Questi quindicenni sorpresi in flagrante adulterio

Trieste, Via Carducci - foto tratta da commons.wikimedia.org

Molti, molte, di noi saranno padri, madri, o zii, o zie, o nonni, o nonne, o cugine, o cugini.

Molti, molte di noi avranno davanti agli occhi ragazzi molto più giovani che ci sono figli, figlie, nipoti, parenti.

Il mondo dei quindicenni di oggi è un universo che noi fatichiamo non solo ad abitare – neppure potremmo senza il loro permesso, senza la loro guida a lasciarcelo visitare – ma anche ad appena avvicinare.

L’episodio di Gesù davanti alla donna adultera, cioè traditrice del marito – neanche nei vangeli si parla di uomini adulteri che tradiscono le mogli, solo delle donne “peccatrici”, i maschi no -, all’interno del racconto di Giovanni, corrisponde alla condanna di un fatto preciso. I testi riportano che la colpevole è stata colta in flagrante, tanto che non c’è neppure bisogno di alcun processo, si può passare subito a comminare la pena prevista, la lapidazione.

Per una volta, però, si potrebbe forse prescindere da questa specie di “onnisessualizzazione” della vita e scoprire che esistono adulteri sociali assai più gravi di quelli (pur gravi, sia chiaro, nessun invito a trasgredire) coniugali.

Il ragazzo che salva i compagni dal bus incendiato da un adulto ed il suo coetaneo che affronta pubblicamente chi giustifica il calpestamento del pane destinato ai Rom tradiscono in maniera plateale un’etica che si sta progressivamente consolidando, molto prima di qualsiasi opzione politica.

C’è in giro una latente, forse neppure tanto, lapidazione culturale che vorrebbe ricacciarli dentro i loro contesti atomicamente familiari (lato sensu, dunque, “matrimoniali”).

Ci si potrebbe chiedere anche se ognuno ed ognuna di noi si senta mai in dovere di spiegare le ragioni del proprio comportamento di adulto o adulta a chi abbia 35/40 anni meno di noi. È un esercizio critico – o autocritico – molto utile.

Quando facciamo, o non facciamo, alcune cose che pensiamo molto personali, “gelosamente” personali, riteniamo che il giudizio al riguardo debba essere solo ed esclusivamente nostro, basta un “alterum non laedere, suum cuique tribuere” e la cosa va. Ma con i 15enni non basta più, non basta affatto.

Essi ci chiedono che vita stiamo facendo e ci domandano per che cosa, per chi, stiamo vivendo. E noi volentieri vorremmo sottrarci ad una domanda del genere. Ci sentiamo traditi, ci sentiamo vittime noi di un adulterio conoscitivo. Poiché prima di fare coppia con qualcuno, noi facciamo coppia con noi stessi. Tutto bene? Chissà, forse non tanto.

Questo giornale compirà la prossima settimana il suo numero 500.

Uno dei temi più battuti da “Il giornale di Rodafà”, verrebbe da aggiungere proprio in tutte le salse, è stato quello della, o delle, pluralità d’amore, quasi scardinamento di logiche di coppia, intese come logiche binarie, allorché esse chiudano al mondo invece di aprire spazi di libertà inedita ed effettiva.

L’utopia si regge sulla pluralità, non sull’uno, nonostante tutti i “monoteismi” predicati e professati. Persino il Cristo dell’episodio di Giovanni non è solo, è con una donna colpevole, ma poi neppure con lei fa coppia, la lascia libera di andarsene, anzi la invita proprio a non restare con lui.

I quindicenni che cercano il grande amore della loro vita cercano un amore che non li asfissi, che non li restringa in dinamiche magari molto romantiche ma alla fine molto povere di progettualità, di tensione ideale, di passione politica (ora, sì, il termine dev’essere usato).

«Donna, dove sono?» Dove sono i tanti? Non semplicemente “lui”.

Noi non viviamo in monadi esistenziali, neppure quando magari soffriamo terribilmente di solitudine. Noi siamo relazione e i ragazzi ci inchiodano ad essere relazione sempre e per questo adulterano le nostre proiezioni a starcene invece bene a casa, due cuori e una capanna-famiglia. Loro, quei figli, nipoti, parenti ma anche giovani sconosciuti, ci portano fuori, chiamano i carabinieri davanti al pericolo di vita per tutti, denunciano, dicono che ogni pratica e idea razzista “nun me sta bene che no”.

Avremmo già i sassi in mano, ma iniziamo ad andarcene uno alla volta vergognosi, iniziando dal più anziano, come scrive l’evangelista Giovanni.

Non so se questo giornale meriti l’augurio di proseguire oltre il prossimo numero o di attestarsi invece su posizioni che semplicemente affermino un tanto e lascino una specie di testamento ideale: non uno e non due, ma tre. La politica si fa in tre, l’amore non osiamo dirlo.

I quindicenni delle nostre vite soffrono ad essere in due – in uno manco a dirlo -. Vogliono ricreare quel senso di comunità in cui noi abbiamo sognato ma che oggi scopriamo franato sotto i nostri stessi piedi.

Forse al Giornale di Rodafà farei un augurio proprio così: di fare spazio adesso ai quindicenni.

Daniele Cortis