Era domani

Preti danzanti, disegno di Rodafà Sosteno

Il 24 maggio del 1993 l’Eritrea sancì con un referendum la propria indipendenza, dopo aver concluso nel 1991, lo stesso giorno - 24 maggio -, venticinque anni fa, la lotta di liberazione dalla dittatura di Menghistu Hailè Mariàm.

Stagione terribile di oppressione quella di Menghistu, che contrassegnò il cosiddetto “Terrore rosso” del Corno d’Africa, “Qey Shibir” (ቀይ ሽብር), con l’adozione di tattiche, modalità e strategie repressive identiche a quelle dei regimi di destra dell’America Latina.

Venticinque anni di indipendenza da cui, però, non è sinora sorto alcun arcobaleno di pace e speranza per quel fiero Paese che si affaccia sul Mar Rosso. I barconi che arrivano nei mari italiani sono carichi di eritrei.

Che cosa è accaduto?

Vorremmo astrarre da una serrata analisi geopolitica, che non compete al nostro giornale, per intraprendere, piuttosto, un faticoso percorso meditativo, alla ricerca di uno spazio dove ritrovare noi stessi, ciò in cui crediamo con tutti noi stessi, ciò che amiamo con tutti noi stessi. Uno spazio che, forse, abbisogna proprio di coordinate lontane, di sogni che si estendono sino ai confini della proiezione onirica, fino al riversamento nell’utopia che diventa struggimento, fino alla passione che diventa ragione di vita.

Proviamo a dare qualche riferimento, qualche “quinta” come si dice in linguaggio teatrale, qualche sponda, per capire dove siamo finiti.

L’Eritrea – di cui l’Italia sembra essersi pressoché completamente dimenticata, quasi a lavarsi la coscienza nell’oblio del tempo che passa -, la morte di Marco Pannella la scorsa settimana ed infine un’identità religiosa, come quella italiana, che vive frammezzo alla parola del Libro biblico della scorsa domenica, ove si leggeva di una Sapienza “ludens coram eo omni tempore, ludens in orbe terrarum”, cioè “che gioca davanti a lui ogni momento, che gioca sul globo terrestre”, e quella del Libro della Genesi, proclamata nell’odierna domenica del Corpo e del Sangue del Dio fatto uomo, ove si legge di tale Melchisedech re di Salem che, molto semplicemente – anzi in modo quasi intollerabilmente semplice -, offre pane e vino.

L’Eritrea, Pannella, il gioco divino sapienziale.

Che cosa c’entra tutto questo messo assieme?

Può dipanare la singolare matassa l’esclamazione di una bambina di 8 anni che invita il papà a non pensare a domani, bensì a pensare a dopo.

“Domani” è tempo programmato, scadenzato, costruito, atteso o temuto.

“Dopo”, invece, è tutta un’altra storia, che non si conosce, una pagina appena da aprire senza sapere affatto cosa ci sia scritto o, anzi, se qualcosa di comprensibile vi sia poi effettivamente scritto. Potrebbe essere un disegno, una frase sconclusionata, una confidenza illeggibile.

Noi in realtà vorremmo proprio vivere adesso e dopo, non adesso e domani.

Domani ci intimorisce molto più del dopo, che si coniuga all’istante e nemmeno sappiamo se comparirà.

Potrebbe non esserci alcun dopo e rimanere in noi, presso di noi, un eterno adesso – come accadrà nella morte -, mentre il domani è implacabile, è già presente all’appuntamento con la storia nostra e del mondo. Domani sta sull’orologio e sul calendario, “dopo” no.

Accadde che anche l’Eritrea finì, dopo meno di dieci anni da quell’epico 1991, nelle cesoie del domani, confondendolo con il dopo della poesia e dell’ansia di liberazione.

Nessuno è più realista dei poeti, ma i poeti sanno che è subito sera, che non merita aspettare la sera di domani. È subito dopo. È adesso già dopo.

Tutto l’armamentario politico si struttura su rigida programmazione temporale, non può lasciare spazio ad alcuna poesia, ad alcuna fantasia, ad alcun sogno.

La “fantasia al potere” è sbeffeggiata per tutti i secoli dei secoli.

Eppure ci sono poteri altri che affascinano, seducono, attraggono. Poteri che – ci permettemmo di annotarlo già da queste righe del nostro Rodafà – diventano potenza e non imperio.

La potenza dell’amore, ad esempio, che non è un potere ma, al contrario, si concretizza addirittura in un vincolo di libera dipendenza.

Ma la potenza dell’amore è totalizzante, è l’energia più vigorosa che si possa sperimentare. Più dell’energia vitale di certo.

L’amore vive di tanti adesso e di tanti dopo.

Marco Pannella ha avuto, tra i molti meriti politici – ma non è il nostro campo -, quello di sprovincializzare la riflessione socioculturale italiana. Di farle intendere a forza, perché assai riottosa, che fuori dello Stivale c’è un altro mondo.

Il cielo di Asmara si riempie di fuochi di artificio in questi giorni.

Alla sua periferia manca l’elettricità, manca l’acqua. Eppure si sta festeggiando.

Che cosa si sta festeggiando? Non sembra possibile rispondere: il presente.

E dunque che cosa? Il passato? Neppure.

Allora il domani? O il dopo?

Il domani è fatto di muscolosità bellica, il “dopo” è debole, piccolo come un bimbo appena da svezzare, come un gioco da iniziare.

Pannella ha rimesso una dimensione intensamente giocosa dentro la politica del nostro Paese, con imbarazzo solenne di un’intera classe dirigente.

Ma si tratta di vedere, serenamente, se quel gioco abbia portato a perdersi innamorati dietro al dopo o non invece dietro al domani e il dubbio forte che sia stata la seconda la destinazione della seria e vivificante passione ludica pannelliana mi accompagna personalmente.

Si gioca – così come gioca la Sapienza - adesso e dopo, non adesso e domani.

Noi pure abbiamo un Dio fatto di tempi scanditi, di oggi e domani e di molti giorni passati.

Un “Dio di dopo” sta sulle bocche di profeti, cantori, musicisti, bambine e bambini, nomadi ed erranti della liturgia del quotidiano, ma non in bocca ai funzionari del sacro.

Festa grande nelle famiglie degli eritrei presenti nelle nostre città.

Si telefona, si guarda la televisione, si asciugano gli occhi rossi di lacrime che hanno deterso ormai i sogni di una vita.

C’è un aspetto dell’impegno di Marco Pannella che quasi per nulla è stato messo in rilievo: quello a favore delle minoranze religiose. E non a caso la bandiera del Tibet avvolgeva il suo feretro.

I cristiani eritrei appartengono ad una Chiesa Ortodossa che non è ortodossa come la intendiamo noi, non è bizantina. È precalcedonese, come gli Armeni, come i Siri, come i Caldei, come i Copti. Ma in Italia non se ne sa quasi nulla.

E come mai non se ne sa pressoché nulla?

Proprio perché vi una giocosità così intensa, e intrinseca alla modalità orientale di vivere la stessa fede cristiana, che appare quasi sconveniente, se non scandalosa, alla vista della compunta devozione cattolica che deve consolidare l’assetto sociale e tranquillizzare i poteri costituiti.

Troppo canto, troppo incenso, troppi lumi. Preti che si mettono a danzare assieme su due file, una davanti all’altra, sono inammissibili. Se poi sono addirittura sposati, lo scandalo è garantito. Admiratio fidelium.

Pannella ne rimaneva estasiato, altri molto meno, altri per niente.

Ma rispetto e ammirazione - di più, simpatia e partecipazione - si fermano, nella nostra pur apertissima e dialogante attitudine, alle soglie del domani e mai del “dopo”.

“Dopo” no, non si può, non riusciamo.

“Domani” sì, “domani” lo intravediamo.

Ma quel domani è la morte del gioco.

Perché il gioco vive di istanti e vive di “dopo”. Di un futuro che non è cronologico ma di grazia.

Siamo dunque condannati a non capire, a restare al di là della porta, a non giocare, a doverci ineluttabilmente misurare sul domani?

Un pertugio c’è, compare una fessurazione che spezza le logiche, molto metafisiche e razionali, della spartizione del tempo e della vita.

Questo varco è l’offerta di un pane e di un bicchiere di vino.

La regalità, cioè il riscatto da un’esistenza fatta di luoghi comuni, di scontati pastoni moralistici, è quella di chi offre pane e vino.

A tavola si ride, si parla – in Eritrea, in effetti, si sta concentratamente zitti mentre si consuma il cibo perché è dimensione troppo intima e preziosa -, poi ci si compiace di stare tutti assieme, di sapere nomi e indirizzi di tutti, di far fiorire speranza e concretezza in una dimensione politica del tutto differente da quella di rappresentanze e gruppi militanti.

E poi ci mette tutti assieme a danzare. Non a coppia, tutti insieme.

Allora mangiando pane, bevendo vino, provando a studiare cristianità antiche eppure attuali, interrogando identità politiche grazie a Dio contraddittorie e persino sfuggenti, eppure coerenti proprio dentro l’antinomia, rinnovando insomma l’amore impossibile, ci prepariamo, anche noi, occidentali, italiani, cattolici, laici e non, ad assaporare che terminato l’adesso viene il dopo e non il domani.

Stefano Sodaro