Il papa delle due vaticaniste, etiopiche

Il Papa delle due, tre vaticaniste - disegno di Rodafà Sosteno

Secondo alcuni, il «Se mi sbaglio, mi corrigerete» di Giovanni Paolo II, affacciato alla Loggia delle Benedizioni subito dopo la sua elezione, e la lettera di scuse di Francesco vescovo di Roma per le vicende cilene connesse al vescovo di Osorno poi dimessosi (si può leggere la lettera nel testo originale in spagnolo al link https://agensir.it/wp-content/uploads/2018/04/11042018_251pm_5ace4b26b8289.pdf) stanno in perfetta continuità. La storia della Chiesa – e segnatamente del Papato -, secondo costoro, non sarebbe fatta di balzi e rientri, di svolte e salite, ma sarebbe una linea retta che per definizione si estende all’infinito, senza poter sapere neppure dove cominci e dove finisca.

Secondo altri, è vero invece esattamente il contrario: la prima, la frase di Woytjla, era richiesta retorica, la seconda, l’ammissione per iscritto di Francesco, seguita ad un certo irrigidimento un poco acritico e magari impulsivo, profondamente sincera.

Secondo alcuni, ancora, il pontificato di Francesco è pura operazione di maquillage ecclesiastico, senza nessuna novità degna di rilievo (sarebbe da capire un attimo che cosa si intenda per “rilievo” carenti spesso robuste conoscenze ecclesiologiche, probabilmente ci si riferisce alle sole ricadute sul piano pubblicistico ed internazionale della Santa Sede confusa tout court con “la Chiesa”). Secondo altri, è la rivoluzione ecclesiale, una sorta di Vaticano III mai annunciato epperò iniziato.

Ma ad un’analisi scevra da acrimonie anticlericali, spesso incistate nell’avversione al sacro quale che sia, e da entusiasmi giustificatori devozionistici sempre e comunque plaudenti interessa molto di più cogliere il senso reale di ciò che accadde 6 anni fa, di marcare come il segno, il “simbolo”/σύμβολον alla greca (la giustapposizione dei mondi, affermava p. Turoldo), in quanto sempre liturgico nell’ambito ecclesiale – che investa la ferialità del borbottio da marciapiede o la solennità dei paramenti da assise episcopale -, sia fondamentale, imprescindibile, faccia da spartiacque nella storia della comunità credente.

Senza liturgia non esiste Chiesa. Senza liturgia non esiste parola sensata nella Chiesa. Persino l’ordinamento giuridico canonico ha dimensione liturgica, cioè di insieme di segni che, anche quando corrispondenti a sanzioni da infliggere, restano sul piano dei “significati” e “significanti”, senza avere alcuna possibilità di afflizione corporale, vale a dire che, per diritto canonico, nessun reo – reo di reati canonici beninteso – può finire in galera a seguito dell’applicazione del Codex. Per rimanere in tema, conta il “segno” della scomunica, dell’interdetto, della privazione, dell’ammonizione. Tutte pene, come si dice, “spirituali”. Tutte pene, dunque, intrinsecamente molto “liturgiche”. Spiritualità come insieme di segni, liturgia come loro coerenza.

Ma quel che accadde 6 anni fa ebbe a che fare con qualcosa d’altro ancora. Ebbe a che fare con la comunicazione.

L’obiezione è facile: pure Giovanni Paolo II fu soggetto comunicatore di strabiliante impatto geopolitico ed affettivo a livello personale – “Santo subito” -. Eppure il 13 marzo 2013 qualcosa si incrinò nella coerenza comunicativa secolare del papato.

“Fratelli e sorelle, buonasera”, marcò, appunto, un passaggio. Un passaggio liturgico.

A distanza ormai ultra-quinquennale dagli eventi del conclave in assenza di papa defunto (altro “segno” macroscopico), si può registrare che le riforme endo-ecclesiali devono da un lato probabilmente molto relativizzarsi – non ci saranno né donne prete, né preti sposati, né abolizioni delle Curie - e contemporaneamente, dall’altro, situarsi su un piano diverso, quello della oikouméne mondiale, della Casa Comune costituita dal Mondo, nel cui mare naufragano in senso reale, fisico, senza metaforizzazione alcuna, le vittime del Potere ammantato di Sacro, sia esso religioso o non religioso, quantunque sempre molto rituale, molto liturgico. C’è una liturgia, per quanto blasfema, delle guerre, c’è una liturgia della politica, c’è una liturgia del riconoscimento internazionale dei reciproci interessi.

Per farla più semplice, addì 13 marzo 2019, ciò che davvero importa è che la Chiesa Cattolica – di cui è Vescovo primaziale il Papa – comunichi, parli, ponga segni, gesti che effettivamente rendano il simbolico terapeutico della sofferenza di tante e tanti, impastato di vita e non solo capace di sintesi verbali magari anche davvero poetiche ma prive di implicazioni concrete, effettive, in grado di scalzare proprio quel Potere maligno.

Il Papa che si reca a Lampedusa getta nel panico gli apparati di Potere. Il Papa che assegna a Satana la responsabilità ultima dei crimini pedofili può rischiare – al di là delle intenzioni teologiche del profferente – di generare solo indifferenza, se non beffarda derisione. Eppure il male c’è. Un male personale ed un male sociale.

Sulla questione del male, il pontificato di Francesco viene interrogato proprio esattamente 6 anni dopo. Già le dimissioni di Benedetto XVI avevano ingenerato il sospetto che “quel” male fosse se non la causa unica, certamente una delle concause determinanti. Ora la questione diventa cocente.

La teologia della liberazione latinoamericana – di cui Francesco è interprete, sia consentito dirlo, molto più da papa che da cardinale – sa combattere il male di interi popoli e Paesi, denunciarne le implicazioni e le connivenze, ma la posta ora è quella di mali inflitti personalmente, bisognerebbe specificare anzi “individualmente”, da chi nella Chiesa ha compiti ministeriali e di autorità. Non c’è più distinzione tra Sud e Nord del Mondo, la distinzione passa mondialmente tra vittime e abusanti.

L’ammantarsi di sacrileghe giustificazioni a difesa del cattolicesimo da parte dei dittatori sudamericani degli Anni Ottanta lascia ora, negli Anni Dieci del Duemila, un possibile pericolosissimo spazio a tentativi di difesa non da parte di politici ma – ciò che è infinitamente peggio - di uomini (uomini maschi) di Chiesa, salvo intervenga subito una parola fermissima, chiara, più che sulla “tolleranza zero”, sullo smascheramento della cause “liturgiche”, “rituali” di quei mali. Questa parola c’è stata?

La tesi di chi scrive queste righe è che tale parola sia stata pronunciata, per volontà del Papa sì, ma da donne, da donne professioniste della comunicazione, le cosiddette “vaticaniste”, da donne che s’imparentano ad altre donne, quelle delle zone più oppresse della Terra, ma verso la cui condizione la Teologia della liberazione degli Anni Settanta poco ha detto.

A mio parere, insomma, si è creato un raccordo – dagli esiti imprevedibili, anche in ambito ecclesiale – tra giornaliste donne esperte in fatti di Chiesa e donne esperte di opposizione al potere in forza di lotte decennali, pluridecennali, contro una violenza maschilista, trionfante proprio sotto l’Equatore di questo nostro Mondo.

Non è il lessico pontificio che si fa “segno” in tali circostanze – del resto lo stesso Papa afferma e riafferma di voler ascoltare, di voler sentire da altri che cosa essi abbiano da dire -, ma è la liturgia di voci di donne alle quali il Papa apre la porta, pur nella sua sensibilità ed espressività anche culturalmente condizionata.

Valentina Alezraki, vaticanista messicana, ha potuto parlare in Vaticano, nell’Aula del Sinodo, durante il summit sulla tutela dei minori nella Chiesa (https://www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2019-02/protezione-minori-abusi-alazraki-vatiab.html e http://www.vatican.va/resources/resources_alazraki-protezioneminori_20190223_it.html), senza che nessuno variasse neppure una virgola del suo intervento, come lei stessa ha confermato. Qui c’è un fatto radicalmente nuovo, qui ci sono parole di una liturgia di resistenza e di opposizione. E il mantenimento di tutte le virgole è diretta affermazione di precisa volontà papale in tal senso.

La nomina di un laico a Prefetto del Dicastero della Comunicazione, quando da secoli la dottrina canonistica descrive il ruolo di prefetto di Curia Romana come esercitabile solo “vice Romani Pontificis” – e dunque, si credeva, solo da un insignito almeno di carattere episcopale -, è pure rovesciamento di prospettiva, accurata depurazione di incrostazioni ideologiche intorno al ruolo del vescovo di Roma.

Il mantenimento della veste bianco-papale da parte del non più Papa Benedetto attesta, tuttavia, una frizione irrisolta a livello istituzionale. Ed essa deriva interamente dal dover constatare – per forza di cose, non perché lo si voglia fare, sarebbe per cosi dire “ecclesialmente innaturale” almeno dalla “Unam Sanctam” di Bonifacio VIII, se non dal “Dictatus Papae” di Gregorio VII -, dal dover ammettere, rilevare che oggi nella Chiesa è la simbolica del due e non più dell’uno a editare le nuove liturgie. Ritmi binari, doppi, alternativi, duplici sono di grande beneficio per sgretolare il Potere che miete vittime. Anche “Amoris laetitia” appartiene a questo salutare sdoppiamento che non è doppiezza etica da vituperare – con correctio più o meno filialis –, bensì assunzione della complessità della vita, non riducibile a nessun unico senso, neppure morale. Integrazione anzi delle due direzioni, delle due braccia, della croce sul Golgota.

Un “doppio” che crea qualche problema ed imbarazzo allo stesso laicato cattolico, si può leggere l’ottimo articolo di Francesco Peloso al link: https://www.lettera43.it/it/articoli/cronaca/2019/03/11/silenzio-laici-vaticano-news/229974/

Sono i giorni della tragedia aerea di Addis Abeba.

In Etiopia ci sono una Presidente della Repubblica donna, una Presidente della Corte Suprema donna, un Primo Ministro che ricerca pace e occasioni di crescita economica, sociale, civile, per il suo Paese. Ora si abbatte un colpo terribile, un indietreggiare forzato e violento di sogni e speranze.

L’Etiopia, assieme all’Eritrea, l’Abissinia insomma, è il “doppio” dell’Italia, con cui il nostro Paese non si è mai rappacificato, ma che si è preferito piuttosto mandare culturalmente in oblio.

Eppure le otto vittime italiane di quel disastro testimoniano di una passione per l’alterità che contraddistingue l’impegno professionale, ideale, politico di tante e tanti nel nostro Paese.

Il 23 febbraio nell’Aula del Sinodo ha parlato una vaticanista messicana davanti al Papa.

Attendiamo ora che parli, sempre di fronte al vescovo di Roma, una vaticanista italiana ed una etiopica, anzi due. Una che ci parli dell’oppressione spaventosa da parte del potere maschile in tutti i Sud della Terra ed una che, addentrandosi negli affascinanti intrecci della Cristianità africana dei primi secoli, spieghi a noi, a tutti i devoti italiani, atei o non atei, che cosa sia mai la Chiesa Tewahdo.

Con la benedizione papale.

Sarà timbro in cera lacca, sub anulo piscatoris, a ratifica della speranza.

Stefano Sodaro