitive e loro traduzioni politico-sociali.

Sarebbe facile rispondere che l’assetto finanziario mondiale porta ad una deriva settaria degli esclusi dai benefici goderecci che poi genera la rivolta, anche quella dell’abuso solitario o del teppismo gregario.

C’è molto d’altro e di diverso.

C’è la dissoluzione della premura per l’Altro. Questo Balducci aveva inteso e questa, la cura per l’altro, era la sua pace.

L’ultimo tratto della vita di Balducci, a nostro avviso, ha un inizio preciso: l’incontro di Assisi del 27 ottobre 1986 tra i rappresentanti di tutte le grandi appartenenze religiose mondiali.

Un baluginare di uomo planetario, per quanto sia difficile riuscire a decodificare esattamente che cosa simile espressione intenda o abbia significato nelle precise intenzioni del suo inventore senza correre il rischio di scadere di nuovo in una impoverente semplificazione.

Ma qui stava pure la sua autocomprensione dell’essere prete.

La religiosità, in quanto attaccamento alla definizione, per così dire, suprema del Sé, anche contro l’Altro e gli Altri, se ritenuto necessario per difendersi, era stata completamente abbandonata da Balducci, non nel senso che non ne avesse più memoria o che tale memoria non intendesse investigare criticamente, anzi, ma nel senso di ritenere necessaria la rifondazione di un’intera esperienza di fede, come si esprime oggi ad esempio, per quanto con esiti diversi, Vito Mancuso.

Ammesso e non concesso che tuttavia ancor oggi l’identità religiosa si costruisca per contrapposizione – la stessa verve polemica di Balducci non era avulsa da un confronto, anche se a distanza ed anche se articolato dialetticamente, con ben precisi interlocutori (da Bush a Wojtyla tanto per esemplificare in forma “esagerata”) - il nemico odierno chi è, quale sarebbe? C’è?

Il nemico, è questa la tragica constatazione, siamo noi per noi stessi.

Quel mercato che premia chi consente i massimi profitti, a qualunque costo, non libera, non affranca, certamente non appaga.

Si affaccia – può sembrare infantile – la cattiveria, la cattiveria dei giorni, su cui oggi insiste, tra gli altri, Enzo Bianchi.

La cattiveria, come “captivitas”, il cattivo come “captivus”, non liberato, prigioniero.

In questi giorni è in uscita nella sale cinematografiche il film “Diaz”, una riproduzione visiva di violenza impressionante, gratuita, incomprensibile e ricondotta alle pretese egemoniche del potere politico che crede di dover assicurare un ordine pubblico diventandone, invece, una perversione degenerata. Eppure anch’esso dà corpo, consistenza, a quell’inappagato bisogno di uscire da sè: in quel caso, purtroppo, per semplicemente, ma orrendamente, sopraffare, ancora una volta, l’Altro, gli Altri.

Padre Balducci partecipò, come anima pensante, alla nascita di una sensibilità per un mondo, un universo, un uomo dalle dimensioni e possibilità inedite, che il movimento per la pace cercò poi di canalizzare, in forme non sempre riuscite e non sempre adeguate, perché, ancora, troppo semplificanti, riduttive.

Se però il nemico della religione, della nostra religione intesa come apparato identitario, esterno, esteriore, di una pienezza tuttavia, ed al contrario, assolutamente interiore, intima, profonda, se questo nemico siamo ormai noi per noi stessi, allora oggi non è più tanto il connotato sacrale o laico del prete a fare questione.

Oggi il problema è il monaco, lui si cerca, lui si interpella, da lui si va.

Da Enzo Bianchi ci ri reca, tanto per fare un nome noto. Ed il 16 febbraio di quest’anno è stato proprio il laico priore di Bose a tenere a Firenze, in Palazzo Vecchio, una lectio magistralis sullo scolopio morto vent’anni fa come oggi. Se ne può consultare il testo, illuminante sotto molti profili, al link http://www.monasterodibose.it/content/view/4371/26/lang,it/.

Un filo rosso va da Ernesto Balducci a Enzo Bianchi. Dalla Badia Fiesolana al Monastero di Bose.

Da un chierico regolare, come è un padre scolopio, ad un monaco laico, come è il priore del monastero appena menzionato.

Eppure, nel bel mezzo, rimane irrisolto il problema del prete tout court.

E perché appare ancora questo nodo? Perché il prete testimonia la fatica della mediazione, la necessità e l’oscurità del compromesso.

Chi però sarà, e come sarà, il nuovo prete, il prete ultimo?

Sono rivelative le parole di Balducci in un articolo intitolato “Il sacerdozio scolopico tra passato e futuro” e comparso sul N° 50, del 1983, di Analecta Calasanctiana (il numero della rivista del suo Ordine dedicato al quarto centenario dell’ordinazione sacerdotale del fondatore), a p. 410: «Personalmente sono stato sempre giudicato, con ammirazione o con deplorazione, un novatore. Ora che ho sorpassato la soglia dei sessant’anni, ho il diritto di chiedere che le mie posizioni siano giudicate come espressione di una fedeltà. Una fedeltà che oggi a molti miei compagni di vita religiosa e di ministero che hanno scelto la via della rottura col passato arriva a sembrare ingenua, addirittura funzionale al privilegio delle istituzioni messe sotto giudizio. Per mio conto, sono convinto che la vera fedeltà è quella che misura i suoi modi e i suoi ritmi sul cammino del popolo di Dio, sui livelli della sua coscienza e perfino sui suoi ritardi. Non è né teologica, né giuridica, è vitale.

Proprio per questo la crisi dei modelli va vissuta nella coscienza che essi, sia quelli passati che quelli futuri, sono sempre relativi e perciò sono validi solo se si vivono con amore e insieme con distacco, con una fedeltà aperta all’infedeltà. «Una sola cosa è necessaria: il Regno di Dio.»»

Il monachesimo, così come il sapere accademico e la sua declinazione all’interno di un’appartenenza clericale, resta di necessità a latere del compromesso.

Ricordando come Balducci ebbe a parlare degli inizi di Bose nel suo Diario dell’esodo, Bianchi riporta un passaggio che crediamo cruciale per cercare di vedere il domani della Chiesa: «Ho avuto l’impressione (ma non è la prima volta) che il cristianesimo sia di nuovo sul punto in cui gli si aprono davanti tutte le possibilità … Là dove Dio non trova la fede, anche gli uomini tra poco non vedranno più niente. Amen!»

Ecco, questo aprirsi di nuovo di tutte le possibilità per il cristianesimo appare come l’ultima, salvifica, seduzione di un modo antropologico d’essere per cui ognuno può farsi prete della propria vita.

Proprio così.

Farsi prete della propria vita. Nel senso di diventare, ad un tempo, totalmente laico e totalmente aperto ad una prospettiva inesauribile di simile laicità.

È forse qui che ci aspetta Balducci, vent’anni dopo.

Stefano Sodaro