Immanente e trascendente

Arcades, Nationalmuseet, Copenhagen - immagine tratta da commons.wikimedia.org

Questo è un argomento abbastanza ostico e difficile, per cui cercherò di spiegarlo nel modo più semplice che mi riesce. Però faccio subito notare che anche se si tratta di un tema in apparenza astratto e arido, è invece assai importante, soprattutto per le conseguenze che comporta e sulle quali pochi si soffermano.

Dobbiamo renderci conto che noi siamo eredi della cultura greca e la cultura greca ci ha insegnato a interpretare la realtà utilizzando un codice binario: ancora oggi noi cerchiamo di capire la realtà inquadrando il «bene» come contrapposto al «male», il «forte» al «debole», il «giusto» all’«ingiusto», e così via. In cima a questa codificazione binaria – almeno per la religione - sta il codice supremo che spiega tutto il resto: la contrapposizione «trascendente-immanente», cioè il divino e sacro, contrapposto al terreno e profano.

Il termine trascendenza, deriva dal latino “trans" + "ascendere" = salire al di là. È stato perciò adottato dalla filosofia (e quindi dalla teologia) per indicare una realtà ulteriore che sta “al di là” rispetto al nostro mondo. Trascendente è cioè quello che sfugge ai nostri concetti, perché trascende tutte le categorie del nostro pensiero. Pertanto Dio e il campo del divino, stando al di là dei limiti di qualsiasi nostra conoscenza, non sta alla nostra portata e di conseguenza non solo non lo conosciamo ma neanche lo possiamo conoscere.

Il termine immanenza, l’opposto di trascendente, deriva sempre dal latino “in” + “maneo”, cioè rimanere dentro, col che si indica un’azione circoscritta al soggetto stesso che la compie, o compiuta all’interno dell’area che egli può raggiungere e che è anche l’unica alla sua portata.

Secondo il linguaggio tradizionale, in questo sta la radicale differenza fra il trascendente e l’immanente. C’è dunque un’incompatibilità assoluta e insuperabile fra il divino e l’umano. Se Dio sta al di fuori dell’ambito o del campo immanente, unica nostra area di comprensione e conoscenza, inevitabilmente, quando pensiamo di attrarlo nel nostro ambito o campo di conoscenza, il Trascendente viene ridotto a cosa. In tal modo noi non ci relazioniamo con Dio in sé stesso, ma con l’«oggettivazione» o la «cosificazione», vale a dire con la «rappresentazione» che noi ci siamo fatti dell’Assoluto, del Trascendente. In altre parole, quando pensiamo a Dio lo oggettiviamo, cioè lo trasformiamo in cosa pensata (dogma) o realizzata (culto); lo deformiamo, sì che l’uomo, che crede di essere a quel punto in contatto con Dio, è in realtà entrato in relazione solo con le oggettivazioni di Dio da lui stesso costruite (Castillo J.M.). O, come ha detto papa Benedetto XVI, non siamo davanti alla realtà in sé, ma alla realtà in quanto oggetto del nostro pensiero. Questo significa che l’essenza, la sostanza, la natura di Dio non può essere conosciuta dall’uomo e le supposte definizioni di tale essenza sono solo vuoti giochi di parole, nel senso che – come diceva Kant, - non si può trattare del trascendente senza impantanarsi nelle contraddizioni (ricordo la contraddizione fra onnipotente e buono, entrambi attributi di Dio: cfr. l’articolo Il male viene da Dio? al n. 491 di questo giornale (https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/numero-491---10-febbraio-2019/il-male-viene-da-dio). O per fare un altro esempio: stando ai nn. 218ss. del Catechismo, Dio è amore, e l’amore è sempre libero e quindi mutevole; perciò è una contraddizione definirle Dio anche «immutabile» - n.212 Catechismo). Conseguentemente anche l’annuncio cristiano, al pari di quello di ogni religione, è sempre maldestro perché l’annunciatore non annuncia mai qualcosa che è alla sua portata, ma solo ciò che va al di là di lui e che lui stesso non comprende (Hadjadj F.).

Richiamo allora quanto avevo già detto al n. 437/2018 di questo giornale (https://sites.google.com/site/numeriprecedenti/numeri-dal-26-al-68/199998---gennaio-2018/numero-437---28-gennaio-2018/credi-in-dio). Il n. 37 del Catechismo afferma che Dio si trova nell’ambito della trascendenza, quindi in un ambito che sta ben al di là dei limiti di qualsiasi conoscenza che possa essere sperimentata, al di là dell’orizzonte ultimo dell’esistenza umana, mentre l’umanità intera sta al di qua, nell’ambito dell’immanenza, cioè in quell’area che abbraccia l’intera nostra capacità di conoscenza, oltre la quale ogni accesso ci è precluso. La caratteristica della trascendenza è dunque l’incomunicabilità (Castillo J.M.): noi uomini non possiamo conoscere il Trascendente perché è un ambito non praticabile dalla mente umana, e quindi dalla nostra ragione.

Dunque non siamo in grado di comprendere il vero contenuto della parola Dio, perché è impossibile conoscere la realtà di Dio in sé (papa Benedetto XVI; Vannucci G.). Se non possiamo sapere com’è «Dio», allo stesso modo nemmeno possiamo sapere in cosa consiste la «divinità». Dio è e resta un mistero. Non c’è nulla di più sconosciuto di Dio, per quanto si sia scritto o si sia dialogato su questa parola, sul suo contenuto e sul suo significato (Castillo J.M.).

Ma le conseguenze di queste affermazioni sono allora devastanti per l’insegnamento impartitoci: se Dio è il Trascendente per cui non possiamo conoscere il suo essere, la sua natura o, il che è lo stesso, in cosa consiste la divinità, che senso ha affermare che Gesù (il Figlio) ha la stessa natura del Padre, ha la stessa sostanza del Padre (così recita il Credo), o che il Figlio partecipa alla stessa divinità? Il concilio di Nicea ha statuito che Gesù è perfetto nella sua divinità. Ma che senso ha tale affermazione se la divinità, appartenente all’ordine della trascendenza, non è conoscibile da noi uomini?

Lutero, in opposizione a Tommaso d'Aquino che mirava a ridurre la fede alla ragione, aveva concluso che non essendo Dio comprensibile con la ragione, si poteva intenderlo solo attraverso la Rivelazione (Kampen D., Introduzione alla spiritualità luterana). Tornerò sul punto fra poco.

Stranamente invece la Chiesa cattolica, pur riconoscendo la trascendenza di Dio (nn. 37, 42 e al. Catechismo) ancora proclama solennemente (n. 36 del Catechismo) che “La Santa Chiesa, nostra madre, sostiene e insegna che Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza con il lume naturale della ragione umana partendo dalle cose create,” richiamandosi a Rm 1, 20. Questa affermazione venne resa dogmatica dalla Chiesa nel concilio Vaticano I, e venne rinforzata da Papa Pio X con l’imposizione in tal senso di un giuramento per tutti i professori ed educatori cattolici. Tale giuramento venne abolito appena nel 1967 da papa Paolo VI e quindi anche papa Benedetto XVI l’aveva necessariamente prestato visto che era professore da ben prima del 1967, anche se in precedenza si era clamorosamente contraddetto affermando (assai più ragionevolmente) che l’esistenza di Dio come persona pur solidamente argomentabile “non è oggetto di dimostrazione” ma resta un’ipotesi che esige da parte della Chiesa cattolica “di rinunciare a una posizione di dominio e di rischiare quella dell’ascolto umile”.

Se le cose stanno così, visto che noi possiamo parlare con cognizione di causa solo all’interno dell'immanenza, mentre la divinità appartiene all'ambito della trascendenza che non è accessibile, come si può continuare a parlare del Dio trascendente in maniera ragionevolmente coerente?

C’è da dire che una cosa è la realtà della trascendenza (inconoscibile). Altra cosa è la nostra conoscenza (limitata) della trascendenza. La realtà del Dio trascendente non è sicuramente alla portata della nostra capacità di conoscenza. Perciò, se insistiamo nell’affermare che Dio in persona, attraverso la Rivelazione fattaci, ci lascia sbirciare da una porta lasciata aperta sul divino, permettendoci di trascendere (di superare) la soglia del limite umano (e quindi la storia), stiamo dicendo che il divino si fa conoscere nel divino. Ossia, non stiamo dicendo nulla perché non sappiamo cos’è esattamente il divino. Sarebbe come dire che la Gnafa (che non sappiamo cos’è) ci spiega cosa è la Gnafa (v. l’articolo Credi in Dio? al n. 437 di questo giornale citato sopra).

Comunque è certo che la realtà trascendente e irraggiungibile di Dio non ci è stata rivelata dal Gesù terreno, e neanche dalla Scrittura, che resta un libro, una cosa, un oggetto; cioè «concetti» tutti immanenti, «parole» e «rappresentazioni» nostre, per cui con questi stiamo di nuovo facendo di Dio una cosificazione. Se mai il divino dovesse entrare nel campo dell’umano, per ciò stesso smetterebbe di essere divino e verrebbe ridotto a un mero «oggetto» umano.

Riprendo allora di nuovo quanto già detto al n. 437/2018 di questo giornale: come ha avvertito il teologo Carlo Molari, è vero che ogni volta che pensiamo avvertiamo che la Verità in azione nella nostra mente è più grande delle nostre idee; ogni volta che amiamo ci rendiamo conto che il Bene che ci attira supera quello che siamo in grado di offrire; ogni volta che progettiamo la giustizia sappiamo di non poter mai realizzare pienamente la Giustizia, sempre più esigente delle nostre modeste realizzazioni: questa è l’esperienza immanente della trascendenza che poi noi chiamiamo Dio.

Allora tutto quello che noi uomini possiamo capire o dire di Dio, lo possiamo fare solamente partendo dalla nostra esperienza e dalla nostra conoscenza immanente. Il cercar di relazionarsi col Dio trascendente si giustifica col desiderio che viene fuori dalle limitazioni inerenti all’immanenza. Nessuno dubita che gli uomini sperimentino, nella loro immanenza, non solo innumerevoli limitazioni che desiderano superare, ma anche innumerevoli inclinazioni al male, che emergono dal desiderio, dall’avidità di appropriarsi di ciò che non abbiamo e che gli altri hanno (Castillo J.M.). Ogni religione nasce allora perché l’essere umano, dal più profondo dell’umano, intuisce questa realtà ultima che desidera e che da sempre ha invocato col nome di Dio.

Ripeto, anche a costo di essere noioso, che quest’altra realtà ci resta però preclusa, non sta alla nostra portata. Se fosse accessibile non sarebbe trascendente, ma immanente, e un Dio che si comprende non è più Dio, come del resto diceva già sant'Agostino. Il trascendente giustamente è stato allora denominato il «Totalmente Altro», e quando ne parliamo dobbiamo renderci conto che ne parliamo dall’interno del recinto cui ci costringe l’immanenza, e riusciamo solo a pensare ad una «rappresentazione» immanente della realtà trascendente. In tal modo già degradiamo l’ambito divino facendo un «dio» a nostra immagine e somiglianza, per quanto pomposamente poi gli si applichino i nomi più solenni e gli attributi più altisonanti, visto che il trascendente riusciamo a pensarlo solo come superiore ad ogni altra categoria da noi concepibile: quindi, se l’uomo è potente, Dio sarà onnipotente; se qualche uomo è compiutamente realizzato, Dio sarà perfettissimo, ecc. A partire dall’esperienza della limitazione del nostro ambito, di fronte al desiderio verso questa realtà ultima che ci trascende e che chiamiamo Dio, riusciamo solo a balbettare qualcosa, ben consapevoli che quel nostro pensiero non è Dio. È solo il balbettio dell’aspirazione, della ricerca, dell’insoddisfazione di chi vorrebbe conoscere ma ignora. Pertanto, nessuno (neanche il magistero della Chiesa) può permettersi di dire: sappiamo che «Dio è così» o «Dio vuole questo» o «Dio proibisce quello», perché tutto ciò che diciamo su Dio non è Dio in sé stesso, ma solo le nostre idee su di lui (Castillo J.M.). Anche se dicessimo che l’ambito della trascendenza non è un ambito necessariamente superiore, esso è comunque un ambito assolutamente distinto, diverso dall'ambito dell’immanenza, al quale noi non abbiamo accesso.

Forse il rozzo boero, che non aveva mai studiato, era riuscito ad esprimere magistralmente questa sensazione al suo accompagnatore ben più dotto e istruito: “Quando vi trovate solo in una immensità come questa, non vi sembra che qualcosa parli? Non si tratta di ascoltare con l’orecchio, ma è come se voi siete infinitamente piccolo, e tutto il resto infinitamente grande. Allora le piccole cose del mondo sembrano nulla” (Rudolf O.). Forse non a caso, Gesù aveva detto: « Ti rendo lode, o Padre, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11, 25).

Molti pii credenti, fedeli a quanto dice il n.36 del Catechismo, e incapaci di accettare l’idea che per gli esseri umani è semplicemente impossibile sapere chi è Dio, come è Dio, o cosa vuole Dio, non si rendono conto che, quando sono certi di parlare del trascendente, in realtà non escono dall’immanenza, anche se usano la metafisica (che pretende di studiare l’aldilà della scienza, i valori assoluti della realtà in sé, prescindendo dai dati dell’esperienza diretta o della conoscenza sensibile), tant’è che il grande teologo tedesco Karl Rahner invitava a non assolutizzare la metafisica. Dall’ambito immanente umano, cioè, non è possibile parlare con lo stesso grado di precisione, di sicurezza e di proprietà sia della conoscenza dell'umano (immanente) che del divino (trascendente). E se parliamo, come si è sempre parlato, del divino, dobbiamo avere l’accortezza di non maneggiare la materia con la sicurezza che, invece, mostrano generalmente gli studiosi di metafisica.

Nel cristianesimo è opinione comune che il Dio trascendente lo si conosce grazie alla Rivelazione. Nell’Enciclica Redemptoris missio del 7.12.90, al §5, si afferma categoricamente che, in Cristo, Dio si è fatto conoscere nel modo più pieno: egli ha detto all'umanità chi è. Evidentemente papa Giovanni Paolo II ritiene che Gesù possa farci conoscere il divino perché, comunque questo avvenga, partecipa al divino.

Con tutto il rispetto per l’autore dell’enciclica, non mi sembra proprio, e non solo per quanto fin qui detto su trascendenza-immanenza, ma perché in tal caso continueremmo ad essere rinchiusi nel blocco del divino, potendo Dio essere conosciuto solo attraverso il divino. Ora, se leggiamo la Lettera ai Colossesi (1, 15), di questo Dio invisibile, irraggiungibile e pertanto sconosciuto, si afferma che è visibile, ossia si mette alla nostra portata proprio in Cristo: si sottintende cioè che senza Gesù Dio resta irraggiungibile. Ma parlando di un’«immagine» visibile, Paolo non può che riferirsi all’uomo terreno e limitato, al Gesù storico, perché ciò che trascende la storia non è, e non può essere visibile, e nemmeno può essere «immagine». L’uomo visibile che fu Gesù si mostra allora a noi come fosse lo stesso Dio invisibile. In altre parole, l’essere di Dio si è reso visibile, accessibile, manifestandosi in un essere creato: Gesù. Conseguentemente, non è che quell’uomo Gesù è asceso alla condizione divina, ma esattamente al contrario, Dio è disceso alla condizione creata, in quanto è una creatura quella che ci mostra e ci rende presente l’essere stesso del nostro Dio (Castillo J.M.). Ma è ovvio che nessuna immagine può rappresentare esaurientemente Dio nella sua essenza, che resta trascendente. «In Gesù», allora nella vita che condusse Gesù, in ciò che fece e disse, risplende la presenza immediata di Dio (Vanhoye A.). Pertanto, Dio non lo incontriamo filosofando o elucubrando teorie, bensì vivendo come visse Gesù, perché solo attraverso la sua vita possiamo capire qualcosa di Dio, cioè possiamo pensare a Dio e parlare di Dio dentro i paletti che Gesù terreno ha posto con la sua vita (Castillo J.M.).

Anche quando Filippo chiede a Gesù di poter conoscere il Padre e Gesù gli risponde che chi ha visto lui ha visto il Padre (Gv 14,8s.), a una domanda che mira a poter conoscere l’invisibile, Gesù risponde in relazione a quello che si «vede». La conoscenza di Dio diventa visione di un essere umano, poiché questo è ciò che «vedevano» i discepoli in Gesù. La sorprendente innovazione introdotta da Gesù nel poter conoscere Dio, sta nel fatto che il Trascendente e l’Invisibile sono diventati immanente e visibile in quell’uomo che è stato Gesù (Castillo J.M.). In altre parole, il Trascendente si è fatto conoscere incarnandosi in un uomo, cioè umanizzandosi. Dio, facendosi presente in un uomo, si è fatto conoscere dal mondo immanente; e per far questo anche Dio è dovuto entrare nell’ambito dell’immanenza. Il punto d’incontro, fra il divino e l’umano, non è stato allora l’ambito divino sconosciuto, ma quello umano, sì che nell’umano è dove incontriamo il divino. In tal modo il Trascendente, non più collocato solo nell’ambito inconoscibile, con l’incarnazione ci è venuto incontro condividendo la nostra condizione, e la condizione umana la possiamo tutti chiaramente intendere. Ma anche così, se quello che alla fine possiamo conoscere di Dio lo possiamo conoscere solo con riferimento all’umanità di Gesù, questa conoscenza (immanente) non potrà che essere limitata come lo è tutta l’immanenza. I nostri limiti conoscitivi sono inseparabili dalla nostra natura umana. Perciò Dio è visibile, comprensibile e dicibile solo nella persona di Gesù, nella sua vita e nelle sue opere terrene, ma tutto ciò che supera questo, oltrepassa ancora oggi i limiti posti alla nostra conoscenza.

E alla fin fine, cosa ci ha rivelato della trascendenza l’incarnazione (umanizzazione) di Dio in Gesù? Cosa hanno visto i discepoli in Gesù seguendolo? Solo che, nella nostra fragilità, l’unico modo di vivere è l’accoglienza, la fratellanza, la condivisione, il servizio. Se Dio è amore, non si è potuto incarnare in Gesù per separare, distanziare e far entrare in conflitto le persone; non ha potuto umanizzarsi per poi disumanizzare gli esseri umani. Guardando alla vita di Gesù salta subito all’occhio l’interesse che egli ha mostrato per la salute, per la convivialità, per le relazioni fraterne con tutti, facendoci così capire che una delle cose che in primo luogo Dio vuole e che più gl’interessano è la salute, la vita, la dignità e la felicità degli esseri umani. Gesù ci ha mostrato che Dio è così. Se Gesù si è preoccupato e interessato più di salute e alimentazione che di culto, di liturgia, di rituali religioni o perfino di preghiere vuol dire chel’importante, per Dio, non è la pratica religiosa, bensì l’esperienza umana che si vive – ad esempio,- quando si condivide la tavola. Mangiare insieme è un’esperienza secolare e laica che, in linea di principio, non ha nulla di sacro o religioso, ma è piuttosto un atto di vicinanza umana, di amicizia, di rapporti calorosi. Ciò significa che per Gesù, e per il Dio di Gesù, l’umano viene prima del sacro, prima del religioso e perfino prima dello sconosciuto divino. È chiaro che Gesù, rivelandoci un Dio così, ci sta spiazzando, perché ci apre cammini d’incontro con Dio che mai avevamo sospettato (Castillo J.M.).

Detto questo, armonizzare e far coincidere in Gesù due realtà che non si capisce come possano unirsi l’una con l’altra, cercar cioè di unire l’orizzontale (umano) col verticale (divino) resta ancora difficile da comprendere: come può co-esistere un Dio immortale con un uomo mortale? Come può rendersi presente il Dio trascendente in un uomo in carne e ossa?

Certamente non è possibile risolvere il problema col mero uso della formula “è” (Gesù è Dio) che afferma identità, non essendo possibile affermare quest’identità fra due realtà (Dio e uomo) che per definizione si collocano su piani radicalmente diversi (cfr. sempre l’articolo Gesù è Dio? al n. 443, https://sites.google.com/site/numeriarchiviati2/numeri-dal-26-al-68/1999991---marzo-2018/numero-443---11-marzo-2018/gesu-e-dio). In altri termini, non si tratta di affermare né che Gesù è Dio, né il contrario. Perché affermare o negare l’uno o l’altro non è alla nostra portata, nella misura in cui la formula «è» esprime identità fra il soggetto e il predicato. Utilizzare formule attraverso le quali in definitiva s’identifica l’immanente con il trascendente invalida automaticamente tali formule. Perché a partire dall’ambito dell’immanenza non si può affermare nulla che per definizione si collochi nell’ambito della trascendenza. Perché parlare di identità equivale a passare da un ordine della realtà che ci è conosciuto, ad un altro ordine della realtà che non ci è conosciuto ed è impossibile da conoscere (Castillo J.M.).

Ma non per questo si deve arrivare alla conclusione del matematico Odifreddi, il quale ha scritto ne Il vangelo secondo la scienza, quanto segue: “ammesso che il trascendente esista, esso deve rivelarsi nell'immanente, nel contingente, sì che ogni specifica rivelazione è una distorsione e un'approssimazione, e un’approssimazione non può e non deve essere presa seriamente.” La prima parte della frase è senz’altro corretta, ma non lo è la conclusione finale, in quanto anche la scienza, in cui Odifreddi fermamente crede, è avanzata sempre per gradi, quindi per approssimazioni, ed è stata sempre presa seriamente pur sapendo che la ricerca continua e non si è mai arrivati a una conoscenza assoluta e definitiva. Lo riconosce lo stesso Odifreddi quando, nello stesso libro, sottolinea che i principi dell'impostazione pitagorica sono oggi superati, ma il modello trasmesso da questo filosofo arrivò fino a Keplero, il quale ne elaborò una versione aggiornata e attraverso ragionamenti matematici riuscì a elaborare le tre famose leggi sul moto dei pianeti, che costituirono i pilastri su cui si poggiò la cosmologia newtoniana. Dunque, perché sostenere che un’approssimazione non deve essere mai presa sul serio? Lo stesso progresso graduale, che avviene per la scienza avviene anche per la teologia.

Il fatto che la scienza non abbia (ancora) dato risposte definitive al problema della creazione – dice sempre Odifreddi, - non deve certo essere considerato negativo: le certezze appartengono al regno dei cieli della religione mentre i dubbi al regno di questa terra della scienza. Forse questo sarà vero se Odifreddi si mette a parlare con i metafisici più ostinati, ma non è vero per i credenti in genere, perché come ha opportunamente ricordato Papa Francesco, anche nella fede deve permanere sempre un certo grado d’incertezza: «Se una persona dice di aver incontrato Dio con certezza totale e non è sfiorata da un margine di incertezza… se ha le risposte a tutte le domande, ecco che questa è la prova che Dio non è con lui… Le grandi guide del popolo di Dio, come Mosè, hanno sempre lasciato spazio al dubbio. Si deve lasciare spazio al Signore, non alle proprie certezze». I dubbi accompagnano sempre l’umanità, si parli di scienze o si parli di teologia.

L’unica cosa allora possibile per noi uomini è tentare di conoscere Dio a partire da Gesù, non certo l’inverso (come avviene quando si dice che Gesù è Dio: cfr. ancora l’articolo Gesù è Dio?): il che necessariamente significa delimitare quello che possiamo sapere su Dio a partire da quello che ci ha rivelato Gesù nella sua storia terrena, con la sua vita, con le sue azioni e con le sue parole. E non oltre.

Ricordo che, stando ai vangeli, Gesù non ha mai detto di essere Dio. Del resto, come mai Gesù pregava Dio (es. Mc 14, 36)? È ovvio che non si prega Dio se si pensa di essere Dio. E se Gesù ha detto al giovane: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo» (Mc 10, 17s.), è altrettanto ovvio che, se la «bontà» che il richiedente aveva attribuito a Gesù viene da questi rinviata e applicata solo a Dio, è logico pensare che Gesù non identificava sé stesso con Dio. Ma allora chi è Gesù?

Va ricordato che anche Giovanni Battista voleva sapere chi era Gesù: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11, 3). E la cosa che ancora oggi sorprende è che, nella sua risposta, Gesù non dice chi è, ma cosa fa. Vale a dire, ciò che identifica Gesù non è la natura della sua essenza, bensì ciò che fa; l’accadere, non l’essere metafisico. Marguerat dice che Gesù si defila davanti alle domande sulla sua identità; la questione non consiste nel sapere chi egli è, ma riconoscere nella sua parola la presenza di Dio. Il grande teologo Rudolf Bultmann aggiunge: Gesù non parla mai neanche delle proprietà di Dio, né esprime proposizioni dottrinali, ma dice solo cosa è Dio per l'uomo e come Egli tratta l'uomo, cioè di come Dio agisce. Gesù parla di Dio parlando solo dell'uomo. Nella stessa Bibbia, quando Yhwh rivela il suo nome (Es 6,2 ss), questa rivelazione, come ha già ben spiegato il grande biblista Gerhard von Rad (nel suo Teologia dell’Antico Testamento), fu per Israele un evento assai importante, però non fu una definizione dell’essere di Dio. Perché, come aggiunge lo stesso autore, «nulla esula tanto da questa etimologia del nome di Yhwh quanto una definizione dell’essenza divina, nel senso di definizione ontologica». Quindi, la pretesa metafisica di parlare delle proprietà di Dio, che trovandosi nell’ambito trascendente sono al di fuori della nostra portata, è irragionevole, perché nulla su questo punto ci è stato rivelato dalla Bibbia e neanche da Gesù. Se dobbiamo attenerci alla rivelazione di Dio in Gesù, che si limita all’accadere, non possiamo poi approfittare per estenderla, stiracchiarla e interpretarla a nostro piacimento finendo a discutere dell’essere.

La metafisica dell’essere – dice infatti sempre il prof. Castillo,- aspira in maniera fuorviante a conoscere il trascendente; ma è solo la storia dell’accadere radicata nella realtà dell’immanente (l’unica che è alla nostra portata, l’unica di cui possiamo parlare con cognizione di causa, l’unica utilizzata dalla Bibbia che usa un pensiero storico che si serve del verbo “accadere,” mai del verbo “essere), che ci fa capire qualcosa di Dio in Gesù. Ma non certo la sua natura. Se Dio si fece conoscere nella vita di un uomo, nella sua storia dalla nascita alla morte, nella sequenza storica dei suoi detti e delle sue azioni, questo vuol dire che il Dio trascendente non lo scopriamo né lo conosciamo nella metafisica dell’essere, bensì nella storia dell’accadere. La storia di Gesù non fu un trattato di metafisica, ma la storia di un uomo concreto, in carne e ossa. Per questi motivi non possiamo affermare che «Dio è» infinito, onnipotente, eterno, che in Dio ci sono tre persone, che la seconda persona ha sia natura umana che divina, ecc., perché questo non ci è stato rivelato da Gesù. Nei vangeli non si trovano queste rivelazioni, che sono elucubrazioni umane.

Anche quando affermiamo che il Dio trascendente, sconosciuto e inconoscibile, quello che per definizione non può stare alla portata della nostra ragione, si è fatto conoscere in quell’uomo singolare che fu Gesù, va chiarito che per spiegarci Dio, Gesù non ha preso come punto di partenza un’esperienza metafisica e neanche un’esperienza religiosa, bensì ha cominciato a insegnarci che dobbiamo intendere Dio a partire da un’esperienza umana, quella di un papà (abba) amabile, che dà affetto e sicurezza, che aiuta e incoraggia e si prodiga per i suoi figli. Inoltre, mai i vangeli presentano questo «Abba» dal punto di vista dell’autorità, come ha fatto invece in seguito la Chiesa. La rivelazione ci spiega ciò che accade quando e dove un simile Abba si fa presente. Il regno di Dio di cui parla Gesù si realizza quando, somigliando a questo Abba, cercando di imitarlo, ognuno si occupa concretamente del bene (morale) e del benessere (materiale) degli altri come fossero suoi fratelli, quando ognuno collabora nel prodigarsi, nel servire gli altri.

Ma questo regno si è poi visto da qualche parte su questa terra? Sì. Il mondo è sempre stato a macchia di leopardo. Quando gruppi di persone si sono date da fare, in quel periodo, in quel posto, il mondo è stato sicuramente migliore perché lì si è formata un’isola di amore e generosità (Tor C.). Lì si è fatto presente Dio, lì è arrivato il Regno di Dio.

Non solo: se qualcosa di chiaro ci ha lasciato Gesù, guardando agli eventi della sua vita, è che lui non trovò Dio nel tempio e nelle sue cerimonie, né sull’altare con i tanti sacrifici, né fra i sacerdoti con le loro dignità eccelse, né nella fedele osservanza delle norme e dei rituali di purità sacra. In nessuno di questi avvenimenti si è rivelato il Dio di Gesù. Basta infatti leggere i vangeli per rendersi conto che Gesù ha trovato Dio nella solitudine della sua preghiera appartata, ma soprattutto lo ha trovato in un modo di vivere che attrasse e sedusse gli ultimi di questo mondo, i poveri e gli ammalati, gli ignoranti e gli svantaggiati, i peccatori, le donne, la gente vista malissimo dalla religione, tutti quelli che l’osservanza religiosa di allora emarginava o escludeva, e ancora oggi tende facilmente a emarginare o escludere. Vivendo in quel modo Gesù ci ha spiegato chi è Dio e come è Dio (Castillo J.M.), ma ovviamente questo non porta a una conoscenza piena.

Per chi invece imposta la questione in termini già totalizzanti (sostenendo cioè che Gesù è Dio), la conseguenza è che gli sconosciuti ed impossibili da conoscere attributi divini, come ad esempio il potere infinito o la sapienza infinita, sono applicati tranquillamente a Gesù, per cui si è arrivati a dire che Gesù appena nato era già onnisciente, proprio perché era Dio. Stranamente però, quasi nessuno che vive nelle sue certezze dogmatiche ha avuto invece il coraggio di dire che Dio è anche così umano, così folle (1Cor 3, 18) così debole (1Cor 1, 25) e così sconcertante come lo è stato il Gesù umano (Castillo J.M.).

Il §5 della Dominus Iesus, documento della Congregazione Dottrina della Fede del 6.8.2000, afferma il carattere definitivo e soprattutto completo della rivelazione di Gesù Cristo; ma Gesù non ha mai sostenuto questo, e neanche nessun testo sacro cristiano ha mai affermato che Dio è ormai completamente conosciuto attraverso la rivelazione in Gesù Cristo. Se fosse vero quello che sostiene il magistero, l’uomo che vive nell’ambito dell’immanenza avrebbe una comprensione completa dell’ambito della trascendenza. Il che è impossibile.

Il Dio di Gesù, occorre ripeterlo, non ci è stato pienamente rivelato nei dogmi formulati con categorie metafisiche, ma ci è stato fatto parzialmente conoscere attraverso gli eventi vissuti da Gesù che si possono ascoltare e vedere. Ne consegue che quando dobbiamo dare una risposta sull’identità di Dio (e anche di Gesù), tale risposta non la possiamo dare mediante una formulazione dogmaticamente corretta, ma osservando e accogliendo realmente l’esperienza della storia di Gesù. E solo guardando a quella storia si può dire che Dio «si abbassò» a prendere la natura umana, non accontentandosi di diventare semplicemente «umano», ma diventando «servo». Ossia, Dio è sceso fino al più basso gradino della condizione umana. Il magistero ecclesiastico, per restare nell’ambito dell’alta speculazione filosofica, non prende in considerazione la realtà storica di quella che è stata la vita di Gesù, un uomo che non fece altro che mettersi al servizio degli altri, «schiavo di tutti» (Mc 10, 44-45); proprio quello che poi Gesù pretese dai suoi apostoli, a imitazione di quella che fu la propria vita. Allora è forse giunta l’ora che la cristologia metafisica debba cedere il passo a una cristologia storica (Moltmann J.). Ossia una cristologia che risponda storicamente a ciò che ha fatto e detto Gesù, e non solo a ciò che metafisicamente hanno detto i concili. Perché la metafisica ci fa fuggire dalla storia con l’ingannevole pretesa di portarci fino al cuore della realtà. Infatti la distinzione fra l’«essere assoluto» (metafisico) e l’«accadere» (storico), c’insegna che l’assoluto si colloca «al di là» del sensibile, per ciò stesso sta «al di là» di quello che accade. Il che è come dire che sta fuori dalla storia. Questo, a sua volta, significa che il pensiero che si incentra sull’«essere» (metafisica) comporta per ciò stesso una fuga autentica e radicale dall’accadere, dalla storia immanente (Castillo J.M.).

Certo, così non siamo nell’ambito dell’ontologia amata dai metafisici, ma in quello dell’epistemologia.

Detto con parole più semplici e meno teologiche, non ci riferiamo all’essere (alla natura) di Dio, ma a quello che noi possiamo conoscere su Dio, nella rivelazione che ci è stata fatta di Dio in Gesù. Ma quale mente umana normale può veramente pensare di comprendere l’essere di Dio? Fissandoci sull’accadere, la stessa vita di Gesù viene vista in un’ottica diversa, come una questione soggetta a innumerevoli dubbi e interpretazioni, mentre solo i contenuti pensati dai superbi cultori della metafisica si predicano ancora oggi come verità assolutamente incontestabili, eterne e indiscutibili, perché così la religione diventa «l’involucro che contiene una verità trascendente e assoluta, che esclude qualsiasi altra» (Barnavi E.).

La via dell’accadere è stata correttamente denominata teologia narrativa o storica, che coinvolge le persone (Luz U., Castillo J.M.); l’altra è la teologia dogmatica o metafisica (cfr. l’articolo I binari della Chiesa, al n. 428 di questo giornale, https://sites.google.com/site/numeriprecedenti/numeri-dal-26-al-68/199996---novembre-2017/numero-428---26-novembre-2017/i-binari-della-chiesa).

Questa seconda via è però pericolosa perché il discorso che ne viene fuori è che Dio l’Assoluto è colui che sta al di sopra di tutto e di tutti e, secondo le nostre categorie e i nostri valori culturali, l’Assoluto e l’Infinito vanno necessariamente collegati a ciò che nel nostro mondo sta più in alto, al più sublime. Nel nostro mondo immanente, ciò che viene collegato all’alto e al sublime sono sempre il potere, il rispetto, la gloria e l’onore. Perciò, seguendo questa via, la religione ha presto elaborato una «rappresentazione» di Dio partendo da parametri che noi consideriamo indispensabili per posizionarci a un alto livello, finendo per ipertrofizzarli e facendoli crescere fino a diventare prepotenza che domina e sottomette, il che porta a divisioni, sottomissione, esclusione: ma questo non è il Dio di Gesù (cfr. l’articolo Gesù serve a unire o dividere? al n. 458 di questo giornale, https://sites.google.com/site/numerigiugnoluglio2018/numero-458---24-giugno-2018/gesu-serve-a-unire-o-a-dividere).

Siffatta impostazione non ci si deve stupire più di tanto, visto che da secoli i vescovi si sentivano ripetere: «Giudica, o vescovo, con potestà come Dio» (Didascalia apostolorum, XII, 1). In realtà è insita nella natura umana la pretesa di essere importanti, di essere riveriti e famosi, di avere sempre ragione. E tutto questo si armonizza assai meglio con la fede in un Dio eccelso e potente che con la sequela di un Gesù umile e debole (Castillo J.M.). Invece la grandezza tra i seguaci di Gesù non si misura dal potere che si ha, dalla posizione che si occupa o dai titoli che si ostentano. Chi ambisce a queste cose nella chiesa di Gesù, non diventa grande ma insignificante. Gli manca lo stile fondamentale per essere discepolo del Cristo: servire! (Mc 10, 43-45). E Papa Francesco, nell’omelia del 20.9.2015 tenuta a L’Avana, ha citato don Tonino Bello: “Chi non vive per servire non serve per vivere”. Immaginate come tanti vescovi, abituati a quell’altro registro, possano amare questo papa che si richiama al servizio e non al potere.

Dario Culot