Fine del maschile, fine del femminile?

Tramonto a Trieste - foto del direttore

In questo numero del nostro giornale pubblico di seguito il testo della mia relazione tenuta venerdì 8 febbraio presso l’Auditorium “Vivaldi” di Cassola, vicino a Bassano del Grappa, su iniziativa dell’Unità Pastorale “San Giuseppe e San Zeno” di Cassola e cui ha partecipato anche Rita Torti, appartenente al Direttivo del CTI (Coordinamento Teologhe Italiane).

Oggi Giornata del Ricordo, domani sesto anniversario della rinuncia al pontificato da parte di Benedetto XVI e novantesimo anniversario dei Patti Lateranensi. Le memorie si intrecciano, le coordinate della Storia si incrociano. Trova spazio, deve trovarlo, il silenzio, la riflessione, la meditazione, oltre che l’analisi e lo studio.

Lo struggimento, anzi lo strazio, che si accompagna spesso alla memoria, è dimensione maschile o femminile?

Per quanto mi riguarda, vorrei disarticolare le appartenenze culturali di genere e provare a guardare verso nuovi orizzonti.

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Vengo da Trieste ed un’incursione letteraria mi pare pertanto non solo opportuna ma quasi doverosa.

Trieste infatti vive sospesa tra una letteratura che ha attraversato le profondità della psiche umana con una capacità di penetrazione, permettete che lo dica, non ravvisabile in altre città ed in altri contesti - giacché a Trieste tutto sembra mentale e tutto non detto ancora appieno, tutto di là da venire, senza conoscere, senza comprendere bene come, quando e perché -, dicevo che vive sospesa, la mia città, tra queste istanze e le urgenze e contingenze della Storia.

Con una immagine di viva intensità, qualcuno ha detto che Trieste è come un treno che si sia schiantato a tutta velocità contro il Novecento, “prendendolo” in pieno.

Anche per questo – ma lo registro solo en passant – la teologia a Trieste non si è mai mossa con totale agio, ha faticato a cogliere non il carattere policromatico e multiculturale, no, anzi (ma questo forse è stato più congeniale alla sua vita pastorale), però si è trattenuta davanti alle domande di un sapere laico, affrancato da qualunque ipoteca filosofica o religiosa, quasi “mercantile” per così dire. La laicità di Trieste è in certo modo un’imposizione culturale, se non la si accetta si resta ai lati, non si entra nella vita della città.

Leggo dunque alcuni passi dal racconto “Un incontro” che si trova in Gente di Dublino di James Joyce, uno scrittore cardine della letteratura del Novecento e che è stato segnato indelebilmente da lunghi periodi di vita trascorsi a Trieste:

«L’uomo, tuttavia, si limitò a sorridere. Vidi che in bocca aveva grandi vuoti fra i denti gialli. Poi ci chiese chi dei due avesse più innamorate. Mahony disse in tono frivolo che aveva tre pupe. L’uomo mi chiese quante ne avevo io. Risposi che non ne avevo nessuna. Non mi credette e disse che era sicuro che dovevo averne una. Rimasi zitto. «Ci dica» disse con insolenza Mahony all’uomo «lei quante ne ha?» L’uomo sorrise come prima e disse che quando aveva la nostra età aveva molte innamorate. «Tutti i ragazzi» disse «hanno una piccola innamorata.» Il suo punto di vista mi colpì come stranamente liberale per un uomo di quell’età. In cuor mio pensavo che quanto diceva sui ragazzi e le innamorate era ragionevole. Ma quelle parole non mi piacevano in bocca a lui e mi domandai perché rabbrividisse una o due volte come se avesse paura di qualcosa o come se sentisse improvvisamente freddo. Mentre continuava notai che l’accento era buono. Ci cominciò a parlare di ragazze, dicendo che bei capelli soffici avevano e come erano morbide le loro mani e come tutte le ragazze non erano buone come sembravano se uno soltanto le conosceva. Non c’era niente disse, che gli piaceva tanto come guardare una bella ragazza, le belle mani bianche e i soffici bellissimi capelli. Ebbi l’impressione che stesse ripetendo qualcosa che aveva imparato a memoria o che, magnetizzata da certe parole del proprio discorso, la sua mente continuasse a girare lenta nella stessa orbita. A volte parlava come se alludesse semplicemente a qualche fatto che tutti conoscevano, e a volte abbassava la voce e parlava misterioso, come se ci raccontasse qualcosa di segreto che non desiderava fosse udito da altri. Ripeteva le frasi più e più volte, variandole e accerchiandole con la voce monotona. Continuai a fissare il fondo del pendio, ascoltandolo. Dopo un bel po’ il monologo si interruppe. L’uomo si alzò lentamente, dicendo che ci doveva lasciare per un minuto circa, per pochi minuti e senza cambiare direzione al mio sguardo, lo vidi allontanarsi lentamente verso l’estremità vicina del campo. Rimanemmo in silenzio quando se ne fu andato. Dopo un silenzio di pochi minuti udii Mahony esclamare: «Ehi! Guarda cosa sta facendo!». Dato che non risposi né alzai gli occhi, Mahony esclamò di nuovo: «Ehi, dico... È un tipo molto strano!». «In caso ci chiedesse i nostri nomi» dissi «tu sei Murphy e io sono Smith.» Non ci dicemmo altro. Stavo ancora considerando se andarmene o no quando l’uomo tornò e si risedette accanto a noi. Si era appena seduto che Mahony, vedendo la gatta che gli era sfuggita, saltò su e la inseguì attraverso il campo. L’uomo ed io osservammo la caccia. La gatta fuggì ancora una volta e Mahony cominciò a tirare sassi al muro che aveva scalato. Rinunciandoci, cominciò a vagare senza scopo per il lato opposto del campo. Dopo un intervallo l’uomo mi parlò. Disse che il mio amico era un ragazzo molto violento e chiese se veniva frustato spesso a scuola. Stavo per rispondere con indignazione che non essendo ragazzi delle scuole pubbliche non eravamo frustati, come diceva lui, ma tacqui. Cominciò a parlare dei castighi da dare ai ragazzi. La sua mente, come magnetizzata di nuovo dal proprio discorso, sembrò continuare a girare lentamente intorno al suo nuovo centro. Disse che quando i ragazzi erano di quel genere dovevano esser frustati e frustati bene. Quando un ragazzo era violento e indisciplinato niente gli avrebbe potuto fare bene se non delle buone frustate. Uno schiaffo sulla mano o un ceffone sull’orecchio non servivano a niente: quel che gli ci voleva era prendersi una bella frustata. Mi meravigliai di tale opinione e involontariamente detti un’occhiata alla sua faccia. Mentre così facevo incontrai lo sguardo di un paio di occhi verde bottiglia che mi scrutavano da sotto una fronte contratta. Distolsi di nuovo gli occhi. L’uomo continuò il suo monologo. Sembrava avere dimenticato le idee liberali di poco prima. Disse che se mai avesse trovato un ragazzo che parlava alle ragazze o che aveva una innamorata l’avrebbe frustato e frustato; e ciò gli avrebbe insegnato a non parlare alle ragazze. E se un ragazzo diceva bugie perché aveva una innamorata, allora gli avrebbe dato tante di quelle frustate come nessuno se le era mai prese a questo mondo. Disse che non c’era niente al mondo che gli sarebbe piaciuto altrettanto. Mi descrisse come avrebbe frustato un ragazzo del genere, come se stesse svelando un qualche elaborato mistero. Sarebbe stato felice di farlo, disse, più di qualsiasi altra cosa al mondo; e la sua voce, mentre mi conduceva monotona attraverso il mistero, divenne quasi affettuosa e sembrò supplicarmi che lo capissi. Attesi finché il monologo si interruppe di nuovo. Allora mi alzai bruscamente. Per paura di tradire il mio turbamento indugiai qualche secondo, facendo finta di allacciarmi bene la scarpa, poi, dicendo che ero obbligato ad andare, lo salutai.»

La lettura lascia – credo - una sensazione spiacevole, non confortante, anzi di profonda inquietudine, addirittura di disagio. Vorremmo, penso, prendere le distanze da un episodio del genere.

Quell’uomo che i ragazzi incontrano – “Un incontro” s’intitola il racconto, appunto – fa sintesi in se stesso di polarità che restano inconciliabili, o meglio parla, in maniera abbastanza esplicita, di comportamenti, di modi di fare, tutti oggettuali, sia all’inizio sia alla fine. Le ragazze, i ragazzi sono oggetti di suo desiderio.

E forse il disagio che proviamo è proprio quello di una constatazione del trionfo degli oggetti nella personalità di quest’uomo dagli occhi verde bottiglia, del naufragio di qualunque soggettività. La seduttività libertina da una parte, che diventa quasi un mito, la perversione sadica dall’altra che spaventa chi ascolta. Ma non voglio correre.

Cambio totalmente registro d’analisi e riferimento letterario.

Teniamoci addosso questa sensazione sgradevole e vediamo se sia possibile neutralizzarla con un’altra lettura.

Lettera di Paolo apostolo ai Galati, capitolo 3, versetti 27 e 28:

ὅσοι γὰρ εἰς Χριστὸν ἐβαπτίσθητε, Χριστὸν ἐνεδύσασθε·

οὐκ ἔνι Ἰουδαῖος οὐδὲ Ἕλλην, οὐκ ἔνι δοῦλος οὐδὲ ἐλεύθερος, οὐκ ἔνι ἄρσεν καὶ θῆλυ· πάντες γὰρ ὑμεῖς εἷς ἐστε ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ.

Traduzione latina:

“Quicumque enim in Christum baptizati estis, Christum induistis: non est Iudaeus neque Graecus, non est servus neque liber, non est masculus et femina; omnes enim vos unus estis in Christo Iesu.”

In italiano finalmente: “Poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo.

Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù.”

Né giudeo né greco, né schiavo né libero, non più uomo né donna.

Così questa versione in italiano, quella che conosciamo e frequentiamo noi cattolici (di rito latino).

Tuttavia, la traduzione del Nuovo Testamento della Società Biblica Britannica e Forestiera e della Società Biblica in Italia (la traduzione protestante, insomma, per capirci, pubblicata nel 2017) specifica e varia rispetto alla versione da noi frequentata, rivelandosi più fedele all’originale. Traduce precisamente con “neppure maschio e femmina”.

L’assenza del doppio “né” nel testo greco, per dirla con una battuta, “peggiora le cose”. Maschile e femminile uniti, che – assieme – non ci sono più.

Prendo fiato un attimo, mi fermo.

Dice Paolo: non c’è. [1]

Né né, nel “nostro” italiano. Oppure “neppure”. Neppure “maschile e femminile”, divenuto quasi un tutt’uno e non più esistente dunque. Merita rimeditarlo.

Ma dunque è sparito? È una domanda.

In ogni caso, non c’è. Non c’è più.

Prima annotazione: teologia al negativo, “apofatica” seguendo la patristica.

Dire ciò che nell’esperienza di fede non si sa, non si può sapere, non si è, non si può essere, e non invece ciò che si crede di sapere e di essere. Un rovesciamento completo, un capovolgimento.

Una seconda annotazione.

Il testo italiano in uso nelle nostre Comunità (cattoliche, per capirci) traduce, lo si è visto, che “non c’è più uomo né donna”, ma Paolo usa aggettivi piuttosto crudi, che rinviano precisamente a “maschile” e “femminile”: “ἄρσεν/arsēn” – addirittura al neutro, con l’epsilon (ε), non con l’eta (η) che designerebbe un uomo maschio –, il che vuol dire “maschile nei suoi tratti specificamente anatomici, strettamente fisici”, e “θῆλυ/thēly”, di nuovo al neutro, che vuol dire pure “femminile nel suo aspetto fisico”, in quelle specificità del corpo che fanno assegnare la donna al suo sesso naturale (come si sostiene, benché sia proprio la natura il grande problema come proverò subito a commentare).

Paolo insomma sembra riferirsi proprio al “maschile” ed al “femminile” – grammaticalmente neutri – e dunque con quelle caratteristiche di universalità essenzializzante, ontologica, che noi, in particolare noi cattolici, conosciamo molto bene. Ciò che è maschile e ciò che è femminile. Una tassonomia.

Bene.

Ciò che è maschile e ciò che è femminile non c’è. Non c’è più.

Parola di Dio.

Rendiamo grazie a Dio.

Proprio con riguardo a ciò che è maschile e a ciò che è femminile, Paolo – la cui paternità della Lettera ai Galati è ormai comunemente accettata – afferma che il Battesimo in Cristo rende realtà superata, vecchia, passata, tale essere l’uno o l’altra – o l’essere l’uno “e” l’altra -, come quella dell’essere giudeo o greco, schiavo o libero.

Sembra un salto logico scorretto ed inaccettabile: essere giudeo e greco ha a che fare con la legge di cittadinanza, con la cultura di provenienza, con l’origine della nascita e così pure schiavitù e libertà, ma non certo il maschile ed il femminile. Eppure Paolo è perentorio: non c’è più uomo né donna perché tutti siete uno in Cristo Gesù.

La formula è senza alcun dubbio battesimale [2]. Proprio qui tuttavia si addensano alcuni altri interrogativi, proveremo a vedere.

Lo dice del resto esplicitamente l’autore stesso: accanto all’immergersi – ciò che vuol dire il verbo greco “baptízo” -, qui c’è un “rivestirsi”, “endyō” – e dunque uno spogliarsi precedente che l’immersione richiede (perché si tratta di immersione concreta nell’acqua, non simbolica, non per modo di dire) -.

Spogliarsi del maschile e del femminile.

Mi rendo conto della portata provocatoria, al limite dell’intollerabile, di una simile conclusione e cerco di articolare, ma non di sminuirne la forza dirompente, “disruptive” come usa dire l’inglesismo all’ultima moda.

Accanto allo spogliarsi del maschile e del femminile che, come l’essere greco o giudeo, schiavo o libero, non c’è più dopo il Battesimo, c’è qualcosa d’altro, di notevole, di strano persino, per così dire, perché non facilmente descrivibile per via affermativa, positiva, quanto piuttosto – di nuovo – per via negativa: l’essere uno in Cristo Gesù.

Si capisce subito che sia sorta una domanda immediata: siamo davanti al recupero e ad una valorizzazione dell’androgino gnostico?

Se la differenza sessuale è di origine divina – come insegna la dottrina -, come può la pur doverosa tensione verso l’abbattimento, il superamento, delle disuguaglianze condurre anche ad una specie di azzeramento delle differenze?

Gli studiosi ci tengono – lo si comprende bene – a precisare subito che Paolo voleva eliminare la disuguaglianza tra i sessi, mentre gli gnostici volevano eliminare la loro distinzione.

Però – in tutta modestia – mi chiedo: è proprio così? Cioè: davvero va in qualche modo corretta quella formula battesimale della Lettera ai Galati perché pericolosa nel suo tenore letterale?

Ci fa sicuramente enorme problema, ma essa sta lì nella sua pregnanza letteraria. Con un maschile neutro e un femminile neutro.

E dunque?

La mia personale chiave di lettura è questa, e me ne scuso se sono forse troppo sbrigativo e probabilmente molto presuntuoso, sicuramente anzi: a me pare che il carattere battesimale dell’affermazione paolina certifichi il carattere tutto “pratico” della fede cristiana.

Spiego, naturalmente (oibò, la natura sempre di mezzo…).

La fede cristiana non è un convincimento etico, una morale, non è una regola di condotta. È fede in un gesto, nel gesto di credere. Perché credere è un fare, come lo è l’amore.

Si fa la fede come si fa l’amore. L’incarnazione è un fare, un farsi, da parte di Dio.

Gesù di Nazaret annuncia la buona notizia di un fare che salva.

Ma quell’essere uno in Lui, riconosciuto come Cristo, che vuole significare?

Il ritorno all’Uno oggi è molto screditato.

La formula paolina – “in Cristo” – è stata molto spesso usata, anche nella recente storia della nostra Chiesa, per depotenziare ogni conflitto, ogni aspirazione ed ogni anelito di rinnovamento profondo, ogni orizzonte di impegno verso l’utopia, ogni incamminamento verso quel “luogo che non c’è”.

“In Cristo” è diventato codice sintetico, quasi sincopato, per legittimare un’accettabilità mediana di proposte altrimenti conturbanti – antiborghesi – se non proprio scandalose. Anche le piste della ricerca ecclesiologica sono state bloccate da questo codice “in Cristo”.

Per esemplificare un po’ genericamente, senza troppe specificazioni: amare è una cosa, ma amare “in Cristo” sarebbe tutt’altra cosa, quasi opposta. La scorsa domenica, un commento omiletico all’Inno alla Carità si è avviluppato proprio intorno a questa pretesa: concretezza amorosa umana e concretezza amorosa cristiana sarebbero non interscambiabili.

Solo che c’è un problema: “Dio era in Cristo” (così s’intitola uno degli ultimi lavori di Fulvio Ferrario, decano della Facoltà valdese di teologia).

Ed allora è l’immagine di Dio a venire in discussione, a dover mettersi a tema. Niente di più, ma anche niente di meno.

La tensione all’unità non è benedizione come che sia, sempre e comunque. Anche una violenza può tutta riversarsi nell’unione fisica, oggettiva, oggettuale.

L’amore cristiano è un fare perché la fede cristiana è un fare.

La tensione all’unità allora, se non è predica moraleggiante ma confessione teologica, tira in ballo Dio nel Cristo confessando tuttavia che l’unità di Dio è di tre, non di due.

Il tema del “terzo” è culturalmente fondamentale, prima ancora che teologicamente, eppure tutto congiura contro il “terzo”, dobbiamo riconoscerlo. E non di certo solo in chiesa.

Mi permetto di raccomandare la lettura di uno studio della biblista Marinella Perroni, intitolato “Una sessuazione non segregante: il «terzo sesso» interpella la Bibbia”, che si trova all’interno del volume L’enigma corporeità: sessualità e religione, a cura di Antonio Autiero e Stefanie Knauss, EDB 2010, pp. 55-74.

Leggo a p. 69 quanto scrive la Perroni: «Mi rendo conto di andare controcorrente, vista la facilità con cui oggi si continua a insistere nella difesa di una metafisica dei sessi e della legge naturale, oppure ci si fa prendere la mano dalla retorica personalistico-relazionale e dalla sua mistica della sessualità. Sono convinta, però, che l’impianto della teologia biblica della creazione stia nell’affermazione della distinzione tra Dio e il mondo la quale, oltre che unica condizione per l’esistenza stessa del mondo, è unico presupposto per l’alleanza come rapporto elettivo. Fin dall’alba della teologia speculativa evidente è stata la difficoltà delle interpretazioni ad accettare che l’originaria portata dei racconti biblici di creazione fosse limitata all’affermazione del vincolo tra genus e species e alla conseguente comprensione della sessuazione non come principio ontologico, ma in termini esclusivamente funzionali all’ordine riproduttivo. Invece di comprendere i motivi e di rispettare i limiti di tale presentazione della sessualità, le interpretazioni post-bibliche, da quelle patristiche antiche a quelle del neo-femminismo cattolico recente, hanno attribuito ai miti creazionali una dimensione ontologica e soprannaturalistica che è loro del tutto estranea. La distinzione sessuale (il genus) ha così acquisito valore essenziale in sé, non più cioè come in rapporto alla species, in quanto iscritto nella natura, e la sua funzionalità alla conservazione della specie e alla costruzione dell’organizzazione sociale è diventata lo statuto univoco della sessualità umana, in quanto iscritto in una legge naturale e ad essa orientato dalla volontà stessa del Dio creatore.»

E prosegue a p. 70: «(…) i racconti genesiaci della creazione non pretendono di definire tutta e appieno la sessualità umana. Il loro valore primordiale non è né totalitario né totalizzante. Soprattutto, non si pretende di fare dell’eterosessismo l’immagine di Dio! Considerata dal punto di vista creaturale, cioè teologico, l’eterosessualità umana funzionale alla procreazione partecipa della creatività di Dio, ma ciò non comporta in nessun modo che l’unico significato creaturale della sessualità umana stia nella procreazione, né che l’unica possibilità creaturale di relazione di genere risieda nella funzione procreativa, né, infine, che l’unica relazione di genere creaturale sia quella eterosessuale. Per questo né l’ethos a-familiare, che contraddistingue la prassi di vita di Gesù e del suo movimento, né la visuale escatologica del profeta galileo sulla fine dell’economia matrimoniale (Mt 22,30), né il convincimento paolino del superamento dell’ordine naturale a partire dall’inserimento battesimale nel Cristo cosmico (Gal 3,28) sono in contrasto con quell’ “in principio”. Neppure possono esserlo le diverse forme di relazione sessuale non finalizzate alla procreazione o le multiformi possibilità di relazione tra i generi.»

Sono parole ricchissime e bellissime, in cui mi ritrovo pienamente.

Vi sono riferimenti importanti nelle considerazioni della biblista appena citata: quella di Gesù è una prassi, evidentemente anche quando si fa parola, annuncio.

Quella del profeta galileo è una visione escatologica. Ed a me risulta che solo Luise Schottroff, commentando Le parabole di Gesù, (come si intitola un suo volume pubblicato da Queriniana nel 2007) abbia parlato di “proposizioni di diritto escatologico”, nozione che sconvolge il qui presente canonista fin dentro l’anima. Diritto escatologico. Un ossimoro. Che però ricompone il quadro e ne sancisce la separazione netta, operata proprio con taglio preciso, tra questa immagine – sempre per via negativa, sempre per progressiva liberazione di oggetti, non per accumulo e stratificazioni di concetti – e la composizione immaginifica dell’incontro di James Joyce, dove l’estremizzazione porta alla dissoluzione e non all’armonia, dove l’anziano incontrato dai ragazzi non risulta essere buon maestro né prima né dopo, ma sempre oggettualizzante, sempre manipolatorio, sempre perverso.

Ecco, l’escatologia è il capovolgimento della perversione. Ma l’escatologia nasce da un fare.

Dire che non ci sarà più né uomo né donna, in un afflato religioso invocato come futuro per cui spendersi, potrebbe essere anche somma perversione. Il vecchio di Joyce fa capolino: vantarsi di tante conquiste sessuali e auspicare la frusta per chi se ne sia macchiato. Un femminile astratto, neutro, un maschile, nella sua adolescenza, pure astratto, ipotetico e condannabile con compiacimento.

Se però quell’invocazione, poiché battesimale, si trasforma in un fare, dunque in una soggettività, non in un accostamento di cose da fare ma in un fare in sé, la temuta perversione, possibile come pericolo incombente, si tramuta in liberazione, in salvezza.

La dico in modo difficile, abbiate pazienza: c’è bisogno di una amartiologia propriamente teologica.

L’amartīa, o l’amārtema, è il “peccato”, ma la sua accezione letterale greca è “errore”, “sbaglio”.

Il peccato non è un male naturale, contro la morale, un inadempimento alle obbligazioni etiche della vita imposte dalla religione. No.

Il peccato è una mancanza di fede, un venire meno della fede, cioè, - perché bisogna capirsi bene, c’è una retorica sulla fede pure sempre in agguato -, il peccato è un ritenere, anche implicitamente, che Dio non ci lasci liberi, che non assolva il nostro peccato, che non ci giustifichi, che non sia presenza debole invece che forte, silenziosa invece che ciarliera, in qualche modo autonegantesi invece che affermativa. Questo è il peccato, lo sbaglio. Ritenere che noi non siamo a posto davanti a Dio. Credere che sia così. Sbagliare drammaticamente, tragicamente, Dio.

Eppure ogni domenica recitiamo nel Credo: “Professo un solo battesimo per la remissione dei peccati”.

Evidentemente c’è qualche problema irrisolto, nella nostra pastorale – di sicuro – ma anche nella nostra teologia.

Il peccato rimesso.

Riconosciuto, d’accordo, perché è un errore, ma rimesso. L’errore di aver sbagliato Dio è rimesso, perdonato.

E rimesso come? Con un fare. Con un fare da parte di Dio. Che non è un fare naturale, saremmo daccapo. Ma è un fare che ci lascia fare. Non so se riesco ad esprimermi bene.

Dice la Perroni: manteniamo la distinzione tra Dio e il mondo.

Sembra quasi di sentire Karl Barth (che pure tuttavia – lo si legge nel volume appena pubblicato da Claudiana a cura di Fulvio Ferrario, intitolato Come sono cambiato. Autobiografia – affermava che «l’apostolo Paolo, oltre a dire che «in Cristo non c’è né uomo né donna», ha detto parecchie altre cose a proposito delle relazioni tra uomo e donna, che sono esse pure degne di attenzione», annotando Ferrario, alla nota 37 di p. 83, che il grande teologo riformato non aveva colto «la valenza profetica della riflessione sulla condizione femminile che, in quegli anni [siamo alla fine degli anni Cinquanta], inizia a manifestarsi nelle chiese protestanti, considerandola un adattamento allo spirito del tempo.»).

Dio resta appello ultimo e primo, ma non condimento di ogni nostro menu esistenziale.

È quella insopportabile retorica sulla e della fede a menzionarLo in continuazione, mentre Lui – o Lei – è supremo silenzio.

Penso ad un’amica atea che va in montagna a cercare il silenzio.

Per me è confessione massima.

Atea grazie a Dio.

Ora lo dico anche da canonista, se mi è permesso: noi abbiamo sezionato la realtà in tanti pezzetti di “fare”, in tante azioni, in tanti gesti, tutti ritenuti di rilevanza giuridica e morale – pensiamo agli apparati di norme canoniche sul matrimonio per appunto -, tutti sottoposti ad un giudizio di coerenza (o incoerenza), evitando però con molta cura di occuparci di quel fare sacramentale primigenio che è il Battesimo, sul quale la nostra pastorale non riesce quasi a dir parola nonostante tutti gli sforzi teologici. E come mai?

Perché quel “primigenio” del Battesimo viene inteso ancora come una specie di “base minima”, di “minimo comun denominatore” cristiano, invece che come inserimento nella realtà escatologica, adesso, come la rivelazione di un’utopia possibile, a tal punto determinante che – questa è dottrina di fede – proprio il Battesimo basta, sufficit.

Il diritto canonico ha ammorbato il diritto escatologico fino ad avvelenarlo.

C’è una vera e propria escatologia battesimale di cui la nostra vita ecclesiale non riesce a farsi carico. Ma questa istanza escatologica resta, più forte che mai.

Significa che la rivelazione del Battesimo, la possibilità delle sue implicazioni – anche ecclesiali -, resta inesauribile così come la rivelazione di Dio, sempre Altro, sempre Oltre, eppure sempre Tu.

Una rivelazione che non può dirsi mai definita e conclusa una volta per tutte, perché è opera dello Spirito, che non sta al di fuori del nostro fare, delle nostre pratiche, anche rituali, anche liturgiche, ma dentro, senza abolire la Sua distinzione, la Sua ulteriorità, anzi garantendo il valore del nostro fare con la Sua inesauribile Alterità, con la Sua quasi scandalosa Terzietà.

L’immagine di Dio non può essere tributaria di nessun condizionamento culturale, però attraversa – che lo si voglia o no – ogni contesto culturale, ridiscutendolo, mettendolo in crisi, e prima di tutto sovvertendo proprio il contesto religioso. Dio è la più forte contestazione di ogni assetto religioso, perché foriero di Suo tradimento.

C’è come un timore che il “fare battesimale” possa portarci così molto lontano, troppo lontano.

Che possa portarci verso “il terzo”, che possa far baluginare “il terzo” davanti a noi.

Quella del “fare” è una dimensione di terzietà che non possiamo semplicemente ridurre all’etica, perché – lo abbiamo detto, anzi in tutta umiltà l’ho detto solo io assumendone la responsabilità (spero da qualcuno e qualcuna condivisa) – siamo abbastanza ancora ammalati di ontologia e di metafisica e pensiamo che quanto sia pratico sia in fondo deteriore e così lasciamo spazio, anche lo spazio politico intendo, a quelle “ideologie della prassi” che poi conquistano i consensi elettorali. I risultati li abbiamo sotto gli occhi nelle cronache di ogni ora.

Il “fare battesimale” è contestazione radicale delle pretese metafisiche autoritative, se non autoritarie, e delle pretese ideologiche.

Proprio perché Dio resta Dio, non si annacqua, non svapora, non diventa il mio idolo privato e di gruppo, o di nazione. E giustifica il mio desiderio di rivestirmi di identità nuove.

Io sono molto più di me stesso. Ma io sono ben concreto, maschio. Eppure avverto il limite. Perché avverto il desiderio. Che mi struttura, che attraversa ogni piega del mio essere, che non può abbandonarmi finché avrò vita.

Desiderio di Oltre ed Altro.

Ma anche desiderio di fare.

Far sì che quell’Oltre e quell’Altro non siano di nuovo incasellamento metafisico, di nuovo sforzo volontaristico venato di ascetismi vari. No, che sia uno spogliarmi, immergermi, rivestirmi.

Il “fare battesimale” è – pure mi permettevo di farvi cenno – un usare acqua. E noi abbiamo rivestito questa prassi rituale, questo fare sacramentale, di tutto un significato simbolico, legittimo magari – non discuto – perché le tradizioni culturali nei loro diversi registri simbolici sono legittime, che non può richiedere, tuttavia, il prezzo di sacrificare la valenza salvifica del semplice fare umano, la sua ricchezza, la sua intensità.

Perché fare il battesimo è fare l’amore.

Perché la prassi battesimale è contestazione di ogni ideologia della prassi.

Si può forse dire anche qualcosa di più, per non soggiacere al rischio di un’evasione dall’antropologia, dalla concretezza materiale di ciò che siamo e facciamo. Il battesimo, cioè, non è solo contestazione della ideologia della prassi, ma anche inaugurazione di una nuova prassi. Una prassi in cui il “toccare” sia benefico, ad esempio. Una prassi in cui venga valorizzata la storia di ognuno ed ognuna. Una storia di corpi.

Voglio dire che la consapevolezza della portata ecclesiologica del Battesimo, delle sue implicazioni in tal senso, lascia ormai alle spalle sia la cosiddetta “teologia del laicato”, ma anche – mi permetto – una teologia “del battesimo e basta”.

La complessità dello stare della Chiesa nel mondo, senza mai costruire nessuna cittadella più o meno assediata, non può ridursi ad una sorta di “unità battesimale” dove poi spariscano le nostre storie, le nostre sofferenze, le nostre gioie.

Oltre la teologia del laicato, oltre la teologia del – chiamiamolo – “riduzionismo battesimale”, occorre andare verso una “escatologia battesimale”, per nulla corrispondente all’evanescenza di mondi futuri ma prospettiva di inserimento totale, totalizzante, nella passione inesauribile del presente.

Il presente. Che però è inesauribile.

Leggo allora Gal 3,28 con questa ricerca quasi ansiosa ma anche con questa serenità.

Josif Aleksandrovič Brodskij, ritirando il Premio Nobel per la letteratura nel dicembre del 1987, ha affermato nel suo discorso: «Nel complesso, ogni nuova realtà estetica rende la realtà etica dell’uomo più precisa. Perché l’estetica è la madre dell’etica; le categorie di “buono” e “cattivo” sono, in primo luogo, estetiche, e almeno etimologicamente precedono le categorie di “bene” e “male”. Se in etica non “tutto è permesso”, è proprio perché non “tutto è permesso” in estetica, dato che il numero di colori dello spettro è limitato. Il tenero bambino che piange e respinge l’estraneo o che, al contrario, si rivolge a lui, lo fa istintivamente, facendo una scelta estetica, non una morale.»

Non essere più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna interpella un essere esteriore che il nostro “profondismo” ha troppo a lungo offeso e vilipeso, propone una nuova estetica, propone l’utopia.

O la fede è utopia del fare – escatologia appunto - o non è niente.

L’alternativa non è scontata.

Grazie.

Stefano Sodaro

[1] La traduzione interconfessionale propone una versione che non mi convince appieno: “Con il battesimo infatti siete stati uniti a Cristo, e siete stati rivestiti di lui come di un abito nuovo. Non ha più alcuna importanza l’essere Ebreo o pagano, schiavo o libero, uomo o donna, perché uniti a Gesù Cristo tutti voi siete diventati un solo uomo”.

[2] La bibliografia al riguardo è vastissima. Uno dei testi di riferimento imprescindibili è al riguardo il volume di Elisabeth Schüssler Fiorenza In memoria di lei. Una ricostruzione femminista delle origini cristiane, Claudiana 1990, uno studio ormai classico. È stata poi di recente discussa, lo scorso 21 gennaio, presso la Facoltà gesuita di teologia del Centre Sèvres di Parigi, una tesi di dottorato, autore Luca Castiglioni, dal titolo FILLES ET FILS DE DIEU. Une manière d’articuler égalité baptismale et différence sexuelle. In esordio l’autore afferma: «Pour introduire les raisons qui m’ont amené à choisir ce sujet de recherche, permettez-moi de rapporter un fait personnel survenu en mars 2013, quelques jours après l’élection du Pape François, alors que j’étais en retraite avec des paroissiens pour préparer les JMJ de Rio de Janeiro. L’évènement suscitait l’intérêt et le questionnement des jeunes gens et des jeunes filles dont l’une d’entre elle, commentant les images du Conclave – s’écria avec désolation: «Mais il n’y a que des hommes!». Sur quoi le débat s’enflamma rapidement, non pas directement sur l’interdiction faite aux femmes d’accéder au sacerdoce (possibilité qui n’intéressait guère les jeunes filles présentes), mais sur le déséquilibre ecclésial concernant la visibilité des femmes et leur valorisation, à égalité avec les hommes. Les positions étaient assez diverses; certains défendaient la praxis ecclésiale, d’autres l’attaquaient, la considérant comme rétrograde, voire scandaleuse. En revanche, toutes et tous s’accordaient pour dire que quelque chose clochait dans la manière dont l’Église considérait les femmes. Quand on m’a demandé mon avis, j’ai exprimé (dans un français sans doute approximatif) le seul argument que je retenais de mes études de théologie. Il portait sur le «génie féminin», c’est-à-dire ce que je considérais alors comme les caractéristiques spécifiques de «la femme», dont découlaient des rôles, en particulier la maternité. D’ailleurs, j’avais même approfondi le sujet dans ma thèse de premier cycle en 2006, comparant la Lettre de Jean-Paul II sur la dignité et la mission de la femme et les thèses du théologien orthodoxe Pavel Evdokimov sur Marie archétype du féminin et Jean Baptiste archétype du masculin. Ma réponse suscita une indéniable déception, pour moi d’abord. À l’épreuve des faits, elle s’avérait abstraite, formelle, incapable d’accueillir les questions et le sérieux du malaise exprimé, et pas seulement par les femmes. Toute tentative de renforcer mon argument ne me paraissait pas convaincante, voire malhonnête, car je réalisais que je n’y croyais pas. À la fin de cet échange assez pénible, ma seule consolation fut de constater que je n’avais pas cherché à avoir le dernier mot, ce qui aurait été perçu comme la prétention autoritaire du prêtre de considérer que cette question n’était pas un problème, alors que le trouble nous habitait indéniablement.» Annoto poi il volume di Michel Gourgues «Né uomo né donna» L’atteggiamento del cristianesimo delle origini nei confronti della donna, San Paolo 2014.