Verso una “teoria” della violenza

Violenza umana, foto di Demetrio Gregorini tratta da commons.wikimedia.org

«Il supplizio riposa su tutta un’arte quantitativa della sofferenza. Ma c’è di più: questa produzione è calibrata. Il supplizio mette in correlazione il tipo di danno corporale, la qualità, l’intensità, la lunghezza delle sofferenze con la gravità del crimine, la persona del criminale, il rango delle vittime. Esiste un codice del dolore; la pena, quando è suppliziante, non si abbatte a caso o in blocco sul corpo; è calcolata secondo regole dettagliate: numero dei colpi di frusta, posto del ferro rovente, lunghezza dell’agonia sul rogo o sulla ruota (il tribunale decide se ci sia luogo a strangolare subito il paziente invece di lasciarlo morire, e dopo quanto debba intervenire questo gesto di pietà), tipo di mutilazione da imporre (mano tagliata, labbra o lingua bucate)» (Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1975, p. 37). In queste argomentazioni che compaiono nelle prime pagine di Sorvegliare e punire, traspare con lancinante evidenza una distonia: da un lato l’evento abominevole del supplizio, nel corso del quale i saperi e le tecniche acquisite dall’uomo in qualche millennio di pseudo-evoluzione culturale, sono totalmente asservite a creare quanta più possibile sofferenza nell’altro, con una fantasia e creatività davvero rilevanti; dall’altro lato una razionalizzazione psicotica del male, come se si volesse dare senso ad un evento totalmente ascrivibile all’ambito dell’inumano e del bestiale. Foucault sottolinea, con una puntigliosità che rasenta il tragicomico, tutti i passaggi di un evento che fuoriesce dalla ragione, ma che ciò nondimeno diviene oggetto di ragionamenti, riflessioni, misurazioni, calibrature e rapporti.

Se, in un’ottica un po’ ingenua ancorché encomiabile per il suo ottimismo, la violenza “dovrebbe” corrispondere all’άλογον, a qualcosa di non razionale e di non razionalizzabile, ecco che assistiamo ad un angosciante capovolgimento, e ciò che appare più degno del belluino e del primitivo si trasforma all’improvviso in uno scenario in cui inscrivere tutto un sistema sociale regolato su leggi, giustizia, diritto, sanzioni, psicopolitiche e strategie immunologiche. Lo scempio delle carni non costituisce più una défaillance temporanea del senso, ma la sua paradossale e perversa celebrazione; innanzi ad una supposta ineludibilità del male, la ragione dell’uomo funzionerebbe persino come un suo moltiplicatore, sommando violenza alla violenza e non trovando alcuna risposta all’agire umano, più o meno corretto rispetto a dispositivi normativi del tutto convenzionali ed arbitrari, che quella di soddisfare il proprio desiderio di vendetta e di riequilibrio del potere statuito.

«Inoltre, il supplizio fa parte di un rituale. È un elemento della liturgia punitiva, e risponde a due esigenze. Deve, in rapporto alla vittima, essere marchiante: è destinato, sia per la cicatrice che lascia sul corpo, sia per la risonanza da cui è accompagnato, a rendere infame la vittima; il supplizio, anche se ha la funzione di ‘purgare’ il delitto, non lo riconcilia; traccia intorno, o, meglio, sul corpo stesso del condannato dei segni che non devono cancellarsi; la memoria degli uomini, in ogni caso, serberà il ricordo dell’esposizione al palo, della gogna, della tortura, della sofferenza dovutamente constatate. (...) Negli ‘eccessi’ dei supplizi, è investita tutta una economia del potere» (ivi, p. 37-38). Ci si apre innanzi un nuovo versante analitico poiché scopriamo che il supplizio, la pratica progettata, liturgica e razionalizzata della violenza, fa parte invero di un rito sociale il quale a sua volta somma in sé svariate funzioni: il rinforzo di determinati assetti e gerarchie del potere all’interno di una comunità; un intento pedagogico finalizzato al governo degli individui nel loro rapportarsi a norme astratte più o meno arbitrarie e coercitive; la necessità di un’iterazione rituale con periodicità prescritte e con l’ausilio di vari “officianti” del dramma teatrale, come il giudice, il carnefice, il sacerdote, etc.; la “teatralizzazione” del male che deve imporre la sua assoluta visibilità e non può rimanere nascosto nei reconditori dei palazzi del comando, nelle segrete o nelle prigioni; una scansione precisa e regolata di tutti i momenti del supplizio, come se con esso dovessimo assistere ad una celebrazione del “senso” nella sua purezza idealizzata; la sacralità che aleggia in ogni gesto e che si palesa con prepotenza inesorabile quando la vittima (sacrificale) diviene un corpo sacer, inviolabile ed osceno nel medesimo tempo (la “vittima infame”). Potremmo continuare a sostenere il nostro ideale illuministico di homo sapiens riconducendo questo tipo di rituali ad un’epoca remota (che si esaurirebbe circa nel XVIII° secolo), molto più vicina al mondo magico e primitivo che alla modernità; eppure quest’escamotage autodifensivo manca decisamente il bersaglio nella stessa misura in cui riconosciamo una ritualità propria della violenza.

Tuttavia, nel supplizio “classico” assistiamo ad un doppio movimento in virtù del quale una certa dose controllata e razionalizzata di violenza, cerca a sua volta di inibire e governare una violenza sociale che fa tutt’uno con le norme che la regolano; e se, ad esempio, osserviamo con il medesimo occhio critico il rito del calcio, così diffuso da assurgere al ruolo di paradigma del “gioco” tout court, scorgiamo sorprendenti similitudini laddove l'aggressività collettiva viene stemperata dalla suddivisione in due ulteriori forme di violenza, quella dei giocatori che danno luogo ad un agonismo talvolta esuberante nonostante l’esistenza di regole ben precise, e quello dei tifosi che, nell’ambito di uno spazio controllato e paradossalmente istituzionalizzato, sono legittimati alla trasgressione e all’eccesso.

Foucault tuttavia, dopo aver decostruito una certa immagine pacifista e depurata dell’uomo occidentale, immette ulteriore carne sul fuoco e, in modo mediato, connette la questione della verità a quella della violenza. In ultima analisi, ciò che aleggia sinistramente attorno al supplizio e al suo cerimoniale è quella ricerca della verità che accomuna le competenze tecnologiche e i saperi legati alla tortura e alle pratiche estorsive della confessione, nonché ad altre discipline come il diritto, l’economia, la scienza. «Se il supplizio è così fortemente incrostato nella pratica giudiziaria, è perché è rivelatore di verità e operatore di potere. Esso assicura l’articolazione dello scritto sull’orale, del segreto sul pubblico; della procedura di inchiesta sull’operazione della confessione; permette che il delitto di riproduca e ritorni visibile sul corpo del criminale, fa che il crimine, con lo stesso orrore, si manifesti e si annulli» (ivi, p. 60). Rimodulando le parole di Foucault, ci dobbiamo pertanto interrogare sulle ragioni che associano così strettamente tra di loro violenza e verità, e sui motivi per cui quest’ultima diviene un operatore di potere e, giocoforza, fonte di assoggettamento e di controllo sociale. Non sarà forse necessaria in questo senso non tanto un’analisi di tipo alethologico, cioè una risposta alla domanda “impossibile”: “che cos’è la verità?”, quanto la valutazione della quantità di violenza di cui essa si compone, sia per costituirsi come tale, sia per mantenersi nel tempo e per serbare inalterata la propria efficacia? «Il corpo del suppliziato si inscrive prima di tutto nel cerimoniale giudiziario che deve produrre, in piena luce, la verità del crimine» (ivi, p. 38), ossia assistiamo ad un’inscrizione, ad un’articolazione simbolica con la sua sintassi e la sua semantica, la quale ha lo scopo - attraverso una cerimonia che ha molte affinità con un rito pubblico e una liturgia religiosa - di manifestare, rendere presente, insomma fenomenizzare un “crimine” (un’azione, un fatto o un mis-fatto umano) nella sua verità, ovvero - ancora - nella perfetta e “sacra” adeguazione tra parola e cosa.

C’è un “fatto”, qual-cosa che deriva da un facere, da un’azione dell’uomo che a sua volta viene espressa, resa pubblica e sacralizzata attraverso una simbolizzazione che governa - con violenza - ciò che non è immunizzabile per natura, ciò che appartiene ad un altro genere, l’Altro. La verità diviene in questo scenario la principale garanzia del funzionamento delle tecniche immunitarie del senso, ossia quelle consistenti nel sostituire una realtà incomprensibile ed inaccessibile mediante un costrutto artificiale, protesico e fittizio che ne fa le veci e che inoltre può essere regolato, infinitamente riprodotto, composto e ricomposto nelle sue varianti millesimali. L’atto violento della sostituzione simbolica, della pantomima che “imita” l’agire dell’uomo, viene sorretto da un’ulteriore violenza che sorregge, consolida e mantiene il processo simbolico stesso. La violenza, insomma, è connaturata al senso, è l'effetto o “un” effetto del senso.

Lo si può notare - sempre seguendo le riflessioni foucaultiane - nella puntuale evoluzione delle tecniche punitive a partire dall’esercizio eclatante del potere sovrano sino al XVIII° secolo e culminanti nel supplizio pubblico con la sua liturgia lancinante ed eccessiva, per giungere all’idea moderna di una gestione della pena attraverso la disciplina carceraria e l’addestramento, ossia innescando un processo di soggettivazione più capillare, costante e diffuso nel tempo, come se si trattasse di una domesticazione dell’alterità. In questo percorso che sembrerebbe coincidere con un processo di civilizzazione e di acculturazione generalizzata, ciò che forse sfugge è che si tratta comunque di un’iterazione della violenza, della riproposizione trasfigurata simbolicamente della lex talionis, ove la devianza sociale viene ridotta e neutralizzata dalla riaffermazione decisa ed irrevocabile del potere istituzionalizzato. «Con una larga schematizzazione, possiamo dire che, nel diritto monarchico, la punizione è un cerimoniale di sovranità; utilizza i marchi rituali della vendetta che applica sul corpo del condannato e ostenta agli occhi degli spettatori un effetto di terrore tanto più intenso quanto più discontinuo, irregolare e sempre al di sopra delle sue proprie leggi, è la presenza fisica del sovrano e del suo potere. Nel progetto dei giuristi riformatori, la punizione è una procedura per riqualificare gli individui come soggetti di diritto; essa utilizza non dei marchi, ma dei segni, degli insiemi codificati di rappresentazioni, e di questi, la scena del castigo deve assicurare la circolazione più rapida e l’accettazione più universale possibile. Infine, nel progetto di istituzione carceraria che viene elaborato, la punizione è una tecnica di coercizione degli individui» (ivi, p. 143). Emergono in quest’apparente e aberrante evoluzione, delle costanti oltremodo suggestive:

1) a fronte di un evento violento, cruento e al limite della perversione sadica come il supplizio, il quale tuttavia dovrebbe comunque ricomporre una ferita sociale inferta dalla trasgressione occasionale o meno di un individuo, la punizione sovrana - illuminata o disciplinata che sia e sebbene si configuri sempre, e nonostante svariate sovrastrutturazioni e risimbolizzazioni, come una “vendetta” ed una rivalsa - assume ciò nondimeno le fogge tipiche di un dispositivo di senso e di potere ben concertato. Questo elemento, in apparenza scontato, implica quasi “a catena” una serie di conseguenze che costituiscono delle funzioni accessorie rispetto alla punizione vera e propria e che pertanto vanno ben al di là del “gesto riparativo e compensatorio” di un’azione individuale delittuosa e destabilizzante: si tratta, infatti, di riaffermare un certo assetto del potere sociale e, quindi, di sostenere una certa gerarchia quale garante privilegiato dell’ordine comunitario, nonché del controllo e del governo dell’aggressività collettiva endogena; di confermare, anche attraverso la trasgressione delle medesime leggi, uno statuto dei rapporti sociali fondato sull’assoggettamento e sulla sottomissione, così da istituire o ricostruire effettivamente dei soggetti del diritto; di rendere trascendenti e numeniche delle realtà sociali come le leggi - laiche o religiose che siano - le quali, in verità, non sono che delle costruzioni imposturali e per loro natura illegittime; di immunizzare l’eccesso della violenza individuale attraverso l’iterazione della violenza stessa, divenuta il paradossale “oggetto” di una rappresentazione pubblica e rituale.

2) La violenza umana, dunque, manifesta una precisa struttura senso-poietica, ossia “crea” quei significati, immagini, segni che caratterizzano ciò che genericamente definiamo “cultura”. La storia del pensiero che riflette sull’άλογον emotivo-aggressivo (thymòs) e che cerca di integrarlo nella visione antropocentrica - tanto ideale ed autocelebrativa quanto tendenzialmente accidentale ed illusoria – dell’uomo inteso come zōon lógon échon , si profila in tal modo come un catalogo di fuorviamenti e di ipocrisie teoriche non sempre in buonafede. Eccone un preliminare catalogo: a) la “celebrazione sacralizzante” dell’epica antica, che culmina nella figura ambivalente dell’ “eroe”; b) l’ “esclusione sistematica” da parte di un’impostazione illuministica che vi intravvede il residuo evidente dell’animalità e di un’arcaicità tribale presenti ancora in certi riti primitivi ed indigeni; c) la “trascendentalizzazione” per cui il thymós, la rabbia e il furore costituiscono una realtà ineludibile del mondo umano, realtà che deve essere continuamente immunizzata con tecniche magiche, religiose, psicopolitiche oppure repressive, maiestatiche ed eclatanti; d) la “naturalizzazione” delle forme di assoggettamento ed umiliazione sociale come lo riscontriamo non con poca sorpresa proprio in Aristotele, per il quale, ad esempio, la “schiavitù” assume il rilievo ontologico di una realtà inemendabile e persino bio-fisiologica; e) le “integrazioni filopolemologiche” che a partire da Eraclito per finire con Heidegger, Sloterdijk ed altri autori tendono a far coincidere il conflitto e la guerra con il lógos, come se quest’ultimo costituisse un agone sublimato, trasfigurato e ritualizzato, oppure addirittura una derivazione della guerra; f) le “critiche teologiche” (quelle di Lévinas, ad esempio) provenienti dalla cultura teologico-filosofica ebraica, le quali associano la violenza ad una determinata evoluzione del pensiero occidentale e metafisico, per lo più riconducibile al mondo cristiano e latino, ma che obliano allo stesso tempo l'estrema violenza di Jahvé; g) le “tesi edificanti” che celebrano la violenza quale agente politico-sociale emancipatorio e rivoluzionario (Arendt, Benjamin, Žižek, etc.), oppure - persino - quale unica ed autentica modalità di riconoscimento dell'Altro (Žižek); h) le “tesi giustificazioniste” (come ad esempio quelle di Giorgio Agamben) in cui viene messa in discussione la stessa valenza ontologica dell’ “azione” umana e, con essa, la sua natura potenzialmente violenta, derivabile da un certo decorso del pensiero latino-cristiano, che ha immesso forzatamente la pratica e l’agire in un concatenamento di cause ed effetti (colpa, peccato, crimine, delitto, punizione, espiazione, perdono, etc.) del tutto arbitrario ed artificioso, e che ha fatto dell’ “essere” un “dover-essere”; i) le “tesi economicistiche” per cui la violenza innerverebbe il tessuto stesso dell’economia e dello scambio delle merci, come se la guerra costituisse il naturale prosieguo del commercium tra le persone (e come si evince nel medesimo lessico economicistico odierno in cui prevalgono termini che fanno pensare ad una vera e propria battaglia senza esclusione di colpi tra le parti); l) le “infatuazioni e fascinazioni intellettuali” per cui la guerra non soltanto appare ineludibile ed inevitabile, ma assurge al ruolo di “concetto assoluto” e “quasi” puro, subendo una sorta di idealizzazione platonica estrema e quasi beffarda (Schmitt, von Clausewitz) e arrivando paradossalmente ad identificare concettualmente la guerra partigiana e la guerriglia con il terrorismo più efferato dell’epoca contemporanea; m) i “falsi evoluzionismi” di tipo nazifascista e futurista per cui la guerra e la soppressione del nemico non costituirebbero che la trasposizione della “lotta per la sopravvivenza” dal piano animale a quello umano e sociale; n) le “rimozioni” per cui ciò che chiamiamo genericamente civiltà e cultura non sarebbero che forme di trasformazione rituale e simbolica di una violenza originaria, imposturale e già compiuta in tempi immemorabili (René Girard, Slavoj Žižek e per certi aspetti Jacques Derrida), a partire dall’istituzione di una norma successivamente sacralizzata e del diritto ipertrofico che ne consegue; o) le “interpretazioni di ‘genere’ ” che accomunano l’origine bio-fisiologica della violenza con una base ideologica, dimodoché l’aggressività “innata” del “maschio” verrebbe supportata socialmente da modelli culturali ben delineati che fanno della “forza” e della “potenza” soverchiante dei valori positivi all’interno di determinate comunità.

A partire da questo bizzarro catalogo, probabilmente ancora da arricchire, la violenza appare connaturata al “senso” e al “linguaggio” dell’uomo quasi a livello fenomenologico, ma nello stesso tempo essa pare emergere laddove c’è un inceppamento strutturale all’interno del senso stesso, ossia una défaillance che non si traduce in una “mancanza” o in un’impotenza, bensì - paradossalmente - in una sorta di eccesso. Se il senso costituisce quella struttura “relazionale” complessa attraverso la quale “incontriamo” e affrontiamo la realtà, esso si presenta con un volto duplice o come uno Ianus bifronte, poiché rende possibile una “comunità” con le proprie leggi e le proprie etiche, ma poi la minaccia continuamente allorché per imporre il proprio ordine instaura eccessive differenziazioni e, quindi, anche disuguaglianze e sperequazioni.

Emiliano Bazzanella