Vangelo e liberazione: “Non sono che un uomo”, disse Virgilio Giotti

Virgilio Giotti - foto tratta da commons.wikimedia.org

Forse qualcuna, qualcuno, avrebbe desiderato sussurrare ancora al Nazareno: «Vorrei parole diverse sull’amore. Vorrei parole nuove, mai udite prima, su un amore talmente intenso da fare paura».

Eppure le tracce sono ormai di un corpo risorto, il volto impossibile da mettere a fuoco e definire: “il Cristico”, direbbe Panikkar. Una dimensione del tutto sconvolgente perché priva di supporto esperienziale se, tuttavia, con risurrezione si intenda un ritorno dal mondo dei morti. Perché è tutt’altra storia qualora risurrezione significhi, invece, potenziamento di vita, anzi di amore. Superamento dei limiti, oltrepassamento di confini ritenuti inviolabili. Andare anche al di là del bene e del male, senza paura – per dire – di Nietzsche e dei suoi due soci a lui accomunati quali maestri del sospetto – Freud e Marx -, di cui, con riferimento a Karl, ieri son ricorsi i 200 anni dalla nascita.

La risurrezione fa saltare tutti i codici. Sempre alla condizione che risorgere non equivalga, però, a tornare in vita.

Questa vita, che abbiamo nelle mani, che ci ripete ogni giorno il nostro corpo, è stupenda, straordinaria, bellissima, unica. Ma questa vita è anche fragile – “se si conta, non sono poi neanche tanti giorni”, mi pare fosse la battuta del caporale in Mediterraneo di Salvatores -. C’è un di più che preme, che bussa, che spinge da tutte le parti.

Uno dei passaggi più discussi dell’intervento di Letizia Tomassone lo scorso sabato a Trieste è stato il suo riflettere intorno alla fluidità dell’amore, alle sue narrazioni multiple e variegate, alle sue fini ed ai suoi nuovi inizi, persino al suo possibile dipanarsi in parallelo.

Qualcuno ha avvertito che idee e convinzioni, costruite da sempre - per comune educazione e tradizione culturale - come chiare e distinte, rischiano di divenire, con simile riflessione, molto più sfumate, persino incerte. Ma incertezza e paura possono lasciare spazio ad un incremento di gioia, invece che all’affacciarsi di un – come chiamarlo? – “terrore etico”.

Il versetto 26 del capitolo 10 degli Atti degli Apostoli nella seconda lettura della celebrazione eucaristica secondo la liturgia romana di questa domenica provoca non minor sbalordimento.

Esclama Pietro davanti al centurione Cornelio che gli si prostra ai piedi: “Anch’io sono un uomo”. In altre traduzioni: “Non sono che un uomo anch’io”, oppure “Anch’io sono un uomo come te”, ricorrendo, con tale aggiunta di congiunzione e pronome, ad altra lezione dei manoscritti, di risultato ermeneutico assai efficace per la nostra stessa comprensione.

“Surge, et ego ipse homo sum”.

Non essere altro che un uomo non è semplice constatazione biologica o una sorta di rassegnazione antropologica.

Essere un uomo e basta è farla finita con le impalcature religiose – anche assai laicamente rivestite – che guardano con scrupolosa ossessione alle mappe di costruzione devota per non deviare, per non ritrovarsi con risultati traballanti e insicuri, pericolosi.

Non essere altro che un uomo, una donna, è liturgia della vita. Anzi, di nuovo: liturgia dell’amore.

Scrive proprio Raimon Panikkar, nei suoi diari, appena pubblicati – in frammenti – da Jaca Book, a cura di Milena Carrara Pavan: «e se domani non mi sveglierò dite che ho amato. Amen» (in R. Panikkar, L’acqua della goccia. Frammenti dai Diari, Jaca Book 2018, p. 245).

Dite che ho amato, dite che non ero che un uomo.

Ma ho amato come, in qualità di cosa? Di padre, di marito, di prete, di amante, di fratello, di parente, di poeta? Ho amato e basta. Cade ogni distinzione.

Dallo scorso fine settimana la Casa di Rodafà è aperta – ed ha avuto il piacere di aprirsi alla sua prima ospite -.

Di Virgilio Giotti, che è presenza del nostro abitare in Via La Marmora 34 a Trieste – l’indirizzo della Casa di Rodafà -, esiste il componimento intitolato proprio La casa, all’interno della sua celebre raccolta di versi Colori.

Scelgo, tuttavia, per assonanze stagionali e perché mi pare espliciti meglio il tema che mi sta a cuore, il suo Luna piena:

La luna bianca, tonda,

in mezo al ziel de màgio,

la ’lùmina el careto

d’i gelati c’un ràgio

longo traverso el verde,

e i coverci de lata

la imbrilanta. Una tromba

canta la ritirata.

Pal vial fiorido, nel

mondo pacificà,

spassègia, in ’sto ciaror

bel, la felizità.

Il passeggio – spasseggio – della felicità nel viale fiorito (sarebbe interessante cercare e scoprire di quale viale triestino si tratti, dato che il viale dei gelatai per eccellenza, il Viale XX Settembre, non pare oggi così avvolto da primaverili fioriture, ma le sorprese a Trieste non sono mai finite) è segno di quell’oltre, da una parte, ma anche di quell’indistinto amore, dall’altra. Perché la felicità è per definizione indefinibile.

Liturgia del quotidiano giottiana.

Non sono che un uomo, che si lascia inebriare dagli incanti di maggio, di un carretto che porta i gelati. Da un raggio di traverso della luna piena su un coperchio di latta.

La felicità non sta nella tassonomia, nella tensione a definire e ordinare, e incasellare, e identificare, ma nel folle abbandono alla passione d’amore, quale che sia, e come che sia.

Perché non sono che un uomo.

Ci rivediamo, tra due settimane, a Trieste, con il Direttore responsabile di Adista, Ludovica Eugenio. Venite in tanti. Andremo per carretti e gelati.

Buona domenica.

Stefano Sodaro