Il primo gesuita papa

Un gesuita diventa papa e sceglie di chiamarsi Francesco. E’ la prima volta nella storia per entrambe gli accadimenti.

In questo momento i pensieri e le considerazioni si accavallano e si rischia la confusione e l’avventatezza dei giudizi.

Di per se la provenienza dalla Compagnia di Gesù non è garanzia di progressismo o conservatorismo, perché le posizioni dei singoli padri all’interno di essa coprono l’intero arco dell’esperienza ecclesiale odierna. Ad esempio, va da se che il card. Bergoglio non ha avuto la medesima storia di padre Ignacio Ellacuria, il teologo assassinato nel 1989 a San Salvador dalle squadre del regime militare assieme a cinque confratelli e a due collaboratrici, per l’impegno di formazione culturale, politica e sociale che svolgeva attraverso l’Università Centro Americana.

Le loro scelte teologiche e pastorali sono state diverse, probabilmente anche divergenti su molti punti. Bergoglio marca una distanza dalla teologia della liberazione, operando una più netta distinzione tra impegno sociale politico per la giustizia e annuncio evangelico, dando la priorità a quest’ultimo.

Invece, ciò che tutti i gesuiti condividono è una robusta formazione culturale e spirituale, che li ha temprati ad operare in contesti anche difficili ed avversi, in condizione di forte isolamento personale. Tipica del carisma gesuitico è la valorizzazione dell’individualità, della ricerca e scoperta del modo specifico di operare di Dio all’interno dell’anima di ciascuno, all’interno delle situazioni storiche concrete nelle quali la persona si trova a vivere, nella piena assunzione di tutti i rischi e delle eventuali conseguenze, ma senza preoccuparsi di se, quanto piuttosto del progetto divino che si scopre farsi strada attraverso di se. Ad maiorem Dei gloria. Per incrementare il peso di Dio nella storia. Sono tutte doti che papa Francesco potrà mettere ora frutto nel suo impegno per la Chiesa universale e all’interno della Curia vaticana.

Il fatto che il papa provenga da un ordine religioso segna anche una distanza da un modello di chiesa fondato sui movimenti. Ormai questi ultimi rappresentano uno dei modi prevalenti nel mondo occidentale per vivere visibilmente l’appartenenza ecclesiale. Il rischio è però che pretendano di esaurirla tutta in loro e tra loro. Un papa “gesuita” forse aiuterà a ricordare che la Chiesa è più della somma dei movimenti. E il nome, Francesco, forse ci aiuterà ricordare che l’assemblea che Dio convoca al suo banchetto sono i poveri, i diseredati, gli ultimi.

Infine i gesuiti non hanno avuto una vita facile nella Chiesa negli ultimi trent’anni. Dopo la scelta a favore della impegno per la giustizia operato nel 1973, con superiore generale p. Arrupe, la Compagnia fu sospettata di eccessiva connivenza con le istanze della teologia della liberazione. Successivamente Giovanni Paolo II, anche a causa della malattia che colpì p. Arrupe nel 1981, nominò un suo delegato il p. Dezza, quale guida della Compagnia per due anni, sino all’elezione di p. Kolvenbach quale nuovo Generale nel 1983. All’interno della Compagnia stessa i padri operarono tra loro distinguo e marcarono sentieri diversi.

L’accesso al soglio di Pietro di un cardinale di provenienza gesuitica appare anche un’attestazione di quanto è maturato nella fedeltà faticosa e di frontiera della Compagnia nell’ultimo scorcio del XX secolo.

Dario Grison