Numero speciale a 50 anni dal Concilio

Disegno di copertina, "Mitrie bianche", di Rodafà Sosteno

IL CONCILIO DEGLI ALTRI

III

Duemilacinquecentoquaranta sfumature di bianco

Oggi, cinquant’anni fa, a metà mattino, un’interminabile processione di vescovi faceva ingresso nella Basilica di San Pietro.

Era un giovedì anche l’11 ottobre 1962.

Una specie di lento fiume di gerarchi ecclesiastici, 2540 per l'esattezza, scorreva intorno a Giovanni XXIII, artefice di simile profluvio celebrativo.

Vesti solenni, per lo più piviali.

Con l’eccezione dell’abito corale dei vescovi cattolici greco-melkiti che, apposta, avevano preferito non indossare paramenti sontuosi, in attesa di vedere – ma questa è solo una nostra interpretazione – se davvero, al di là del dato di partecipazione, quel Concilio sarebbe stato proprio ecumenico, nel senso più proprio.

Il padre conciliare Neophytos Edelby annota, nel suo diario: «Anche noi avremmo potuto senza dubbio metterci in grandi abiti pontificali. Ma avevamo deciso di mettere solamente l’epitrachílion e l’omophórion. Non ce ne siamo pentiti. Il nostro abito ci ha permesso di farci notare tra tutti gli altri e ci è stato relativamente meno duro sopportare con quest’abito ridotto una cerimonia di più di cinque ore. Avevamo deciso di camminare in gruppo. Ma non siamo riusciti a ritrovarci in queste immense gallerie. Questo ha fatto sì che partecipassimo al corteo in due gruppi di otto vescovi, separati da molte centinaia di vescovi latini. Ma eravamo tutti nei ranghi degli arcivescovi» (in N. Edelby, Il Vaticano II nel diario di un vescovo arabo, Edizioni San Paolo 1996, p. 45).

Quasi nessuno oggi sa chi siano i Melkiti, che cosa siano epitrachílion e omophórion. Nessuno sa neppure cosa voglia dire “latini”.

Allora si imparavano invece sostantivi nuovi.

Entravano in San Pietro sguardi sereni ma seri, curiosi e meravigliati.

La sedia gestatoria del papa era accompagnata da flabelli e camerieri di cappa e spada.

Le guardie svizzere sfoggiavano le alabarde.

Accecavano quasi la vista mitrie bianche a distesa, indossate e riposte, come in una danza immobile, dove solo il capo partecipa del movimento.

Teste episcopali ad un tempo costrette dalla rigidità dei copricapi eppure poco dopo libere, liberate.

La liturgia è soprattutto movimento, benché sacro.

Scrive padre Congar: «Rifletto ancora sulla cerimonia di questa mattina. Vi sono due aspetti nel suo sfarzo. Uno, non solo inevitabile, ma normale e positivo, è la necessità di ordine. Solennità, bellezza, oltre all’impossibilità di fare una inaugurazione con circa 3000 partecipanti senza un certo sfoggio, una certa osservanza dell’etichetta. Questo è certamente bello e nobile. Ma al di là di questo, avverto quanto la Chiesa sia orientale. La Riforma non lo è stata affatto, ai suoi inizi. Può conquistare aderenti in Oriente, ma non è stata in nessun modo e in nessun grado orientale nelle sue forme originarie. Avverto, poi, tutto il peso, mai denunciato, del tempo in cui la Chiesa aveva stretti legami con il feudalesimo, deteneva il potere temporale, e papi e vescovi erano signori che tenevano corte, proteggevano gli artisti, pretendevano uno sfarzo simile a quello dei Cesari. Tutto questo la Chiesa, a Roma, non l’ha mai ripudiato. Non c’è mai stata, nel suo programma, l’uscita dall’era costantiniana. Lo sventurato Pio IX, che del procedere della storia non aveva compreso nulla, ha sprofondato il cattolicesimo francese in uno sterile atteggiamento di opposizione, di conservazione, di spirito di restaurazione… Era stato chiamato da Dio a comprendere la lezione degli avvenimenti, di quei Maestri che Egli dona di sua mano agli uomini, e a far uscire la Chiesa dalla miseranda logica della “Donazione di Costantino”, convertendola a uno spirito evangelico che le avrebbe permesso di essere meno DEL mondo e più PER il mondo. Ma Pio IX fece il contrario. Sventurato, che non sapeva cosa fosse né l’Ecclesia né la Tradizione, e che ha spinto la Chiesa a essere sempre del mondo e non ancora per il mondo, che pure aveva bisogno di lei.

E Pio IX regna ancora. Anche Bonifacio VIII regna ancora, e lo si è sovrapposto a Simon Pietro, l’umile pescatore di uomini» (in Y. Congar, Diario del Concilio 1960-1963, I, pp. 147-148, Edizioni San Paolo 2005).

Migliaia e migliaia di vescovi stupiti dunque di intuire che proprio per il mondo, per la prima volta non contro di esso, si poteva finalmente essere Chiesa.

Al di là delle retoriche convenzionalmente laudative, perché si ricorda il Concilio?

Sostanzialmente per due soli motivi.

O per prenderne le distanze in termini critici, dolendosi che l’umano abbia fatto irruzione nel divino detenuto da chi deve rappresentarlo.

O per lamentare, dei pronunciamenti, delle discussioni, delle indicazioni di quell’assise, la mancata integrale attuazione, ammesso che di un Concilio sia sempre possibile – e auspicabile – verificare applicazioni e pratiche conseguenze.

Diciamo subito una cosa.

Senza il Concilio Vaticano II, la Chiesa Cattolica non sarebbe, non è, la Chiesa Cattolica.

Fermarsi a ricordarne l’evento, infatti, può condurre a ritenerlo isolato, a se stante, quasi ormai corpo estraneo nelle dinamiche regressive, o più prudentemente moderate, di un progetto normalizzatore di Chiesa che, invece, cozza, e violentemente, con l’inarrestabilità della sua storia.

Fa da spartiacque il Concilio.

Ma mentre i “preconciliari” godono oggi di stima e rispetto, anzi anche di una certa ammirata soggezione da parte di chi le parole del Concilio non conosce o ha, chissà quanto colpevolmente, dimenticato, i “postconciliari” sono invece, spesso, se non sempre, additati come traditori, reprobi, detrattori di un’eredità tutta diversa da quella che viene pretesa.

Eppure quel giovedì di cinquant’anni fa iniziò qualcosa che nessuno potrà mai fermare.

Proprio all’interno dello sfarzo cerimoniale, viveva o sopravviveva una capacità liturgica dell’essere nel mondo che avrebbe paradossalmente dimostrato come le mitrie bianche fossero in grado di relativizzare se stesse, per lasciare spazio, piuttosto, al ministero, cioè al servizio, cioè alla contemplazione, cioè all’amore.

Inizia oggi anche il V Sinodo della Diocesi di Trieste.

I Sinodi diocesani sono stati, storicamente, sempre piuttosto residuali rispetto alle acquisizioni dei grandi avvenimenti della Chiesa Universale.

Ci pare anzi che l’indole sinodale della Chiesa locale si sia piuttosto espressa, a Trieste, e soprattutto alla luce delle acquisizioni ecclesiologiche conciliari, con il Convegno del 1978 “Trieste: Cristiani a confronti”, momento quasi del tutto dimenticato nell’attualità diocesana.

Anche alla convocazione del Vaticano II si accompagnò, sempre per decisione di Giovanni XXIII, la convocazione di un Sinodo Romano, che si aprì il 31 gennaio 1960.

E in apertura papa Roncalli affermò: «Dopo il Sinodo presieduto dal Vescovo di Roma chiediamo al Signore Gesù, fondatore della Santa Chiesa, la grazia per il Vicario di lui, Papa, Vicarius Christi, di convocare e di celebrare il Concilio Ecumenico, che dovrà essere il XXI della serie dai primi secoli ad ora, dal titolo di «Vaticano II».

L'avviamento alla sua preparazione è già confortante oltre le più ampie previsioni.

Figliuoli carissimi, coraggio e confidenza nel Signore. Non crediate che in questo proposito della celebrazione del Concilio l’attuale Servus Servorum Dei, che vigila il sacro deposito della eredità di S. Pietro, tenga o sospiri di vivere a lungo per condurre a termine il grande divisamento e di vederlo coi suoi occhi coronato. Hilarem datorem diligit Deus: questo è motivo di quiete e di pace alla sua persona. E poi iam voluisse sat est. Alla gloria delle grandi imprese basta la volontà di avervi cooperato. »

Ce lo immaginiamo oggi un papa, un vescovo, un prete, un laico, che dica: semino, ma non voglio raccogliere?

C’è oggi, adesso, qui, nella Chiesa, consapevolezza della propria provvisorietà? Senso del relativo quale innamoramento dell’infinito?

Che cosa il Sinodo diocesano potrà dare a Trieste non si sa.

Il 27 dicembre 1959, a conclusione del Sinodo della nostra Diocesi precedente a quello che oggi si apre, proprio papa Giovanni ebbe a rivolgersi così, nell’Aula della Benedizione, ai pellegrini venuti da Trieste in Vaticano: «Amiamo infine cogliere nel recente Sinodo, che avete celebrato, un’altra speciale significazione, che tanto rincuora in questo nostro tempo: e cioè l’affermazione, che avete data, di un ardore giovanile, intraprendente, generoso. La vostra è stata una gioiosa risposta — non a parole ma a fatti concreti — a quanti son soliti affermare che i valori spirituali e morali stanno offuscandosi, e pessimisticamente rifuggono dal contribuire al miglioramento del mondo in cui vivono. Il vostro gesto dimostra loro che lo slancio benefico e attivo della Chiesa non conosce riposo, non teme crisi, non schiva sacrifici.»

Certo, a queste parole ne seguirono altre di quel papa, che non ignoriamo né tacciamo: «Un Sinodo afferma infatti solennemente l’immutabile valore della dottrina rivelata e dell'insegnamento Pontificio, come norma sicura di verità e di certezza; conferma e rinvigorisce la disciplina, e, qualora ve ne sia bisogno, ne ristabilisce l’ordine, talora indebolito da errate abitudini. Così facendo viene messo in atto un fermo piano di consolidamento morale, che esige da ciascuno e da tutti insieme clero e fedeli: chiarezza di idee, ferma volontà, guida sicura.»

Ma proprio qui, in questa apparente contraddizione di contenuti, sta la forza esplosiva di un “veterum” che è “novum” allo stesso tempo.

Il mio bambino, la mia bambina, continueranno a trasmettere, a rendere presente, una densità esistenziale, una vita, con caratteristiche completamente diverse da quella della mia vita, del mio modo di interpretarla e assumerla. Eppure, sempre vita è. Sempre la medesima vita. Medesima e diversa.

Come la Chiesa, che ha ormai ben più di 2540 mitrie bianche.

Quasi salvifica debolezza di un Dio umanissimo.

Cinquant’anni fa. Oggi.

Di giovedì.

Stefano Sodaro