Il messenger di Lutero

Spiritualità della chat, disegno di Rodafà Sosteno

Stava pressoché sempre incollato al video del suo smartphone.

Aveva miriadi – nuvole – di precettori, insegnanti, genitori, genitori degli amici, genitori degli amici degli amici, insegnanti dei genitori, psicologi, matematici, maestri di ginnastica, tennisti, scrittori, politici, opinionisti, preti, suore, barbieri, bancari, romanzieri, chierichetti adulti, cuochi, medici e infermieri, che non potevano fare altro che condannare sì insana mania di stare a digitare su una tastiera tutto il giorno.

Di mattina presto.

Di mattina non più presto.

A mezzogiorno.

Di pomeriggio.

Alla sera.

Di notte.

Tutti sapevano – o, meglio, pensavano di sapere - che chattava.

Futilità assoluta.

Nessuno poteva approvare la sua condotta. Nessuno.

Finché un giorno non capitò in uno strano posto.

Sembrava un tempio, ma non era propriamente una chiesa. O forse sì, ma assai strana.

Da una parte c’era un monaco ortodosso, dalla fluente, interminabile barba bianca, che sembrava immobile davanti ad un’icona illuminata da una lampada ad olio.

Stava incollato di fronte all’immagine dipinta sul legno.

Dall’altra un pastore protestante – lo si riconosceva per la toga con le due facciole bianche – fermo davanti ad un leggio con una Bibbia sopra.

Il suo smartphone emise un “tin” acuto, come un colpetto secco dato ad una campana tibetana.

La chat proseguiva.

I due devoti astanti però, proprio a quel suono, si alzarono dalle loro posizioni di intensa meditazione ed iniziarono ad emettere un suono muto, solenne, grave e dolcissimo.

“Tin”, ancora.

Qualcuno rispondeva sullo smartphone ai suoi messaggi, era sempre la chat.

A quel secondo suono i due si voltarono verso l’ospite appena entrato e dissero soltanto: «Siamo pronti».

Precisò il monaco: «Tu stai davanti al video del tuo telefonino. Io davanti all’icona. E non smetto mai, ci morirei. Per me non c’è differenza.»

Gli fece eco immediato il pastore: «Tu parli tutto il tempo con qualcuno. Io con la Parola. Ho persino consumato il libro a forza di passare con una mano sopra i fogli. Perché devo palparli, sentirli, altrimenti non riesco ad amarli. E tu allo stesso modo tocchi lo smartphone.»

Fu il momento per lui di dir qualcosa, ma sembrava non riuscisse a mettere insieme una frase di senso compiuto. Riuscì appena a pronunciare: «È lei, soltanto lei, Grazia. Mi parla, le rispondo. La amo.»

“Tin”.

Digitò il testo del nuovo messaggio, lo digitò lì, dentro quella specie di tempio, ma volle declamare ad alta voce ogni singola parola: «Con-te, Grazia, starei-almeno-96-ore-a-chattare-senza-fermarmi-ami.»

I due pii signori, compunti, tuonarono: «Amen.»

Ed invitarono quel chatter trentenne a sedersi in mezzo a loro.

«Ci insegni a parlare con Grazia, Martin, adesso, ora, nel 2017.

Nel modo più moderno che conosca.

Insegni anche a noi come amarla.

Lei, Grazia.

Per almeno 96 ore filate.

A lode di Cristo.

Amen.»

Stefano Sodaro