Star bene, star male. Dell’obbedienza

Più passa il tempo e meno si parla di un evento che di per sé dovrebbe aver sconvolto ogni luogo comune nel sentire, osservare e, per alcuni, vivere la realtà della Chiesa.

Un gesto di straordinaria postmodernità. Un momento di crisi voluta, provocata, benedetta persino, proprio dall’interno del potere istituzionale. Un’implosione provvidenziale che ha rimescolato del tutto quanto si pensava di avere capito o di dover accettare passivamente.

Facciamo riferimento alle epocali dimissioni dal pontificato di Joseph Ratzinger nel 2013. Qualcosa di dirompente a tal punto che sembra si preferisca non ragionarci più troppo sopra.

Come mai?

Ci è stata data la possibilità, vera vacanza di godimento e ristoro psicofisico, di partecipare alla settimana di approfondimento teologico svoltasi dal 18 al 23 agosto presso il Monastero di Camaldoli e promossa dalla stessa Comunità Monastica di Camaldoli, dall’Associazione Teologica Italiana e dal Coordinamento Teologhe Italiane, sul tema “Una Chiesa di donne e di uomini”.

Ad un certo momento della fervida discussione è stato posto a tema l’imprescindibile riferimento filosofico e teologico al monismo, a quell’uno, cioè, indiscutibile e per secoli indiscusso che ha bloccato ogni possibile articolazione pluriforme di un pensiero diverso, altro, irriducibile alle semplificazioni e ricco piuttosto di una complessità semplice ma arricchente.

L’intreccio tra una benefica rivisitazione dell’impostazione mentale – ma pure esistenziale – imperniata sull’Uno ed il fatto delle dimissioni papali ci occupò già mesi fa: tuttavia, alla luce di quanto scaturito a Camaldoli, vorremmo rileggere la storia recente da un’ulteriore prospettiva, partendo dal concetto di obbedienza, che sembra, proprio anche a seguito di secolari tradizioni monastiche, avere innervato la stessa appartenenza ecclesiale, come se, tanto per capirci, si desse un dissidio irriconciliabile tra ragioni di coscienza e doveri di obbedienza, laddove per essere buoni cattolici – non osiamo dire cristiani – sembrerebbe, secondo opinione ancora diffusa, doversi sacrificare senza scampo proprio le prime, lasciando che trionfi il volere di chi è chiamato a far esercitare l’obbedienza. Un’autorità da un lato, un obbediente ad essa, costi quel che costi, dall’altro.

È il modello, ci pare, che Michel Foucault indaga nel suo “Mal fare dir vero”, edito in Italia da Einaudi nel medesimo anno della rinuncia pontificia, il 2013.

Lo schema dell’obbedienza – chiamiamolo così - ovviamente funziona ben al di là degli ambiti religiosi. Per quanto possa sembrare paradossale, persino il rapporto tra medico e paziente potrebbe rientrare nel meccanismo di funzionamento dell’obbedienza.

L’Autorità risulta sempre la stessa, una, unica. Quella. Posta là. In alto. Non ce ne sono due, tre, quattro.

La “second opinion”, per restare agli ambiti medico-diagnostici, non sembra una pratica entusiasmante e ciò non perché metta a disagio l’autorità del primo consulente ma proprio perché il paziente non sa più a quale numero di “opinions” fermarsi: quanti ne deve vedere di medici? Due? Cinque? Otto? E se la possibilità fosse poi dettata dalle disponibilità economiche, si capisce immediatamente la drammatica necessità dell’uno. Meglio pagare ad uno soltanto confidando che sia quello buono.

Eppure Ratzinger è riuscito a mettere in crisi proprio questo “uno”, anzi “Uno” con la maiuscola. Un’intera architettura razionale ne è risultata destabilizzata per sempre. Ma non lo si è ancora compreso o forse ci si sforza proprio di non pensarci troppo. L’ “Uno” è sempre più rassicurante. Consolante. Protettivo. Non si può obbedire a più di Uno. Ne deriverebbe una sensazione di malessere che la nostra cultura non saprebbe ancora come curare.

La nostra cultura. Bel problema.

Perché in effetti non si comprende più cosa essa sia. Per troppo tempo è stata disabituata a ruotare intorno alla molteplicità, alla frantumazione, alla pluralità degli interlocutori di riferimento. Il frammento è stato a lungo considerato limite e non risorsa. Come la parcellizzazione delle età della vita umana: i bambini, gli adulti, gli anziani, ognuno confinato in una peculiarità, in una settorialità isolata, esclusiva.

E qui viene davanti agli occhi un dramma di cui, in maniera simile a quanto accade nel 2013 per l’evento del papa dimissionario, pressoché nessuno indaga l’effettivo significato, al di là del dato di cronaca e delle analisi politico-internazionali o di politica interna.

Parliamo della strage, dell’eccidio, dell’ecatombe dei naufraghi nelle acque del Mediterraneo.

A quale appello cui obbedire con la forza di una speranza al limite della disperazione rispondono le migliaia di persone che si affidano al mare per scappare dalla propria terra?

Non obbediscono ad Uno, agli ordini più o meno imperativi, più o meno espliciti, di qualcuno che pretenda simile obbedienza. Gli scafisti – immaginandoli come un’unica entità - sono gli esecutori di un piano che comunque nasce prima della organizzazione del viaggio.

Chi scappa risponde ad un’altra obbedienza. All’appello della vita.

Evidenzia un’obbedienza alla vita, alle ragioni di vita possibile – fossero anche le più incerte ed improbabili – che dovrebbe sconcertare per il suo realismo. Rischia la morte per vivere.

E chi può negare simile diritto alla vita?

Lo potrebbe un’orrenda Autorità appunto, maestosa nella sua unicità, che decretasse diritto alla vita per alcuni e obbligo di morte per altri. Ma questa Autorità, se c’è, quanto meno non appare. Perché se apparisse, sarebbe incriminabile. Nessuno potrebbe consentire – almeno speriamo – ad una condanna a morte derivante da provenienze geografiche.

L’Uno dunque non c’è neanche qui. Non c’è mai stato nelle scelte di chi parte e affronta il mare. Non c’è nell’impossibile ricerca e presentazione di un volto autoritario, chiaramente individuato, che imponga qualcosa a qualcuno ed a cui si possa chiedere conto, una buona volta, di ciò che accade.

C’è la speranza disperata di una vita altrove, nella sua complessità, bellezza e, appunto, poliedricità, varietà, diversità. Una speranza che non esclude la morte, mentre tutte le speranze della nostra cultura sembrano appiattite nell’evitare persino di pronunciare il termine evocativo dell’esito ultimo, la morte non deve esistere. Anche la dicotomia vita/morte infrangerebbe infatti il primato dell’Uno.

Solo che il potere s’è giovato della frammentazione culturale, nascondendosi abilmente nelle fratture della nostra cultura. Il potere è ormai diffuso dappertutto. Resosi ben conto del rischio di soccombenza davanti al venir meno dell’Uno, si è confuso tra i Molti.

Questo contagio del potere su tutta la nostra vita è, a parer nostro, esiziale, è ciò che fa star veramente male.

L’obbedienza a quell’Uno, che si riteneva finalmente messa per sempre in crisi – e starebbero a testimoniarlo appunto i fatti del 2013 ed i drammi delle migrazioni –, in realtà torna nell’obbedienza ad un misterioso e anonimo Uno che si cela ad ogni apparente conquista di liberazione dai monologhi culturali.

Come uscirne? Come riuscire a star bene e non male?

Forse semplicemente prendendo coscienza di tale complessità.

La paura della complessità – che è cosa ben diversa dalla complicazione – riconsegna parole decisive al potere che invece nella complessità ha imparato a muoversi. Ridire, da parte nostra e così come sappiamo e riusciamo, le parole della complessità significa allora ridire le parole delle nostre vite, togliendo voce a chi vorrebbe imporsi su queste stesse nostre esistenze.

Ne deriva un diverso significato anche dell’obbedienza, che don Milani affermava non essere più una virtù: l’ “ob-audire”.

Tonino Bello ne faceva la traduzione, vedendola realizzata in Maria di Nazaret: ascoltare stando di fronte, ascoltare in piedi (cfr. http://maidireormai-2.blogspot.it/2009/09/maria-donna-obbediente.html).

Ma si tratta di ascoltare soprattutto la nostra ansia di star bene e non male. Di vincere il luogo comune per cui la sofferenza, il dolore, l’angoscia, l’ansia, il debito, la colpa, l’errore, la mancanza, sarebbero le sole vere dimensioni validanti una vita intera.

Non crediamo sia così: o l’obbedienza, intesa come sopra, dà gioia, oppure, intesa in altro senso, fa star male. E nessuno crede più che a star male si starà poi, chissà quando, anche bene.

Ci sono fatti, storie, accadimenti, notizie che la lettura della complessità potrebbe riuscire a decodificare nelle loro potenzialità rilevative. È accaduto a Roma nel 2013, accade nel Mediterraneo purtroppo quasi ogni giorno.

Solo la fedeltà alla storia, che è parziale e contraddittoria, può salvare da una vita in mano ad altri che ne possano decidere gli esiti e le condizioni.

Ma tale fedeltà è faticosa, come il ripensamento integrale dell’obbedienza.

Buona domenica.

Stefano Sodaro