Polemologie vaticane

Una delle critiche più comuni al cosiddetto “pensiero debole” insisteva, a suo tempo, sulla presunta ipocrisia della sua medesima enunciazione, cioè gli si imputava di promuovere un certo atteggiamento del pensiero proprio mettendo in pratica l’oggetto della propria critica. In breve, il “pensiero debole” proprio in quanto teorizzato, espresso, tematizzato diveniva altrettanto “forte” delle filosofie “metafisiche” e, anzi, aveva tanto più bisogno di dimostrarsi apodittico e dogmatico quanto più voleva comunicare la propria debolezza.

Sull’altro versante, si criticava il “pensiero debole” proprio per la sua arrendevolezza teoretica che si sbilanciava su posizioni relativistiche secondo le quali “tutto va bene, perché tutto è una finzione e la verità non esiste”. Per affermare i giusti valori e per ricercare la verità quale presupposto ineludibile di ogni conoscenza, sono necessari la forza e il coraggio di assumere posizioni nette ed intransigenti.

Una delle risposte più efficaci ad entrambe le critiche può essere incentrata sulla figura di Lévinas: secondo quest’ultimo, la cultura occidentale a partire dai suoi primordi greci è caratterizzata dalla “violenza”, ossia da una quasi naturale tendenza all’assoggettamento dell’Altro. La stessa nozione di “identità” o di “essere” non sarebbero che forme di “riduzione” e addomesticamento nel senso di una sorta di reductio ad unum di ciò che è diverso e divergente. Noi partiamo sempre dal nostro “Io” e dalla nostra costituzione soggettiva per conformare un “fuori” che deve divenire sempre più autoreferenziale: l’Altro non è che il riflesso e lo specchio dell’Io metafisico e quando affermo che “questo è così e così” non compio che un’operazione violenta di addomesticamento e controllo, categorizzando e classificando colui che mi sta di fronte.

Operando un’inversione drastica di questo atteggiamento, Lévinas pone all’origine proprio quell’alterità neutralizzata dall’abitudine metafisica e ontologica: è dall’Altro, dalla sua epifania che si pone al di là di ogni possibilità di nominazione e concettualizzazione, che sono possibili un linguaggio e un pensiero; ed è ancora l’Altro – e non l’Io - che assoggetta preliminarmente nella misura in cui pone il soggetto in una condizione di assoluta esposizione e passività.

Ora, il raggiungimento di questa passività debordante non implica affatto per Lévinas “debolezza” o “ignavia”, ma abbisogna altresì di uno sforzo sovrumano, nella misura in cui l’attitudine dell’uomo sarebbe appunto quella di immunizzare l’Altro dandogli un nome e inserendolo in una categoria. La debolezza dell’arretramento e dell’apertura all’Altro, l’apparente debilità di un porsi passivamente nei confronti del Tu che ci sta dinanzi, cela invero un esercizio intenso di energie e di contromovimenti. Ciò che per Lévinas fonda l’etica intesa nella sua accezione più essenziale è dunque una debolezza nei confronti dell’altro che si esercita attraverso uno sforzo assoluto, illuminato da Dio.

Mi sembra di riscontrare qualcosa di analogo nei modi in cui si sta muovendo attualmente papa Francesco, soprattutto dopo la sorprendente elezione dei nuovi 15 cardinali annunciata in occasione dell’Angelus di domenica scorsa. In effetti le sue aperture verso i più deboli e i più poveri sembravano annunciare un disegno sicuramente illuminato, ma forse instillavano il dubbio di una certa debolezza intrinseca dei gesti, quasi non ci si potesse che limitare agli annunci, alle testimonianze e ai gesti simbolici. Un papa debole aperto ai deboli del mondo, insomma, ma proprio per questo passivo, incapace di ingaggiare una vera e propria battaglia contro l’apparato della Chiesa.

Invece, similmente a Lévinas, assistiamo a un capovolgimento: il collocare l’Altro al centro, il destituire il soggetto dalle proprie pretese e dal suo innato egotropismo, non significa essere deboli, passivi, timidi, ma sono gli indici evidenti di un’enorme determinazione e risolutezza. Come il suo ispiratore San Francesco, il papa sa che, nei modi giusti, per affermare i diritti dei deboli ci vuole forza, azione e, perché no, pòlemos: non è sufficiente la parola o l’espressione di un sentimento, ma bisogna agire, lottare ed esporsi. La debolezza, l’apertura rivoluzionaria nei confronti dell’Altro, la rivoluzione stessa come quella gandiana, ad esempio, sono, esattamente all’opposto dell’apparenza, espressioni di coraggio, convinzione e forza; mentre d’altro canto le manifestazioni esteriori di potere e di potenza non celano che la più profonda impotenza.

Emiliano Bazzanella