I peccati secondo Gesù

Pietà cristiana - Giovan Battista Guidoni, 1615-1617, Casa Buonarroti (Firenze)/Galleria

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Alzi la mano chi si confessa dal prete secondo la lista dei peccati fatta da Gesù e non secondo i dieci comandamenti.

Anzi, alzi la mano chi sa che Gesù ha fatto una lista di peccati.

Anche se il magistero ufficiale continua imperterrito a dirci che il peccato offende Dio (n. 431 Catechismo), che nessuno è dispensato dall’osservare i dieci comandamenti perché commetterebbe peccato mortale (n. 2072 Catechismo), inesorabili, i vangeli ci dimostrano invece che Gesù presenta il peccato non in relazione a Dio, ma sempre e solo in rapporto agli altri.

Di più: i quattro vangeli, nel presentare la vita pubblica di Gesù, mettono in evidenza che, una volta o l’altra per motivi diversi, i suoi comportamenti – per quanto consistessero in guarigioni di tante persone - creavano per lo più scandalo fra le persone religiose, perché erano atti d’insubordinazione religiosa, violazioni della legge divina e quindi (stando alla religione ufficiale) offese a Dio. Le persone ossequienti alle regole religiose vedevano Gesù come un pervicace peccatore.

Per convincerci di questa che può sembrare ad alcuni una idea balzana andiamo, come sempre, a leggere i vangeli.

(1) Secondo la spiegazione ufficiale, il ricco insoddisfatto è invitato a seguire Gesù nell’obbedienza del discepolo e nell’osservanza dei comandamenti (n. 2053 Catechismo). Si è visto nell’articolo di questo mese Gesù non chiede di amare Dio (https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/numero-483---16-dicembre-2018-1/numero-483---16-dicembre-2018) che così non è. Va invece ribadito che, elencando i comandamenti, Gesù salta completamente la prima delle due tavole, quella che riguarda i rapporti degli uomini con Dio.

(2) Quando i farisei e gli scribi, scesi addirittura da Gerusalemme (cioè attualizzando: dalla capitale religiosa di allora si scomoda il Sant’Uffizio di allora per venire a controllare se l’insegnamento di Gesù è ortodosso o meno), contestano a Gesù che lui e i suoi discepoli non rispettano la tradizione religiosa, perché non adempiono al rito prescritto delle abluzioni prima di mangiare e così disonorano Dio (cioè offendono Dio), Gesù risponde che la Bibbia non è parola di Dio (Mt 15,1-14 ; Mc 7,1-16), ma degli uomini! Superfluo ricordare che, in allora, dire apertamente in pubblico che l’autore della Bibbia non era Dio comportava la pena di morte. Poi Gesù, avendo avuto cura di chiamare intorno a sé tutta la folla (cioè più gente possibile), stila una sua lista di peccati, non prima di aver sbattuto in faccia al magistero infallibile di allora l’idea (eretica per quelle pie orecchie religiose) che «non è quello che ti entra che ti rende impuro, ma quello che ti esce» (Mt 15, 11; Mc 7, 15). Mentre per i farisei il male (il peccato, l’impurità) sono esterni all’uomo, per cui servono continui riti di purificazione, Gesù purifica il concetto di peccato riportandolo al cuore dell’uomo e non alla trasgressione esterna di una legge divina.

A questo punto credo che molti di voi resteranno sorpresi dalla notizia che Gesù stesso ha concluso questo suo discorso facendo un elenco di peccati, notevolmente diverso dai 10 comandamenti. Chissà perché, quest'elenco non ci è mai stato insegnato. Anzi, a questo punto c’è da chiedersi: come mai oggi ci si confessa ancora in base ai 10 comandamenti, magari in base ai precetti e ai vizi capitali, ma non in base all’elenco stilato da Gesù? Come mai il n.344 del Catechismo di Pio X, ed il n.2076 del Catechismo attuale affermano che Gesù ha confermato la validità perenne di tutti i dieci comandamenti (dove? come? quando?), senza fare alcun accenno all’innovazione portata da Gesù? Non lo so. Chiedetelo all’autorità ecclesiastica.

Ecco l’elenco di quello che esce dal cuore dell’uomo rendendolo impuro (Mc 7, 21-22): 1) prostituzioni, 2) furti, 3) omicidi, 4) adulteri, 5) cupidigia, 6) malvagità, 7) frode, 8) lascivia, 9) invidia, 10) calunnia, 11) superbia e 12) stoltezza.

Va innanzitutto sottolineato che in questo elenco di dodici atteggiamenti che costituiscono peccato, Gesù omette di nuovo volontariamente e completamente ogni riferimento alla prima delle due tavole dei comandamenti: l’impurità (il peccato) nasce solo dalla cattiva relazione con gli altri uomini, mentre nessun atteggiamento impuro riguarda Dio, il culto o la liturgia.

Poi, si deve notare che si parla di prostituzioni al plurale e non al singolare: non è perciò l’attività sessuale, ma il venir meno ai propri principi, il vendersi per interesse, per amore di denaro o di potere. Una forma di prostituzione è anche l’idolatria, sostituzione di Dio con altri idoli (Os 4, 12-18; Ger 13, 27; Ez 23, 27-29). Spesso, proprio coloro che accusano i credenti in Dio di essere creduloni, non si accorgono di credere in altri idoli: magari all’idolo della propria persona, o al dio-denaro, o al dio-potere. Spesso, anche coloro che a parole si professano credenti, dimostrano con i fatti di credere di più in questi altri idoli.

Cupidigia è la voglia di accumulare beni per sé. Malvagità, più che cattiveria, indica l’avarizia, il pensare solo a sé; l’avaro ha sempre l’occhio cattivo, perché vede ogni persona che gli si avvicina come un attentato alle proprie fortune.

Ricordo che per i rabbini, la frode (cioè il danneggiamento intenzionale del proprio fratello) non era solo quella commerciale (Lv 2, 14), perché si poteva ferire il proprio fratello anche con le parole (Lv 25, 17). In entrambi i casi, si evidenziava la figura di un soggetto che opprimeva un altro in base alla propria forza. Solo che davanti a una frode di denaro (onaah mamon) si poteva ricorrere al giudice, mentre davanti a un caso in cui sono le parole a causare sofferenza (onaah devarim) non c’era restituzione possibile e l’unica difesa del danneggiato è sperare che l’altro abbia timore di Dio (appunto Lv 25, 17), perché solo Dio conosce le intenzioni vere dell’uomo (Fontana R.).

“Lascivia” è disgiungere il sesso dall’amore, usandolo per il proprio appagamento animalesco.

La calunnia (sul punto cfr. Theological Dictionary of the New Testament, a cura di Kittel) deriva dal greco blasphêmía, e a sua volta deriva da bláptein, "ingiuriare", e da phếmê o pháma (dialetto dorico), “reputazione”: dunque il significato letterale originario sta per offendere la reputazione, diffamare, calunniare. Il significato di bestemmia, di espressione irriverente contro la maestà divina, è un significato aggiunto nel tempo. Sarà sicuramente vero che il termine blasfemia è correlato nel Nuovo Testamento alla violazione della potenza e dalla maestà di Dio, ma spesso siamo sul filo dell’ambiguità: ad esempio lo stesso Paolo viene definito blasfemo quando si presentava come persecutore di cristiani (1Tm 1, 13). In altri passi del Nuovo Testamento il termine sembra usato più nel significato di calunnia, ingiuria.

Ad esempio, in 1Pt 4,4, è evidente che il termine blasphêmùntes è inteso nel senso di “calunnia”, visto che si chiarisce il motivo per cui i pagani sparlano dei cristiani. In Gd 8 la parola blasphêmùsin, in Gd 9 la parola blasphêmía, e in Gd 10 la parola blasphêmùsin sono rispettivamente tradotte con “insultano”, “offesa” e “insultano”. Negli Atti degli apostoli (At 18, 6) si legge che Paolo predicava a Gerusalemme, ma la gente si opponeva bestemmiando: qui il verbo blasphemoùnton lascia intendere che la folla offendeva o ingiuriava Paolo; inimmaginabile pensare che, sentendo la predica di Paolo, gli ebrei bestemmiassero il proprio Dio, visto che «Chi bestemmia il nome del Signore dovrà essere messo a morte: tutta la comunità lo dovrà lapidare» (Lv 24, 16). Al più gli ebrei, contestando Paolo, sono blasfemi perché attaccano la proclamazione della messianicità di Cristo che Paolo cerca di far passare. Ora Paolo ritiene di aver ricevuto da Gesù un mandato chiaro: annunciare la Buona Novella ai pagani. Ma lui che fa? Prima di andare dai pagani andava sistematicamente a predicare nelle sinagoghe degli ebrei, e lì otteneva assai scarsi successi e più spesso botte e rischio di farsi ammazzare, tanto che a un certo momento si lamenta: “dovunque vado mi aspettano persecuzioni e guai!” (1Ts 2, 2; 2Cor 1, 8; 4, 8; 6, 5; 11, 24). Ma chi gli ha detto di andare a predicare agli ebrei? In ogni caso, se gli ascoltatori passano a vie di fatto nei confronti di Paolo, è lui l’oggetto primario dell’attacco e quindi dell’offesa per quello che sta predicando, non Dio.

Per onestà intellettuale occorre dire che se consultate delle vecchie traduzioni del Vangelo di Matteo (Mt 15, 19) la parola greca blasfemia, a differenza che in Marco dove è stata tradotta sempre e solo con calunnia, è stata a lungo tradotta con bestemmia, il che farebbe pensare effettivamente a un peccato contro Dio. Per quel che ho potuto cercare e trovare su questo punto specifico, non c’è alcuna spiegazione logica che giustifichi la diversità delle due diverse traduzioni dell'identica parola (ad es., né in Balz H. e Schneider G., Dizionario esegetico del Nuovo testamento, né nel fondamentale Kittel).

La mia conoscenza del greco non è sufficiente per spiegare il perché di queste vecchie differenti traduzioni, né sono in grado di dare una spiegazione razionale sul perché lo stesso termine era stato tradotto o tramandato in due modi così diversi: sta di fatto che ormai anche nell’ultima versione ufficiale della Cei e nella Bibbia di Gerusalemme del 2009, sia in Marco che in Matteo il termine blasfemia viene tradotto solo con la parola “calunnia”.

Quello che mi sento di poter dire è che il termine “calunnia” (quindi peccato contro l’uomo e non contro Dio) mi sembra più logico in entrambi i casi, giacché un eventuale peccato rivolto verso Dio (bestemmia) sarebbe dovuto finire al primo posto, e non in mezzo agli altri, esattamente come i peccati contro Dio sono posizionati all’inizio e non nel mezzo degli altri 10 comandamenti.

Inoltre, che l’esatta traduzione del termine blasfemia, anche in Matteo, sia calunnia e non bestemmia, trova - a mio avviso – riscontro logico anche in un altro passo dello stesso Matteo, precisamente nel racconto del giudizio finale dei popoli pagani, dove Gesù non chiederà conto se hanno bestemmiato il nome di Dio o meno, se hanno creduto o no in Dio, se hanno pregato o meno, ma chiederà se hanno risposto ai bisogni elementari degli uomini per la loro sussistenza: avevo fame, mi avete dato da mangiare; avevo sete mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete ospitato, eccetera (Mt 25, 35). Anche in Matteo, dunque, si insiste sul fatto che quello che determina la salvezza o la redenzione dell’uomo non è il rapporto che si ha con Dio, ma sempre e solo quello che si ha con gli altri.

In conclusione, l’unico metro su cui tutti, credenti e non credenti, verranno giudicati, si riduce al minimo: il bene fatto al prossimo; e fatto non per ottenere il premio, ma il bene fatto all’uomo per l’uomo: l’amore per l’amore stesso (Arias J.). E il fatto di aver pregato, di aver fatto digiuni, di aver fatto visita a Gesù e ai suoi santi in chiesa tutti i giorni, di aver benedetto il suo nome senza mai bestemmiarlo, di essersi imposti piccole torture come prezzo espiativo dei propri peccati, di aver fatto una caterva di comunioni, di aver proclamato ai quattro venti il vangelo, magari anche in momenti inopportuni, l’aver assiduamente partecipato ai santi sacramenti, cosa che avrebbe dovuto farci schizzare a un livello soprannaturale? Niente. Non contano assolutamente niente. Non c’è allora differenza finale fra ateo e credente praticante, perché l’ateo, al pari del credente, avrà sempre incontrato in giro per il mondo qualcuno più povero, più bisognoso, più solo. Ci si riallaccia sempre e solo alla parabola del buon samaritano (cfr. articolo Molto religiosi, praticamente atei, al n. 444 di questo giornale, https://sites.google.com/site/numeriarchiviati2/numeri-dal-26-al-68/1999991---marzo-2018/numero-444---18-marzo-2018/molto-religiosi-praticamente-atei).

Curioso, infine, come nessuno abbia mai sentito parlare in chiesa del peccato di stoltezza, tant’è che non si trova il termine neanche nell’indice del Catechismo. Perciò le persone pie e religiose non credono che la stoltezza sia peccato, visto che la Chiesa non l’ha mai inserita nella lista dei peccati. Ma se Gesù qualifica la stoltezza come peccato, di cosa si tratta? Lo stolto nel vangelo è colui che vive pensando soltanto a sé stesso, accumulando per sé stesso senza pensare di condividere con gli altri (Maggi A.). C’è nel vangelo di Luca, la parabola del ricco che accumula, accumula e il Signore dice: “oh stolto, stanotte stessa morirai e tutto quello che hai accumulato, a chi andrà?” (Lc 12, 20). Il vangelo mette in rilievo che la ricchezza promette ciò che poi non riesce a mantenere. Anche Giacomo (Gc 4, 14 e , 5, 1ss.) si scaglia contro la falsa fiducia in sé stessi e la presunzione di poter disporre del proprio futuro a proprio piacimento. Anche nella parabola del ricco angosciato quel giovane cerca una via commerciale per poter arrivare alla vita eterna, mentre Gesù chiarisce che in essa si entra non per merito o per bravura, ma accettando l’offerta gratuita di Dio (Fuček I, I dieci comandamenti, in Catechismo della Chiesa Cattolica). Ma la parabola del ricco angosciato (Lc 18, 18-25), messa a confronto con l’episodio di Zaccheo (Lc 19, 1-20) ci dice anche qualcosa di più: alle parole di Gesù, il giovane ricco divenne assai triste perché era molto ricco. Ciò significa che questo giovane era interessato all’aldilà, proiettava la sua salvezza in un mondo futuro, mentre quello attuale gli andava bene così com’era. Zaccheo, ricco ladro pubblicano, invece ha rotto con l’ingiustizia, ed ha sperimentato la salvezza subito in questo mondo. La salvezza per Gesù non è garantirsi un posto nell’aldilà (anche il giovane ricco l’aveva già assicurato con l’osservanza dei comandamenti), ma è riuscire a liberarsi da tutto quello che impedisce in questa vita di essere pienamente liberi per collaborare con il Cristo alla realizzazione del Regno di Dio (Maggi A.). Quindi lo stolto è la persona che ha tanto, o anche tutto, ma non è nessuno; ha accumulato tanto, ma in realtà non è niente. Allora Gesù mette il peccato di stoltezza all’ultimo posto non perché sia meno importante, ma al contrario perché l’ultimo (come il primo) si ricordano meglio. La stoltezza non assume dunque il significato nostro che fa pensare al cretino. Quando l’uomo non vive più da stolto, cioè pensando solo a sé stesso, ma si occupa degli altri, si converte.

A questo punto mi sembra di poter veramente ribadire che nell’elenco dei peccati dei Vangeli di Marco e Matteo, non c’è traccia di comportamenti peccaminosi nei confronti di Dio, ma siamo di fronte sempre e solo ad atteggiamenti volontari finalizzati al far del male a una persona: per Gesù non è peccato non partecipare al culto; non è peccato non fare digiuni; non è neanche peccato non credere e non amare Dio. Incredibile? Eppure in queste liste fatta da Gesù, proprio nessuno degli atteggiamenti si riferisce a un rapporto diretto con Dio, a conferma che il peccato non dipende dal rapporto che uno ha con Dio. Ma non dipende neanche dall’aver osservato o no una legge divina, posto che in tutto il suo Vangelo Marco ignora completamente il termine “legge”, proprio perché con Gesù non si deve obbedire a nessuna legge, ma assomigliare al Padre.

Se poi si guarda alla parabola del buon samaritano, oppure all’episodio del nato cieco (Cap. 9 di Giovanni), con particolar riferimento allo scontro dialettico fra Gesù e il magistero che aspira ad essere guida dei ciechi, appare evidente che, per Gesù, il peccato è andare contro il bene dell’uomo, e non contro la legge di Dio (Maggi A.). Dunque Dio resta escluso dalla sfera del peccato. Gesù riconosce che esistono i peccati, ma essi consistono solo in quei comportamenti che tolgono, limitano o danneggiano la vita altrui o la propria vita. Quindi, secondo Gesù, il rapporto con Dio resta circoscritto alla relazione che si ha con gli altri uomini. Gesù non sta affatto negando l’esistenza o l’importanza del peccato, ma la riconduce nel suo giusto ambito: il peccato non è la trasgressione di un precetto, o di una regola, o di un culto; non è l’omissione di un sacrificio, ma è togliere la vita agli altri, sì che – per dirla come il Concilio – il peccato impedisce di conseguire anche la propria pienezza di vita. E non va dimenticato che il Concilio Vaticano ha ripreso questo specifico significato di peccato, anche se in seguito esso è stato nuovamente soffocato.

(3) Quando Gesù incontra al pozzo la samaritana pluriadultera e peccatrice (Gv 4, 10) non la minaccia di tremendi castighi per i suoi peccati, non la minaccia se non si pente e se non ritorna in carreggiata, ma le offre un dono: la buona Novella di Dio che ama tutti, senza distinguere tra chi lo merita e no. Gesù non riconosce le divisioni che esistono tra samaritani e giudei, dovute a differenze dottrinali religiose. Pensate a come oggi si comportano fra di loro i cattolici, gli ortodossi e i protestanti: ricordate, ad esempio, la furiosa rissa alla Basilica del Santo Sepolcro di dieci anni fa tra ortodossi e cattolici, ripresa in mondovisione? Non era la prima volta che succedeva e purtroppo questo comportamento parla concretamente al mondo intero smentendo tutte le astratte parole di pace, amore e fratellanza che escono poi dalle bocche di quei preti, che a parole proclamano la religione cristiana come l’unica e vera religione. Gesù, invece, non distingue tra un uomo e un altro, ma si rivolge anche a quelli che – secondo la religione – erano esclusi dal rapporto con Dio; a tutti offre acqua viva, anche agli impuri peccatori che, stando alla religione, erano e sono esclusi da Dio. Quest’idea di acqua viva si riallaccia al profeta Geremia (Ger 2, 13) dove il Signore così si lamenta: “due malvagità ha commesso il popolo mio. Ha abbandonato me, sorgente d’acqua viva per scavarsi cisterne, cisterne screpolate che non contengono l’acqua”. Quest’acqua viva, dono gratuito di Dio, cos’è? È la buona notizia, la quale ci dice che l’amore di Dio non distingue tra chi lo merita e no. Dio non ama gli uomini secondo i loro meriti, e quindi non ama i peccatori meno dei santi e puri.

(4) Quando Gesù, nel sacro Tempio di Gerusalemme, parla del peccato non rimprovera i trasgressori della legge, come sarebbe più ovvio, ma rimprovera solo le persone religiose; rimprovera i sacerdoti, gli scribi e farisei, gli osservanti ortodossi di ogni prescrizione legale: contesta alla gerarchia ecclesiastica il peccato proprio dei responsabili di un sistema di potere che impedisce al popolo di scorgere il volto del Padre (Gv 8, 21-59) (Maggi A.). Quando si rivolge all’infermo da lui guarito alla piscina di Bethesda e lo incontra di nuovo nel Tempio, l’invita a non peccare più. Lo stesso nella guarigione del cieco del villaggio di Betsaida (Mc 8, 22-26): il peccato è tornare a sottomettersi all’insegnamento del magistero, che pretende di parlare in nome di Dio (vedi sul punto: Il peccato non è violazione della legge divina, al n. 471 di questo giornale, https://sites.google.com/site/agostosettembre2018rodafa/numero-471---23-settembre-2018/il-peccato-non-e-violazione-della-legge-divina).

Se una cosa risulta evidente dai vangeli, è che Gesù volle smascherare l’enorme contraddizione della religione e dei suoi capi i quali sempre anteponevano le pratiche, le osservanze e le obbedienze della religione alla vita, alla dignità e alla felicità degli esseri umani. Quello che ai dirigenti veramente importava non era assicurare l’onore e l’obbedienza a Dio, bensì l’onore e l’obbedienza ad essi stessi. Anche se risulta imbarazzante o perfino doloroso, dai vangeli emerge chiaramente come Gesù comprese perfettamente che la religione può essere e suole essere una minaccia, un pericolo molto serio, per la vita e la felicità degli esseri umani. Esattamente per questo Gesù non solo curò tanti ammalati, ma in più fece questo in maniera provocatoria, quando era proibito dalla religione e violando non poche norme dei professionisti della religione (Castillo J.M.).

(5) Sempre in base ai vangeli, risulta chiaro che Dio non tollera che ci possano essere persone che per motivi religiosi possano sentirsi separate da Lui. Ciò risulta dalla parabola del lebbroso (Mc 1, 40-45), oppure da quella del paralitico calato dall’alto (Mc 2, 3). Si ricorda che, per la religione, ogni malattia era ritenuta conseguenza di un peccato, e quindi punita da Dio (Ravasi G.). Ma si pensi anche a come Gesù chiamò a sé il pubblicano peccatore, uno degli esclusi dalla salvezza di Israele, perché volontariamente viveva nel peccato rubando (Mc 2, 14). Gesù vede Levi seduto al banco delle imposte e gli dice esattamente quello che aveva detto ai primi quattro che aveva incontrato (Mc 1, 16): “segui me”; Levi si alza, lo segue immediatamente e per prima cosa Gesù lo porta a pranzo, non a confessarsi. Si pensi ancora alla parabola della zizzania e del grano buono (Mt 13, 24): la tentazione di togliere la zizzania per formare una comunità di veri cattolici duri e puri era ed è sempre presente nella Chiesa: per coloro che si sentono già eletti, i peccatori non possono avvicinarsi a Dio se prima non si pentono, non fanno penitenza, e non rientrano sottomessi nella Chiesa, e anche san Paolo era dell’idea che le cattive compagnie corrompono i buoni (1Cor 15, 33). Del resto la Bibbia metteva in bocca a Dio il dovere di uccidere il colpevole “per togliere il male di mezzo a te” (Dt 24, 7). Invece Gesù non è d’accordo, perché non è venuto a separare, ma a infondere vita a tutti quanti (vedi articolo Gesù serve a unire o dividere? al n. 458 di questo giornale, https://sites.google.com/site/numerigiugnoluglio2018/numero-458---24-giugno-2018/gesu-serve-a-unire-o-a-dividere).

Risulta allora chiaro dal vangelo che l’invito alla pienezza di vita da parte di Gesù è rivolto a tutti senza se e senza ma, senza distinguere fra puri e impuri o, il che è lo stesso, senza distinguere fra persone pie e persone peccatrici. Ne consegue – come sottolineato da più autori (Buccheri L., Maggi A.),- che:

a) all’opposto di quello che ancora oggi c’insegna il magistero (‘Signore, non son degno…’, come si dice prima della comunione eucaristica), non bisogna essere degni per accogliere il Signore, ma è l’accoglienza del Signore che purifica.

b) all’opposto di quello che ancora oggi dice il magistero, quando Gesù incontra il peccatore non lo aggredisce con ira, non lo umilia mettendolo di fronte alle sue colpe, non gli presenta il conto come un giudice minaccioso, non gl’impone confessarsi e di chiedere perdono a Dio, non gli chiede previa penitenza, ma lo mette di fronte alla sua misericordia. Basta ricordare la prostituta che viene mandata in pace senza nemmeno chiederle prima di pentirsi e di cambiare almeno mestiere (Lc 7, 36-50) (cfr. l’articolo Extra ecclesiam nulla salus. O anche no, al n. 475 di questo giornale, https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/numero-475---21-ottobre-2018/extra-ecclesiam-nulla-salus-o-anche-no), o la parabola del figliol prodigo (Lc 15, 11) (cfr. gli articoli ai nn. 458 e 468 di questo giornale, https://sites.google.com/site/numerigiugnoluglio2018/numero-458---24-giugno-2018/gesu-serve-a-unire-o-a-dividere; https://sites.google.com/site/agostosettembre2018rodafa/numero-468---2-settembre-2018/ma-come-facciamo-a-sapere-di-essere-perdonati).

Mi sembra perciò sufficientemente documentato che, per Gesù, il peccato non è tanto trasgredire a questo o a quel comandamento o precetto divino, ma è rifiutare di accogliere l'offerta di vita per portarla poi con impegno al suo compimento; o, come traspare dalla parabola del figliol prodigo, il peccato è allontanarsi dall’amore del Padre. Non per niente Gesù aveva affermato di essere venuto per coloro che vivono lontani da Dio in modo da avvicinarli a Dio (Mt 9, 13), e la nuova situazione diventa effettiva nell’amore, che è l’esatto opposto di amartìa (Theological Dictionary of the New Testament, a cura di Kittel). Ha anche ben detto il teologo Castillo che, nella misura in cui la religione è la forza che disumanizza gli esseri umani mantenendoli in uno stato di coscienza pulita e perfino nella convinzione che è così che si deve vivere e agire, nella stessa misura la vera salvezza cristiana è la salvezza dalla disumanizzazione che produce il peccato. In definitiva, tutto consiste nel rendersi conto che il peccato non è né una «macchia», né una «colpa», né un’«offesa» a Dio. Peccato è tutto ciò che fa male a qualcuno, sia alla propria persona, sia pure all’altro o agli altri. Stabilito questo, Gesù ci salva dal peccato salvandoci dalla religione.

Dario Culot