Vangelo e liberazione: del transito

Pietra carsica scavata da acqua e Bora, foto tratta da commons.wikimedia.org

La terrificante telefonata, risentita molte volte nei giorni appena passati – a 40 anni di distanza -, con cui le Brigate Rosse comunicavano il ritrovamento del corpo di Aldo Moro si insedia nella mente di chi ne avverte la ripetizione quasi compulsiva e sembra accennare a qualcosa di particolarmente scabroso che non rimane confinato nelle ricostruzioni storiografiche o nelle analisi politiche ma affonda in una sorta di zona oscura del nostro sé.

Il sedicente “dottor Nicolai”, alias Valerio Morucci, non lascia alcuno spazio di replica o di interlocuzione a chi riceve la sua comunicazione di morte, rimane solo interdetto quando chi è costretto ad ascoltarlo senza obiezioni afferma in pianto di non poter fare ciò che gli viene ordinato. L’impossibilità non è contemplata dal fondamentalismo.

Perché di questo si tratta.

Ed è questo che abita i meandri del nostro sé.

«Non può? Dovrebbe, per forza...».

La telefonata fu commentata con profondità d’analisi da Leonardo Sciascia (http://www.cinquantamila.it/storyTellerArticolo.php?storyId=4dd5493766c59).

«(…) adempiamo alle ultime volontà del presidente comunicando alla famiglia dove potrà trovare il corpo dell’onorevole Aldo Moro».

C’è preoccupazione pietosa di dover procedere ad un qualche umano adempimento dopo aver commesso un omicidio?

Qualcosa di torvamente rituale sembra muoversi. Una liturgia funebre deprivata di ogni speranza. Un compiacimento del far morire e dello stesso morire dopo aver causato morte.

Parole oltre le parole. Gesti verbali che non hanno sintassi e grammatica. E che si abbandonano ad una fonetica solo comportamentale. Fonemi etici.

La morte è il contrario dell’amore, non della vita. La morte fa parte della vita, ma non fa parte dell’amore.

Gli Anni Settanta del secolo trascorso hanno ancora molto da dirci quanto a passioni che non si sarebbero dovute rintuzzare ed eliminare costi quel che costi (costasse quel che costasse), hanno da trasmetterci parole meta-verbali che sinora non siamo riusciti a comprendere, a decodificare, pur attraversandoci, quei messaggi, molto intimamente.

Era politica impazzita quella degli Anni Settanta?

Scrive Raniero La Valle (http://ranierolavalle.blogspot.it/):

«Ma al di là della tragedia politica, ciò che fu in gioco nella vicenda Moro fu la riproposizione della falsa ideologia del sacrificio, veleno e farmaco, su cui fin dall’antico furono fondate culture, istituzioni, ragion di Stato e guerre e che sembrava, con la Pasqua cristiana e con il ripudio costituzionale della violenza e della guerra, licenziata per sempre. Tanto meno essa doveva essere riprodotta in un Paese cattolico governato da un partito cristiano. Invece fu subito abbracciata (senza nemmeno deliberazione del Consiglio dei ministri!) l’idea, detta “fermezza”, che la vita di Moro valesse la salvezza della Repubblica: meglio che tredici brigatisti restassero in carcere (tale era il prezzo dello scambio) piuttosto che fosse fatta salva la vita e la prospettiva politica di Moro; meglio che “un uomo solo muoia per tutto il popolo”, come aveva detto Caifa e come fu di nuovo convenuto allora. Perciò scrisse Moro in una delle sue lettere, cancellate dal potere come “non sue”: “muoio, se così desidera il mio partito, nella pienezza della mia fede cristiana e nell’amore immenso per una famiglia esemplare che io adoro e spero di vigilare dall’alto dei cieli”. E lo stesso Cossiga, ministro dell’Interno del tempo, ammise vent’anni dopo, declinando “per coerenza” l’invito a partecipare in Parlamento a una commemorazione dello statista ucciso, che la decisione politica presa dal governo inevitabilmente avrebbe portato all’uccisione di Aldo Moro, ciò di cui egli era stato “drammaticamente consapevole”.

La pretesa salvifica del sacrificio sta nel concentrare su una vittima, personale o collettiva, isolata dall’insieme sociale, tutta la violenza, in modo che la sua soppressione venga identificata da tutti col venir meno del male sociale di cui essa è considerata colpevole o causa, così che la violenza sia placata e la società ritrovi sicurezza. Ma perché il meccanismo sacrificale funzioni occorre che non sia svelato, che non se ne denunci l’arbitrarietà, che la vittima sia in qualche modo consenziente ammettendo la sua colpa. Ma quando l’innocente grida la sua innocenza e invoca la verità, il meccanismo si rompe. La posta in gioco in quei 55 giorni, largamente complice la stampa, fu il formarsi di questa unanimità di consenso, che trovò il suo ostacolo maggiore proprio nella resistenza della vittima che lottò, non per sé ma per tutti, rivendicando la sua innocenza e mostrando con altissima dottrina una via politica di uscita non violenta dalla crisi. Così egli ruppe il congegno vittimario e ne impedì l’esaltazione mistificatrice. Il sacrificio infatti non salva nessuno e finisce per perdere gli stessi sacrificatori, come è dimostrato dagli esiti di tutte le guerre e degli altri olocausti.»

Amore condiviso ancora oggi sembra dimensione trasgressiva, da soli si vive e da soli si muore. Soli, sole, davanti al senso stesso del vivere e del morire.

Noi non riusciamo ad integrare eros in nessun percorso di spiritualità cristiana, ne pretendiamo il sacrificio, anche se siamo ecclesialmente laici. La stessa esistenza personale è quasi identificata con un sempiterno sacrificio, per scansare il quale solo il suo aggiramento malandrino è concesso, ma con esiti incerti. Dobbiamo volgerci ad Oriente, oppure dobbiamo scappare a gambe levate da qualunque afflato spirituale. Perché, alla Nietzsche, il cristianesimo avrebbe avvelenato la vita per sempre.

Eppure ci fu chi non abbandonò presso le lande deserte della compostezza istituzionale quella specie di cinismo oggettivo che tutt’oggi piace e che sostanzia, ad esempio, la riflessione di chi argomenta ossessionato da presunti complotti psico-politici prossimi a deflagrare arrecando una rovina arginabile, non si capisce bene perché, solo da un presunto disincanto, naturalmente tutto oggettivo, “basato sui fatti” – come si dice -, disinnamorato delle ragioni altrui e spesso incline alla seduzione del greve che accorcia il ragionamento.

Paolo VI, invece, pregò così:

«Ed ora le nostre labbra, chiuse come da un enorme ostacolo, simile alla grossa pietra rotolata all’ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il «De profundis», il grido cioè ed il pianto dell’ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce.

Signore, ascoltaci!

E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo Uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla Fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per lui, per lui.

Signore, ascoltaci!

Fa’, o Dio, Padre di misericordia, che non sia interrotta la comunione che, pur nelle tenebre della morte, ancora intercede tra i Defunti da questa esistenza temporale e noi tuttora viventi in questa giornata di un sole che inesorabilmente tramonta. Non è vano il programma del nostro essere di redenti: la nostra carne risorgerà, la nostra vita sarà eterna! Oh! che la nostra fede pareggi fin d’ora questa promessa realtà. Aldo e tutti i viventi in Cristo, beati nell’infinito Iddio, noi li rivedremo!»

Non era una supplica dettata da sciorinamento di convinzioni catechistiche e non era disprezzo delle soggettività degli altri.

Era una confessione di fede. “Nell’infinito Iddio”. In una carne che risorge, in una vita che non termina.

Affermazione umile ma convinta fino allo spasimo – morì dopo pochi mesi Papa Montini – di un Oltre che va contemplato e non ignorato. Sia pure senza etichette di alcun tipo, con ogni auspicabile pudore e riservatezza, ma senza fuggirne gli interrogativi ultimi e decisivi.

Molti “divinità finite”, e rifinite, sembrano da preferirsi ad un “Iddio infinito”.

Che noi siamo viventi in questa giornata di sole che inesorabilmente tramonta, nonostante la morte, sembra non dover più inquietare e meno che mai scandalizzare. L’amore si liquefa all’innalzarsi di temperature culturali necrofile.

Eppure reagiamo. Ci proviamo.

È questo il senso del nostro prossimo appuntamento a Trieste, domenica 20 maggio, quando incontreremo ed ascolteremo Ludovica Eugenio, direttore responsabile di Adista, testata che nel 1967 vide pubblicato il suo primo numero.

Sui 50 anni di questo prestigioso settimanale mi permetto di rinviare a considerazioni dello scorso mese di dicembre:https://sites.google.com/site/numeriprecedenti/numeri-dal-26-al-68/199997---dicembre-2017/numero-430---10-dicembre-2017/alla-sinistra-del-padre-i-cinquant-anni-di-adista.

I vaticanisti, le vaticaniste, sono interrogate – come ogni credente, benché adottando prospettive necessariamente diverse - dalla presenza scompaginante di un Vescovo di Roma proveniente da quell’America Latina che donò alla Chiesa la Teologia della Liberazione.

Può essere raccolto il testimone di chi, negli Anni Settanta, intravide gli orizzonti, oggi più prossimi, di un Vangelo che si fa liberazione.

Vi aspettiamo a Trieste domenica prossima.

E che questa sia già una bellissima domenica.

Stefano Sodaro