Perché credo che esista il Trascendente

God in nature and revelation (1875) - J.M. Woodman -

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Mi si contesta, proprio perché insisto nei miei articoli sulla necessità di pensare con la propria testa, di essere disincantati e razionali, di non essere poi così coerente, dal momento che finisco per parlare di un Dio che non possiamo conoscere, mentre, se fossi veramente razionale, dovrei anch’io credere che una realtà esista solo dopo averla potuta verificare, vedere, misurare, toccare con mano. Quindi il mio approccio non è logico, non è razionale, e non è neanche scientifico, e l’esistenza di Dio non è affatto argomentabile.

Con idee diametralmente opposte, un altro mi fa notare che non sono un vero credente cattolico, perché nei miei articoli dimostro chiaramente di non credere all’insegnamento del magistero, il quale ha da tempo spiegato che Dio può essere conosciuto con certezza con il lume naturale della ragione umana. Se solo credessi all’insegnamento della Chiesa non avrei più tanti dubbi.

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Certo, c’è sempre più bisogno di spiegare le cose scientificamente, ma Dio non lo si spiega scientificamente.

Avevo già cercato di chiarire nell’articolo Credi in Dio? al 437 di questo giornale (https://sites.google.com/site/numeriprecedenti/numeri-dal-26-al-68/199998---gennaio-2018/numero-437---28-gennaio-2018/credi-in-dio) che domandare se uno crede in Dio, e rispondere con un sì oppure con un no, sono domande e risposte che non dicono nulla, perché ciò che si pretende di domandare o affermare ci è sconosciuto. Quindi, come ha ben detto il teologo protestante Bultmann, parlare di Dio presuppone necessariamente un punto di vista esteriore a Dio, senza pensare di penetrare nella sua essenza. Se uno si mette a parlare mettendosi dalla parte di Dio (come invece fanno in tanti, convinti già di sapere tutto e di essere ormai in possesso della Verità Assoluta), pecca di presunzione, di dismisura. Per questo io parlo di Dio, ma solo del Dio descritto da Gesù nei vangeli.

Come ha poi opportunamente segnalato il teologo Vito Mancuso, prescrivere che si debba credere al magistero della Chiesa perché questo lo riconosce la ragione, significa mortificare la stessa ragione, in quanto qualcun altro (il magistero) ordina ciò che la ragione deve fare; invece ciò a cui può arrivare la ragione deve essere lei sola a stabilirlo, non certo l’autorità della Chiesa. Eppure c’è chi crede, basandosi esclusivamente sull’identità di chi parla, ritenendo che la verità della fede si misuri esclusivamente sulla conformità alla dottrina stabilita dalla gerarchia, tanto in campo dogmatico che morale. Ma in tal modo la ragione non c’entra più niente, e anzi si riconosce al magistero della Chiesa il diritto di limitare il pensiero delle persone che devono solo obbedirgli. Il problema, invece, è che non si può più togliere ad un altro l’ultima parola e riservarla a sé, imponendogli il proprio sapere. Perché dovremmo appagarci dell’eredità trasmessaci da persone che, per quanto sante e sagge, hanno semplicemente pensato prima di noi? Diceva il vescovo brasiliano Câmara: “Che io non sia la porta per andare al mio prossimo, condurlo a me e obbligarlo a percorrere le mie strade, a far sue le mie entrate, a dipendere dalle mie chiavi. Se la mia porta è Cristo, l’importante sarà aiutare ogni fratello a camminare verso il Padre rimanendo sé stesso” (Câmara H., Mille ragioni per vivere, ed. Cittadella, Assisi, 2000, 108). Forse per questo Helder Câmara era inviso al magistero.

Dunque, accettare a scatola chiusa ciò che ci ha insegnato il catechismo, sinceramente non mi riesce. Per fare un esempio, se dobbiamo credere in un Dio che è Padre, ma poi viene fuori che questo Padre offre salvezza facendo soffrire, non posso credere a simile insegnamento. Non credo cioè all’insegnamento secondo cui il male supremo e decisivo dell’essere umano è il peccato; a causa del peccato l’essere umano, che ha necessità di essere salvato, ottiene la salvezza mediante la sofferenza, come dimostra la morte in croce di Gesù. Che Dio abbia bisogno della sofferenza, del sangue e della morte per perdonare i nostri peccati, le offese che noi mortali gli abbiamo fatto, lo trovo semplicemente ripugnante. Se Dio è amore, non può manifestare questo suo amore con la sofferenza. Ma di questo parleremo un’altra volta.

Qui di seguito cercherò di chiarire perché, pur fra tanti dubbi, penso si possa ragionevolmente credere che esiste un mondo trascendente, chiamato comunemente e per semplicità “Dio”.

“Sono salito nello spazio”, diceva quell’astronauta russo, “ma guardando fuori dal finestrino non ho visto Dio.” Ma non vedere non significa automaticamente che ciò che non si vede non esiste. Sappiamo bene che molte cose esistono anche se non le vediamo: chi di noi ha visto gli atomi? Eppure tutti crediamo che esistano, perché ci fidiamo degli scienziati che hanno detto di averli visti. O, senza essere scienziati, noi tutti abbiamo sperimentato che esiste l’amore, l’amicizia, la dedizione: eppure, anche in questo caso, proprio nessuno li ha visti, neanche qualche scienziato. E così pure esiste l’odio, l’invidia, la delusione. Anche se non li abbiamo visti, forse li abbiamo sperimentati, ognuno a modo suo, per cui crediamo che esistano. Anzi, come si dice ne Il piccolo principe, l’essenziale è invisibile agli occhi.

Sono passati due millenni dal Vangelo di Giovanni, e nessuno ha ancora visto Dio (Gv, 1.18), nessuno ha mai dimostrato che Dio esiste. L’astronoma Margherita Hack, che pur si proclamava atea, riconosceva che la scienza e la ragione non sono in grado di dimostrare scientificamente con certezza né che Dio esista, né che non esista. A dire il vero, nessuno sa neanche dire chi è Dio e come è Dio: nemmeno la Chiesa. Qualcuno dice di averne fatto esperienza, e tutto quello che noi uomini possiamo sapere o possiamo dire, lo possiamo in effetti sapere e dire solamente a partire dalla nostra esperienza. Questo vale per sapere che esiste l’amore e l’odio, vale per sapere che esiste Dio.

Concordo sul fatto che la scienza non ha mai dimostrato l’esistenza di Dio, e per questo molti non ci credono. Ma la scienza, come ha detto il matematico ateo Odifreddi, non descrive la realtà, bensì soltanto la nostra esperienza di essa; ieri come oggi, studia solo i fenomeni naturali del mondo immanente, per cui porta solo la conoscenza della realtà materiale, ma non è in grado di dire nulla, proprio nulla, sui valori fondamentali dell’uomo. Avevo già un’altra volta richiamato quel profondo pensiero di Ionesco che suonava più o meno così: “La donna che nessuno ama, l’uomo cui diagnosticano un cancro, il pensionato solitario sulla panchina, colui che – nella lucidità spietata del risveglio - guarda allo specchio sul suo volto i segni del tempo, e si chiede che ci fa lì, che sarà di lui … nessuno di costoro sarà mai consolato dal politico, dal sociologo, dallo scienziato, che – per quel che conta davvero e per usare le parole del Vangelo - non sono che ciechi che guidano altri ciechi”.

Ora, nessuno va dal macellaio a chiedergli del latte. E allora, allo scienziato non si può domandare quello che non può dare: tutto ciò che la scienza può individuare riguarda sempre e solo il campo che il credente definisce col termine “creatura;” l’oggetto del suo studio può essere solo la realtà della materia (per il credente, creata); la scienza può rispondere a molti come, ma a pochi perché; men che meno può aiutarci a trovare Dio. Occorre interrogare bene la scienza su quello che sa, questo sì. Ci può dare alcuni dati della realtà immanente che conosce, ma niente di più. E la scienza afferma che la realtà è limitata: di questo nessuno dubita, né il credente, né l’ateo. Il gas si dilata e si concentra: abbiamo un continuo saliscendi, ma nessun gas contemporaneamente può essere dilatato e concentrato. Anche nell’uomo abbiamo un continuo saliscendi, un continuo evolversi, e per ciò stesso l’incompletezza. Se è giovane non è vecchio, se è vecchio non può essere giovane (al più, può solo pateticamente atteggiarsi a giovane). Quello che c’è ora non c’era prima, quello che c’era non c’è più.

La materia non ragiona, l’orologio non ragiona. Eppure il sistema, che è pacificamente incompleto, funziona. Come mai? Come l’orologio richiede l’esistenza di un orologiaio, forse anche l’ordine dell’universo richiede un ordinatore. Se nel sistema non si trova la completezza, è ragionevole pensare che essa venga dal di fuori: ci deve essere una realtà ultima e determinante della vita, qualcosa che non acquista e non perde, la si chiami Dio o le si dia un altro nome: Natura, Entità superiore, Principio ordinatore immanente nell’universo, Principio impersonale, Realtà ultima, Logos, o anche Caso. Possiamo anche chiamarla Dio o Allah: il nome poco importa. Anzi, già dare a Dio il nome di Dio è del tutto inappropriato, perché dandogli un nome lo si ridimensiona ad una specie di individuo conosciuto, e quindi limitato. Quando diamo un nome a Dio, sappiamo subito che questo nome è insignificante: Dio ha mille nomi; e, come dicono i musulmani, quando abbiamo raggiunto l’ultimo nome, scopriamo che c’è ancora un altro nome di Dio. Non solo non possiamo conoscere il contenuto del termine Dio, per cui non ha senso dare un nome a un quid che resta sconosciuto, ma c’è da aggiungere che Dio è tale solo per l’uomo, non certo per sé stesso, perché senza di noi e senza la nostra relazione con Lui, non sarebbe sicuramente chiamato Dio. Dio non è Dio di sé stesso, infatti Dio non dice mai «Io sono il mio Dio!», ma «Io sono il vostro Dio». Dio è il nostro Dio (Panikkar R.). Forse sarebbe più appropriato parlare di Mistero o di Enigma.

Il notissimo fisico Albert Einstein, che si dichiarava ateo, aveva affermato: “Sentire che dietro tutto ciò che si sperimenta si nasconde qualcosa che il nostro intelletto non può capire, qualcosa di cui la bellezza e l’elevatezza pervengono soltanto indirettamente e come un delicato riverbero fino a noi, sentire questo è la vera religiosità. In questo senso sono un ateo profondamente credente”. Einstein, cioè, non credeva nel Dio di nessuna religione, ma aveva questa fede universale. E nel suo testamento spirituale, anche il noto filosofo italiano Norberto Bobbio, che si dichiarava a sua volta ateo, concludeva: “Come uomo di ragione non di fede, so di essere immerso nel mistero che la ragione non riesce a penetrare fino in fondo, e le varie religioni interpretano in vari modi”. Anche questo filosofo che si dichiarava ateo credeva dunque nel Mistero, ma non nelle interpretazioni di questo Mistero che le varie religioni offrono. Siamo d’accordo: scientificamente è un non senso, perché è incomprensibile, in quanto non si può esprimere in formule. Ma quale scienziato riuscirebbe a esprimere oggi in formule le sensazioni dell’amore? Quando si entra in relazione con una persona, un partner, un amico, quale scienziato potrebbe avvicinarsi a questa relazione con criteri matematici, geometrici, scientifici? Quale scienziato potrebbe descrivere in formule il profumo di una rosa? Quale scienziato potrebbe esprimere in formule l’emozione che dà una musica? Perché ad uno quella musica dà emozioni fortissime, a un altro quella stessa musica non dice assolutamente niente? Sono tutte cose che non si vedono, non si toccano, ma che esistono. Allora la realtà non è fatta solo da ciò che si vede e si tocca.

Quello che possiamo dire, è che esiste la materia (che vediamo e tocchiamo), ma esiste anche qualcosa di diverso dalla materia. Là c’è il rosso, che si esprime in formule. Qui c’è il blu, o almeno non è più rosso. Noi, che siamo abituati a credere solo a quello che vediamo e tocchiamo, proprio come san Tommaso, siamo invitati ad un credere (a Qualcosa?) che non contraddice la ragione, anzi a Qualcosa cui la ragione tende, ma che non ci verrà mai dimostrato in questa vita utilizzando i nostri cinque sensi o tutta la nostra tecnologia.

Non è poi neanche vero che chi dice di credere solo a quello che può toccare, vedere e soprattutto verificare, sia coerente per tutta la sua vita, perché nella nostra vita tutti noi crediamo in continuazione a un mucchio di cose, anche quando non ne abbiamo la prova certa e dimostrata al cento per cento. Tutti hanno visto – almeno nei telefilm - come si svolge un’indagine poliziesca. Dunque, cosa si fa quando, indagando, ci si trova davanti a un indizio? La cosa non ci tocca molto per cui non se ne fa proprio niente. Se, però, a quel primo indizio ne segue un secondo, e poi un terzo e un quarto, la cosa comincia ad attirare l’attenzione. Se poi, alla fine dell’indagine, si saranno raccolti vari indizi, precisi, univoci e concordanti, la polizia, i tribunali e tutte le persone razionali riterranno che questi indizi equivalgano a una prova piena. Come se si fosse avuta una prova al cento per cento. Quindi, noi tutti crediamo in continuazione - in base alla nostra esperienza - a determinate cose, pur non avendo avuto, in questa vita, una dimostrazione assoluta e inconfutabile. Ci si accontenta di prove indiziarie purché siano logiche.

Certo, nei processi indiziari può succedere che un giudice dica bianco e un altro nero, ma questo è dovuto alla nostra limitatezza che ci lascia spesso nel dubbio, per cui è altrettanto normale che davanti ad indizi uno dica di credere che Dio esiste e uno dica di non credere. Gli indizi sufficienti per uno, non lo sono per un altro. Ma non si può dire che uno è razionale e l’altro non lo sia. È allora sicuramente logico e razionale sostenere che nessuno di noi possa, in questa vita, avere del Trascendente un’esperienza diretta, per il semplice fatto che noi - essendo finiti - non possiamo comprendere ciò che sta oltre il nostro orizzonte limitato (cfr. quanto detto nell’articolo Immanente e Trascendente di questo mese, https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/numero-494---3-marzo-2019/immanente-e-trascendente).

La ninfea nasce sott’acqua, ma in un’acqua torbida. Eppure tende verso l’alto, attirata da una luce che ancora non può vedere, ma di cui istintivamente si fida, che la fa salire, la fa crescere, finché all’improvviso ... ecco che sbuca in superficie, raggiunge l’aria e la luce del sole, e a quel punto il fiore si apre e fiorisce in tutta la sua bellezza. Se la pianta si fosse accontentata della sua prima visione iniziale, avrebbe detto: “In che mondo schifoso mi hanno fatto nascere; qui è tutto buio, fango e umido. Se questa è vita, tanto vale morire subito.” Noi, dall’esterno, che siamo in grado di vedere tutto il ciclo, diremmo che quel fiore è un cretino, ma per il fiore che non riesce a vedere la luce del sole il ragionamento non fa una grinza, no? Perché dovrebbe essere convinto che, dopo quella prima vita nel fango, avrà la possibilità di schiudersi all’aria e alla luce e sbocciare in tutto il suo splendore?

Se io mi trovo all’interno di un triangolo, ho sotto controllo tutti e tre i lati, se solo ruoto di 360° (vogliamo chiamarli passato, presente e futuro?). Se sto all’esterno, posso vedere solo un lato (il presente), anche se giro su me stesso, perché gli altri sono dietro all’angolo: il passato non lo vedo più, il futuro non l’ho ancora visto. Però esistono.

Quando un bambino nasce, non sa razionalmente cosa vuol dire mangiare, eppure cerca da subito qualcosa che nemmeno sa che esiste (il latte della mamma), e quando l’ha trovato si acquieta.

Noi tutti abbiamo bisogno dell’acqua. Guardate cosa ha detto questo pensatore indiano che non crede certamente all’immagine di Dio che ci siamo fatti noi occidentali: “Ogni essere vivente ha bisogno di acqua. Il sapore dell’acqua è così gradevole che niente è meglio dell’acqua quando siamo assetati. Nessuna industria è in grado di ricreare il puro sapore dell’acqua. Così possiamo ricordarci di Dio quando beviamo l’acqua. Nessuno può fare a meno di bere acqua ogni giorno della sua vita, è così la consapevolezza di Dio l’abbiamo lì davanti – come si fa a dimenticarla?” (Bhaktivedanta Swami Prabhupada, On the way to Krsna, ed. Bhaktivedanta Book Trust, Bombay, 1981, p.40).

Tutto questo ci fa pensare che quando c’è un bisogno istintivo ci deve essere parimenti una sorgente reale, e non meramente illusoria. Se c’è un bisogno, infatti, ci dovrà pur essere da qualche parte la causa di questo bisogno. Perché allora non dovrebbe essere così anche per il divino? Se in tutte le epoche è stato cercato, anche solo per confutarlo, anche non volendolo e quindi solo per tentare di cancellarlo, non è che questo divino esisterà pure da qualche parte, o in qualche modo? Insomma, anche se l’uomo riesce a radiare Dio dalla sua vita, non riesce mai a cancellare la sua sete di Dio. Ci sarà pure un motivo!

Sarei ovviamente presuntuoso se pensassi di poter mettere a fuoco l’inconoscibile. Ma sono convinto di poter fornire una serie di indizi tali per cui mi sembra del tutto ragionevole sostenere che sopra di noi c’è un’Intelligenza Superiore, anziché il niente. L’antico filosofo greco Parmenide aveva chiarito: per definizione, il non-essere deve non essere niente; se però esistesse, sarebbe appunto il non-essere; ma niente può allo stesso tempo non essere ed essere. Dunque, l’apparizione improvvisa di una cosa non può venire dal nulla, mentre se l’apparizione di una cosa si basa su un’altra cosa, non si giunge mai a un risultato che sia davvero l’ultimo. Si torna dunque all’idea di una prima causa per mettere fine a un infinito percorso all’indietro.

Chi non crede all’esistenza di un Creatore-Prima causa che fa funzionare la materia che non ragiona, dice che il mondo è nato per caso, che l’universo funziona per caso, che la vita su questo pianeta è nata per caso; che, per una serie di cause piccole, indipendenti e imponderabili, che sfuggono ad ogni previsione, la materia - che non ragiona neanche per il non credente - riesce in un certo modo a funzionare. Innanzitutto resta da chiarire da dove arriva la materia. C’è stato il big-bang? Va bene, ma il big-bang non è avvenuto nel nulla più assoluto: già c’era qualcosa che è rimasta coinvolta nel big-bang. E da dove arrivava questo qualcosa? Poi, parlare di un colpo fortuito non spiega assolutamente nulla. Il fisico agnostico Davies Paul ha ammesso che una sintesi puramente fortuita delle proteine può essersi formata con una probabilità su 10 alla 40.000 potenza; o come è stato più visivamente prospettato dall’astrofisico Hoyle Frank, quell’unica probabilità corrisponde ad un tornado che avesse spazzato un deposito di materiali producendo un Jumbo 747 perfettamente funzionante (Davies P., Da dove viene la vita, ed. Mondadori, Milano, 2000, p.100).

È allora poi così ragionevole insistere nel dire che l’universo riesce a funzionare per caso? Da noi, per caso, non funzionano neanche i treni. E tutti concordano sul fatto che ci vogliono migliaia di intelligenze per far funzionare in maniera decente un sistema di trasporti. Qui da noi, nessuno sa dire oggi, con assoluta certezza, l’ora esatta in cui arriverà domani a Venezia il treno che parte da Trieste alle ore 6.08: eppure deve fare solo 150 chilometri. Men che meno nessuno sa dire a che ora arriverà lo stesso treno in data 18/9/2020. Eppure, qualunque astronomo sa dire esattamente in che giorno e a che ora sarà visibile la Cometa di Halley, che torna visibile ogni 76 anni, dopo aver percorso nello spazio milioni e milioni di chilometri; non 150 chilometri! Come mai? Puro caso? A me sembra molto più logica un’altra spiegazione: il treno l’ha costruito l’uomo; la terra, la Cometa di Halley, l’universo tutto, no. L’universo è stato costruito da un altro Ingegnere, e per quello che si vede, con un’intelligenza enormemente superiore a quella di tutti i nostri ingegneri messi insieme.

Lassù nel cielo i pianeti seguono rotte precise che spaccano il secondo, le comete vanno e vengono dopo secoli, miliardi di astri funzionano come orologi svizzeri, e tutto ciò dovrebbe avvenire per puro caso? Sono gli scienziati a dirci che la terra ci trascina nello spazio a 30 km/sec nel suo viaggio annuale attorno al sole; che il sole, a sua volta, ci porta a spasso come in un girotondo per la Via Lattea, a 320 km/sec. La Via Lattea, poi, si sposta verso la Galassia Andromeda a 90 km/sec., e queste che poi sono galassie locali, viaggiano a circa 600 km/sec verso l’ammasso della Vergine: al secondo, dico, non all’ora. E questo sarebbe solo frutto di fortunate coincidenze? Sarebbe puro caso se la terra e i pianeti non precipitano sul sole, se il sistema solare non si stacca dalla nostra galassia e non finisce in rotta di collisione con altre stelle? Può darsi. Ma stando al puro calcolo delle probabilità, quante probabilità c’erano che l’universo funzionasse come funziona? Una probabilità su quante migliaia di miliardi? E poi, non basta che l’universo funzioni così in quel momento, ma deve continuare a funzionare così minuto dopo minuto, giorno dopo giorno, anno dopo anno, secolo dopo secolo, millennio dopo millennio, visto che la sola terra esiste – secondo i nostri scienziati – da almeno quattro miliardi e rotti di anni e, almeno secondo quello che dicono sempre gli scienziati, altrettanto dovrebbe durare prima che il sole collassi. Qui devo dar ragione al cardinal Ratzinger: siamo piuttosto di fronte ad una manifestazione di potenza cosmica!

E restando a ciò che comunemente chiamiamo “caso,” chi di noi si sentirebbe sicuro su un aereo senza pilota che dovesse affidarsi al solo caso per atterrare all’aeroporto? E la terra, se governata dal caso, non sarebbe simile a quell’aereo? Se uno di noi sapesse che il pilota del suo volo è accasciato sui comandi sarebbe semplicemente terrorizzato, perché ognuno di noi crede alla statistica, e sa bene che ogni secondo che passa aumenta la probabilità della catastrofe. E allora, come mai nessun ateo è terrorizzato dall’idea che l’astronave-terra viaggi nel cosmo senza pilota affidandosi al caso? Ogni ateo, se fosse logico e coerente fino in fondo, dovrebbe impazzire di paura se veramente credesse che l’attuale orbita della terra sia stata decisa dal cieco caso, e che ormai, sui dadi dell’orbita, esca lo stesso numero da più di quattro miliardi di anni.

Allo stesso modo dovrebbe vivere angosciato sapendo che, se il valore costante gravitazionale diventasse anche assai di poco più alto, l’universo collasserebbe: e allora come si può contare tranquillamente sul puro caso fidando che la catastrofe non si verifichi?

La sproporzione che c’è fra la nostra limitatezza e inadeguatezza di fronte alla smisuratezza dell’universo, tra le cose visibilmente esistenti e le loro cause, mi fa intuire - non ovviamente vedere – l’esistenza di qualcosa, di un Quid più grande, che resta un mistero e che per tutti noi resta fonte di continua ricerca. Ma sicuramente mi sembra più razionale credere all’esistenza di un’Intelligenza superiore piuttosto che al cieco caso.

Pensate a una casa: per mantenere l’ordine occorre sempre immettere lavoro, altrimenti dopo un po’ prevale naturalmente il disordine: in quante case siamo entrati per lo meno pensando: “che casino qui dentro! Sicuramente il giorno dell’inaugurazione in quella casa c’era più ordine.” O cosa avete pensato quando avete visto una villa ormai abbandonata dentro un parco, pure lui abbandonato? Non avete pensato: “come doveva essere bello qui, quando tutto era in ordine!” Ma l’ordine, la manutenzione, non avvenivano mica per caso: qualcuno lavorava con intelligenza per mantenere la villa ed il parco in buon stato. Nessuno di noi, neanche l’ateo, pensa che la villa ed il parco potessero essere ben curati dal caso. La vita, sul nostro pianeta, è sempre andata verso un aumento dell’ordine, e non del disordine: dal batterio si è arrivati all’uomo. Come mai? Forse perché c’è Qualcuno che noi non vediamo, ma che continua a immettere energia vitale, che lavora per mantenere l’ordine in questo nostro pianeta-casa. E, come racconta la Genesi, se in alto c’è Dio e in basso il caos informe della materia che attende le forze divine per raggiungere forma e bellezza, anche noi uomini portiamo in noi questo disordine caotico della creazione non ordinata e rischiamo continuamente di cadere in questo vortice e di venirne deformati e risucchiati (Vannucci G.).

Dall’enorme universo, al microscopico mondo degli atomi tutto continua a muoversi secondo regole precise. Anche su questo nostro piccolo pianeta, solo recentemente l’uomo ha cominciato a rendersi conto dei disastri che riesce a fare grazie alla sua intelligenza, e dei delicatissimi meccanismi che invece permettono a una certa specie di sopravvivere: basta un niente, e quell’equilibrio apparentemente perfetto si spezza, e avviene uno sconquasso a catena. Anche qui, tutti quei delicatissimi equilibri sarebbero stati raggiunti per caso? Può darsi. Ma com’è che continuano a funzionare per caso? Com’è che basta l’uomo, quel microbo dell’universo, per portare uno squilibrio irreversibile? E a sua volta basta un microbo vero per annichilire in un batter d’occhio l’uomo, che spesso si sente preso da un delirio di onnipotenza. Se c’è una probabilità su un miliardo, una volta verificatosi il fatto si torna a partire da una probabilità su un miliardo. E come mai il caso che ha costruito continua a mostrarsi più intelligente di noi uomini – che ci reputiamo tanto intelligenti - che in un attimo siamo riusciti a distruggere quello che il caso avrebbe costruito pazientemente in milioni di anni?[1] Per definizione il caso non può essere intelligente.

Ma non è semplicemente fantastico che le rondini, pur essendo grandi come il palmo di una mano e abbiano un peso di non più di 25 grammi, si riuniscano e trasvolino da un continente all’altro tutte assieme, senza perdere la rotta, senza impianti radar a terra, senza radio-fari che le guidano; e una volta arrivate qui da noi non vadano a intasarsi tutte nello stesso posto, come facciamo noi - creature intelligentissime - nelle nostre città, ma si distribuiscano equamente sul territorio? Puro caso? Coincidenze? Può darsi. Ma, di nuovo, tutte queste coincidenze non vi sembrano un po’ troppe? È difficile riferirsi al caso, al cieco e fortuito gioco dei dadi, perché uno che si dichiara ateo e fosse realmente coerente, cioè uno che crede solo alla mera probabilità e fa affidamento solo sulle leggi della statistica, non potrebbe vivere come vive, ma dovrebbe vivere terrorizzato: fra il credente e l’ateo, solo il credente potrebbe dormire tranquillo di notte coerentemente confidando che il Padreterno abbia costruito l’universo e che la terra non cambierà a casaccio l’orbita durante la notte; l’ateo no! Nessun ateo, che non è ingegnere, si fiderebbe mai a costruire a Genova il nuovo ponte Morandi, perché non sa come si costruiscono i ponti mentre sa che è rischioso costruirli. Eppure, anche l’ateo, pur non avendo la più pallida idea di come si costruisca un uomo, non ha remore a mettere in cantiere un bel pupo; al pari del credente si fida evidentemente (di Qualcosa?): da qualche parte si sa come fare, perché lui proprio non sa come si fa. Dunque, se l’ateo credesse veramente solo al cieco caso, alla statistica, e poi non vivesse terrorizzato, sarebbe lui a non essere razionalmente coerente col suo credo, perché il caso potrà forse capitare anche qualche volta, ma quando continua a ripetersi con assoluta costanza non è più un caso. Chi crederebbe al caso se la stessa persona continuasse a vincere tutte le settimane al superenalotto?

E la probabilità di indovinare il 6 al superenalotto è di solo una probabilità su 622.614.630, mentre si è visto che una sintesi fortuita di una proteina è di una probabilità su 10 alla 40.000 potenza. Moltiplicare la base 10 quarantamila volte, vuol dire che il risultato non starebbe in questa pagina.

Dunque, con la ragione riusciamo al massimo a intuire il volto di un principio superiore ordinatore dell’intero universo. Non siamo in grado di dire molto di più. Ma il più delle volte, chi nega l’esistenza di Dio nega, con piena ragione, solo una determinata concezione di Dio che gli è stata prospettata o in cui si è imbattuto: nega un’immagine di Dio che in realtà è solo un idolo. E qui non posso dargli torto.

Ricordate che il noto filosofo Bertrand Russel aveva posto il racconto del fico maledetto fra i motivi della propria incredulità verso Cristo, visto che l’albero non ha chiaramente nessuna colpa (cfr. articolo Guai a voi! al n. 487 di questo giornale, https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/numero-487---13-gennaio-2019/guai-a-voi).

Anche la scienziata Rita Levi Montalcini diceva di non poter credere in Dio: “Non posso credere in un dio che ci premia e ci punisce, in un dio che ci vuole tenere nelle sue mani. Ognuno di noi può diventare un santo o un bandito, ma dai miei studi ciò dipende dai nostri primi tre anni di vita, non da dio”. Abbiamo visto il mese scorso la storia di Caino e Abele, dove Dio stesso sembra scatenare il conflitto accogliendo per capriccio il sacrificio di uno e respingendo quello dell’altro: ovvio che non si può credere a simili immagini di Dio.

Il problema è che, avendo la religione (ogni religione) il privilegio di essere essa la «rappresentazione» del Trascendente che non sta alla nostra portata, porta in sé il pericolo di rappresentare tutto questo mediante idee, valori, immagini che finiscono nello scontro, nell’esclusione di chi la pensa differentemente. Per questo molta gente ha difficoltà ad accettare il Dio raccontato dalla religione. E per questo chi parla di Dio ha sempre un’enorme responsabilità. La Costituzione pastorale sulla Chiesa – Gaudium et spes, del 7.12.1965 -, al § 19 ult. co., ha espressamente riconosciuto che nella genesi dell’ateismo possono contribuire non poco i credenti, nella misura in cui, per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione ingannevole della dottrina, od anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale, piuttosto che manifestare il genuino volto di Dio e del cattolicesimo lo nascondono.

Dario Culot

[1] È bene riportare il motto di Greenpeace: “La terra esiste da quasi 4.600.000 di anni. Si potrebbe paragonare la sua vita a quella di un uomo di 46 anni. In questo caso, dei primi sette anni non si sa assolutamente nulla; poco si conosce fino ai suoi 42 anni, quando cominciò a fiorire. I dinosauri comparvero all’età di 45 anni, e i mammiferi otto mesi prima dei 46. Continuando così, l’uomo moderno esisterebbe solo da quattro ore, e da un minuto è iniziata la rivoluzione industriale. In questi 60 secondi egli è riuscito a trasformare un paradiso in una discarica di rifiuti, ha causato l’estinzione di 500 specie di animali e si trova sull’orlo di una guerra che potrebbe portare all’annientamento di questa oasi di vita nel sistema solare.” Diceva allora bene già Sofocle: molte cose sono terribili, ma nulla è più terribile dell’uomo.