Giustizia e rito VI

Imago scripta, disegno di Rodafà Sosteno

"In effetti, firmando, diamo vita a qualcosa che è (1) assolutamente unico: la firma deve essere quella, posta in quel momento, in quella data; (2) di principio ripetibile: se cambiassi continuamente firma, non potrei firmare (...); (3) del tutto privato: nessuno può - senza la mia esplicita autorizzazione - firmare al posto mio, con la mia firma: al massimo può essere delegato da me a firmare con la sua; (4) essenzialmente pubblico: se mi creassi una firma che uso solo per me, mentre in pubblico ne uso un'altra, la firma vera sarebbe la seconda (...)" (M. Ferraris, Teoria della documentalità, Bompiani, Milano p. 337). In queste righe trapela con la massima vividezza che, quando parliamo di firma, ci troviamo innanzi ad una realtà sociale oltremodo aporetica. E' necessario innanzitutto un hic et nunc, cioè una precisa collocazione spazio-temporale, tanto precisa però da essere inafferrabile ed assimilabile all'evento. Anche nel caso della firma digitale, la cosiddetta marca temporale che individuerebbe un gesto puramente digitale e legato alla digitazione di un codice numerico, abbiamo in gioco l'impossibilità di un accadimento in sé irripetibile e la necessità di fissare e rendere riproducibile quel medesimo evento.

Vediamo così come l'unicità, l'hapax irriducibile, debba paradossalmente concordare con l'iterabilità del gesto: in qualsiasi pratica burocratica della nostra epoca, nonostante la supposta digitalizzazione dell'informazione e l'ideale del cosiddetto paper less, cioè della diminuizione dell'uso del supporto cartaceo, il soggetto è chiamato a ripetere l'evento assoluto della sua firma, più e più volte. Si tratta dunque di un evento, che deve essere ripetibile e privato, ma anche pubblico nella misura in cui ci rappresenta a livello sociale. In questo senso la firma è contemporaneamente "idiomatica", cioè individua un ίδιος, un assolutamente "proprio" che ha a che fare con la mia haecceitas, e "nomotetica", poiché implica un'azione pubblica che ha effetti di legge, nel senso che se io ho firmato ad esempio un assegno bancario, sono vincolato da tutta una serie di obbligazioni sociali conseguenti. Questa tensione talvolta viene meno allorquando un funzionario adibito alla certificazione di autenticità come il notaio, pretende l'apposizione di una firma leggibile, anche se questa non corrisponde alla traccia abitualmente utilizzata per identificarsi socialmente. In questo caso assistiamo ad un ulteriore duplicazione - l'abbiamo già evidenziato - cioè la presenza in carne ed ossa di un individuo viene garantita e testimoniata da un altro gesto scrittorio, cioè una traccia rassicura dell'altra, svuotando così di senso quest'ultima.

In effetti la firma integra perfettamente quella che è la dinamica del significate descritta da Lacan. Quando egli afferma enigmaticamente che il significante rappresenta il soggetto per un altro significante, in fondo sottolinea come il soggetto, per esistere socialmente, debba delegare la propria esistenza ad una traccia che lo rappresenti, ma poi questa medesima traccia finisce per rimandarne ad un'altra e un'altra ancora, in un processo assolutamente dissipatorio. La supposta unicità del soggetto diviene così impossibile nella stessa misura in cui egli, per esistere, deve essere alienato da una serie di tracce iterabili e mai bastanti a se stesse. Il soggetto non può pertanto che essere barrato, cioè as-soggettato, pena la propria inesistenza sociale: la necessità del ricorso al notaio diviene l'emblema del mio non esserci, della mia assoluta inconsistenza ontologica la quale tuttavia mi garantisce della mia esistenza sociale.

Il nesso tra ontologia e traccia o, ancora meglio, la necessità della tracciabilità, diviene evidente nell'equazione "Oggetto=atto iscritto", laddove però l'atto in se stesso sembra sfumare nell'itinerario indefinito delle tracce che si susseguono. La firma evidenzia un ulteriore livello finzionale, se così possiamo dire: in essa deve in qualche modo manifestarsi il soggetto, nonostante la sua condizione sottomessa, e questa manifestazione avviene paradossalmente grazie all'errore o allo scarto intrinseco alla firma. In altre parole quest'ultima diviene un type che rende riconoscibile e tracciabile socialmente l'individuo, ma nello stesso tempo deve mettere in gioco un'impasse, qualcosa che renda impossibile una categorizzazione o una tipizzazione. Se la mia esistenza è delegata ad una traccia ripetibile e irripetibile nello stesso tempo, oppure ad un'altra persona che testimonia della mia presenza e dei miei atti attraverso un'ulteriore firma, ecco che ci troviamo innanzi all'ulteriore paradosso di un'identità fondata sulla differenza: iterare altera, ma l'alterità corrobora l'identità, ossia il proprio opposto.

Si può ben notare come i cortocircuiti si moltiplichino e come, alla fine, la medesima firma non sia che un elemento rituale all'interno di un rito ben più vasto ed articolato in cui un non-sapere o una verità inattingibile, vengono finzionalmente definite e immunizzate. Se dal punto di vista filosofico la semplice quanto abissale domanda "chi sono?" o il motto delfico-socratico γνώθι σαυτόν non possono aver risposta, ecco che la ritualizzazione di questi spazi di incontrollabilità e nescienza li rende accessibili e in apparenza governabili. In special modo nell'ambito del rito giudiziario la firma assume un ruolo essenziale, definendo preliminarmente di chi si tratta in un determinato giudizio: se la verità processuale costituisce una costruzione condivisa di senso che nulla avrebbe a che fare con la supposta quanto irrealizzabile coincidenza di nome e cosa, il "chi" del quale si disputa e giudica viene invece supplito dal concatenamento delle firme, cioè da un significante che rappresenta il soggetto per un altro significante.

Questa necessità è palese in ambito procedurale allorquando la firma diviene necessaria nelle notifiche di un atto giudiziario. Se un tempo era necessario un "chi" ricevente attraverso la sua sottoscrizione, ora, per un'apparente semplificazione, è sufficiente la firma dell'ufficiale giudiziario emittente. Ma che cosa "testimonia" quest'ultimo? A livello ontologico che cosa ci sta dicendo? D'acchito, egli certificherebbe il suo essere in un determinato luogo, in un dato momento, con in mano l'atto da consegnare: ma chi certifica a sua volta che la firma è proprio sua, essendo invero la sua eventuale testimonianza verbale comunque oppugnabile? E se già la sua firma è alquanto labile a livello di sostegno ontologico, come abbiamo visto, in qual modo potrebbe allora determinare l'esistenza di colui che invero non si manifesta? Non è plausibile invece che il messo semplicemente ne certifichi l'assenza, la non-presenza o addirittura l'inesistenza?

Ritorniamo dunque a Lacan: lo slittamento del significante, come di fatto avviene in ogni atto signaturale (chiamiamolo così, con un anglismo che deriva però dal latino), ci spinge innanzi al baratro del non-senso e dell'inesistenza. Ciò che si certifica e si garantisce è alfine il non-essere, come se l'intero rituale giudiziario fosse ispirato da un'ansia nichilistica: diviene perciò necessario l'ancoraggio a qualcosa di solido, sebbene imposturale e forse illeggittimo, ancoraggio che Lacan chiama "significante-maestro". E' una vera e propria imposizione, un blocco imperativo che congela ad un tratto una determinata situazione evitando il rischio di un regressus ad infinitum. La firma certificante dell'ufficiale giudiziario sostituisce definitivamente quella del destinatario dell'atto, diviene cioè autosufficiente ed imperativa. Se la firma, nei suoi percorsi aporetici, poteva ancora lasciare spazi all'individuo per la sua irregolarità e irripetibilità, ecco che ora essa può essere semplicemente sostituita da un'altra firma apposta da un altro soggetto, la quale peraltro non necessita più di un ulteriore atto certificante.

"Non esiste qualcosa come una 'traccia in sé' o un 'in sé della traccia', poiché essa risulta tale solo in riferimento a una mente che la contempla. Ne segue che - come si è detto, ed esprimendosi in termini di ontologia negativa - l'essenza della traccia è di non averne una; o, in positivo, che un suo attributo ontologicamente rilevante è la funzione di rimando ad altro, ossia il suo valore segnico. (...) In altri termini, essere una traccia è una caratteristica relazionale di un'entità naturale" (ivi, pp. 252-253). La firma non può che rimandare ad un'altra firma, ma in ambito sociale ogni forma di discorso o di legame si fonda su un blocco del rimando, nel quale paradossalmente la traccia rimanda e significa se stessa. Se ricerchiamo alla base una qualche verità, questa non può essere che dimidiata, una semi-verità, in cui un significante non significa altro che se stesso, la propria consistenza materiale e il proprio esserci che però, per tale strano cortocircuito, funziona e può garantire un qualche senso.

Emiliano Bazzanella