Incontro col Signore: festa gioiosa o tremendo giudizio?

Incontro con il Signore - disegno di Rodafà Sosteno

Molti dei cattolici più ligi all’idea di obbedienza conservano ancora oggi l’immagine del peggior Dio biblico. Conformemente ad una tradizione che si rinviene anche nel Corano, (sura III, 76: Dio ama chi ha paura di Lui), come in molti altri testi sacri, hanno un’immagine di Dio sempre arrabbiato per i peccati degli uomini, quello – per intenderci,- del dies irae (Sof 1, 14-18: «È vicino il grande giorno del Signore, e vicino e avanza a grandi passi. Una voce dice: “Amaro è il giorno del Signore!” …Giorno d’ira quel giorno, giorno di angoscia e di afflizione, giorno di rovina e di sterminio, giorno di tenebra e di oscurità, giorno di nube e di caligine»; Ap 19, 15: «pigerà nel tino dell’ira furiosa del Dio onnipotente»).

Gesù, invece, ha cercato di cancellare questa immagine di un Dio violento ed assassino per sostituirla con quella di un Padre sempre amorevole, sempre comprensivo e sempre accogliente: Dio è Amore, e come insegna Giovanni, «nell’amore non c’è timore, e chi teme non è ancora realizzato nell’amore» (1Gv 4, 18). Per essere sicuro che non ci potessero essere dubbi al riguardo, che tutti potessero capire bene questa nuova immagine, Gesù non ha usato chissà quali astruse spiegazioni teologiche, non ha fatto ricorso alla metafisica greca che pochi eletti avrebbero potuto capire, ma ha fatto esempi alla portata di tutti, come: “guardate, oggi c’è il sole. Ebbene quando il sole splende cosa fa? Splende su tutti, mica su quelli che se lo meritano e non su quelli che non se lo meritano” (Mt 5, 45). “Se domani mattina piove, la pioggia bagna l’orto di tutti; non solo l’orto della persona pia e sottomessa a Dio, ma anche l’orto della persona impura e peccatrice. E la gallina che fa? Protegge solo i suoi pulcini buoni e manda via quelli cattivi? No, raduna indistintamente tutti sotto le sue ali” (Mt 23, 37; Lc 13, 34). E se ancora non bastasse c’è la parabola del figliol prodigo (Lc 15, 11-32), dove Gesù rappresenta un Dio-amore che eccede ogni logica umana (Haight R.) perché di fronte al figlio scapestrato che ha bruciato l’eredità e buttato via la sua vita e che torna a casa solo per poter mangiare, il padre è li ad accoglierlo a braccia aperte, senza rinfacciargli nulla. Ma questa notizia rivoluzionaria, la Buona Novella che Dio è offerta gratuita e continua d’amore per tutti, si è subito scontrata, e ancora oggi si scontra, con la sua principale nemica: la religione, la quale in tutte le epoche ha sempre insegnato e tuttora insegna l’opposta notizia della retribuzione, della ricompensa, del Dio giudice che incute paura (Maggi A.), che rinfaccia ogni mancanza, che punisce chi non merita il suo amore. Anzi, ricordo che il Catechismo di san Pio X (art. 964) poneva fra i grandi peccati contro lo Spirito santo la “presunzione di salvarsi senza merito”.

Forse è giunta l’ora di farla finita con la paura di Dio, come del resto c’insegna fin dall’inizio il vangelo di Luca, quando i pastori - ladri, peccatori, non meritevoli, e per questo destinati allo sterminio all’arrivo del Messia, almeno secondo l’insegnamento religioso di allora - si avvicinano senza paura alla mangiatoia, perché l’angelo aveva detto loro: “non temete! vi annuncio una grande gioia” (Lc 2, 10) (cfr. l’articolo Dopo i maghi i pastori, al n. 484 di questo giornale, https://sites.google.com/site/ultimotrimestre2018rodafa/numero-484---23-dicembre-2018/dopo-i-maghi-i-pastori).

Anche i pagani non restano esclusi dall’amore di Dio (cfr. articolo I re magi al n. 434 di questo giornale, https://sites.google.com/site/numeriprecedenti/numeri-dal-26-al-68/199998---gennaio-2018/numero-434---7-gennaio-2018/i-re-magi).

Anche la ripetizione del racconto dei pani, nel Vangelo di Marco (Mc 8, 1-10), nel territorio pagano della Dodecapoli (Mc 7, 31) è la manifestazione di una convivialità di Gesù aperta anche ai non ebrei. Il Dio che si rivela nei pranzi di Gesù non è un Dio limitato a una religione, a una determinata credenza, ad una confessione, a un gruppo di eletti. Con questo episodio Gesù dimostra che l’importante non è la pratica religiosa, bensì l’esperienza umana che si vive quando si condivide la tavola (Castillo J.M.).

Avete mai pensato che Gesù non è morto per aver proclamato che occorre chiedere perdono a Dio per i propri peccati, o che bisogna fare tanta penitenza per evitare la sua ira; e neanche per aver proclamato che solo attraverso i sette sacramenti della sua Chiesa avremmo meritato la salvezza eterna? Gesù è morto per aver affermato che Dio ama tutti a prescindere dal tipo di vita che conducono, e non tollera che qualcuno possa sentirsi indegno del suo amore. Gesù è morto perché ha semplicemente chiesto ad ognuno di accettare questo amore e di ritrasmetterlo poi agli altri, affermando che solo così si diventa figli adottivi di Dio e si passerà indenni attraverso la morte biologica. Questo è il messaggio per cui Gesù è morto, e questo è il succo della Buona Novella.

Ora, è di tutta evidenza che l’amore è incompatibile con la paura. Oggi si parla molto di più di un volta dell’amore di Dio, eppure siamo ancora impregnati – grazie anche all’insegnamento del magistero della Chiesa, - della paura di Dio, che tutto vedeva, tutto annotava e nulla dimenticava. Oggi, finalmente, ci sono molti cristiani che pensano che la buona notizia predicata da Gesù sia incompatibile con un messaggio minaccioso, ma per molti altri l’idea è imprecisa e precipitosa, perché minimizza il male esistente nel mondo in nome di una misericordia onnidolcificante. Dicono che, non a caso, il giudizio – oggi da tanti rimosso e minimizzato – è invece un tema presente in tutti i vangeli (Lohfink G.; Marchetti R.).

Effettivamente, anche nei vangeli, abbiamo alcuni passi che abbinano gioia e paura, e questo abbinamento ci lascia perplessi, stante la loro incompatibilità. La parabola delle dieci vergini (Mt 25, 1-13), ad esempio, sembra dirci che l’incontro con il Signore è al tempo stesso festa e giudizio. Con soddisfazione di coloro che non vogliono un Dio misericordioso, ma preferiscono un Dio giudice severo che premia solo i meritevoli (l’ art. 964 del Catechismo di Pio X, lo si è ricordato, poneva fra i grandi peccati la “presunzione di salvarsi senza merito”), ci viene ricordato che nell’ultimo giorno, al momento di dare inizio al banchetto del Regno, il Signore Gesù Cristo non potrà non mettere in luce la verità della nostra vita, mediante quel giudizio che noi confessiamo nel “Credo” (“di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti”), giudizio che è assolutamente necessario affinché la storia abbia un senso (Maggioni B.). Giudizio severo, che prevarrà sull’amore misericordioso.

Personalmente credo che l’incompatibilità letterale fra le due posizioni possa essere superata alla luce del pensiero di Joachim Jeremias, il quale - nel suo libro Le parabole di Gesù - ricorda che Gesù pronunciò queste parabole in una situazione di conflitto, fra lui e i massimi rappresentanti della religione del suo tempo (scribi, sommi sacerdoti e altri membri del Sinedrio). In questo senso le parabole vennero utilizzate da Gesù come «armi da combattimento». Però, quando queste parabole vennero raccontate nei vangeli dopo la seconda metà del I secolo, la situazione era sostanzialmente cambiata. I cristiani non vivevano più il conflitto vissuto da Gesù: con la distruzione del Tempio di Gerusalemme (70 d.C.) era iniziata la diaspora ed erano spariti gli scribi e i farisei. Per i primi cristiani la più forte preoccupazione era ormai l’imminente fine del mondo (il cui primo assaggio era stato appunto la distruzione di Gerusalemme) e la seconda venuta (cd. parusia) del Messia-Salvatore. Orbene, nella nuova situazione, gli evangelisti che misero per iscritto quelle parabole, adattarono quegli insegnamenti in modo che il conflitto si convertisse in esortazione al fine di essere pronti alla venuta del Signore; venuta che molti credevano fosse imminente e soprattutto minacciosa, anche perché a tornare sarebbe stato il Gesù risorto (e quindi il Signore della Gloria, il Figlio di Dio - Rm 1, 4), non il Gesù vissuto su questa terra; e se nella sua prima venuta Gesù si era proposto con mitezza e umiltà, apparendo perfino debole, nella venuta finale Gesù si sarebbe proposto con potenza sfolgorante, separando i giusti dagli ingiusti e incatenando questi ultimi all’inferno (Cavalcoli G.).

Dobbiamo sempre ricordare che gli evangelisti non furono né storici, né cronisti, ma credenti che vollero trasmetterci una fede. Gli evangelisti non ebbero la pretesa di scrivere una biografia di Gesù, perché questo è compito degli storici. Gli evangelisti non ci trasmisero le esatte parole dette da Gesù, ci trasmisero un messaggio religioso, e quasi tutto quello che conosciamo di Gesù non lo sappiamo dalle informazioni che ci han fornito gli storici del I secolo, bensì dalle testimonianze che ci hanno appunto trasmesso i credenti di quel tempo. Di più: i dati che conosciamo della vita di quell’uomo che fu Gesù risultano raccolti e redatti quando coloro che scrissero avevano capito che non era un semplice uomo, perché in lui (si spieghi come si spieghi) era presente Dio (Castillo J.M.). Stando così le cose, sorge inevitabile un sospetto che, nel raccontarci chi fu Gesù e come visse Gesù, gli evangelisti abbiano introdotto e mescolato nello stesso racconto fatti storici con credenze religiose ormai da loro acquisite. Quante parole sono state aggiunte dagli evangelisti per rendere meglio il pensiero che essi avevano capito essere quello di Gesù?

In quest’ottica si può, però, forse comprendere perché le vergini stolte non vengano ammesse nella sala dello sposo, ormai chiusa (Mt 25, 11): perché non sono pronte alla venuta, non si erano attivate (svegliate) per tempo. Non basta dire “Signore, Signore”, per partecipare alla festa (Mt 7, 21-23). Gesù non riconoscerà chi ha avuto atteggiamenti di fedele ortodossia, di riverenza e ha seguito anche tutti i riti, ma soltanto chi, come lui, ha fatto della propria vita un dono d’amore affinché gli altri abbiano vita (Maggi A.). Per donarsi occorre essere svegli, come viene ripetuto in Mc 13, 33-37: chi non sta sveglio, si mette a dormire; e chi dorme, si disinteressa di tutto, si dedica solo al proprio riposo, prende cura solo di sé stesso. Ma, se ci dedichiamo al nostro interesse, cosa sarà di coloro che sono privi di quasi tutto? Questo non è umano. In fondo, è in-umano (Castillo J.M.).

E un’ulteriore conferma di questa linea interpretativa si ha nella parabola del banchetto di nozze (Mt 22, 1-14; Lc 14, 15-24) che narra come gli «invitati ufficiali» (i sacerdoti e i dirigenti religiosi, cioè i pii osservanti della legge che erano già sicuri di essere salvi perché si vedevano come gli eletti) non entreranno nel banchetto del Regno. Anche qui c’è un abbinamento che può far paura, posto che nel finale del testo di Matteo spicca come l’invitato dell’ultima ora non debitamente vestito e preparato sarà cacciato fuori nelle tenebre (Mt 22, 11-14: «legategli le mani e i piedi e gettatelo fuori nel buio, ivi sarà il pianto e lo stridor di denti»). Uno può domandarsi impaurito: ma se era stato chiamato all’ultimo momento, forse non aveva neanche avuto il tempo di vestirsi a festa. Perché viene cacciato? Dove ha fallito? Gesù si rimangia forse la promessa che non avrebbe mai spezzato alcuna canna fessa e non avrebbe spento alcun lucignolo fumante (Mt 12, 20)? E che dire del servo infedele che fa i comodi suoi, ma quando all’improvviso torna il padrone «lo farà a pezzi e gli assegnerà la sorte degli ipocriti; ivi sarà pianto e stridor di denti» (Mt, 24, 51)? E poi dicono che solo il Corano ha passi violenti.

Anche per questi passi esiste, mi sembra, la spiegazione data nell’articolo Ancora sull’inferno, al n. 469 di questo giornale

(https://sites.google.com/site/agostosettembre2018rodafa/numero-469---9-settembre-2018/ancora-sull-inferno). Si ripete che gli evangelisti volevano ammonire i credenti ad essere pronti al momento della venuta definitiva di Cristo. E come ci si prepara? Con la conversione.

Se il vangelo fosse stato scritto oggi, forse al posto di convertire si userebbe usata la parola “riformattare”. Si azzera e si riparte con un nuovo programma.

Se partecipi al banchetto, devi poter esser luce per chi sta al buio, quindi devi aver cambiato modo di vivere, in particolare il modo di rapportarti con gli altri: ecco l’essersi cambiato d’abito. Quindi una volta che si accoglie questo amore, questo amore deve manifestarsi concretamente nel nostro atteggiamento quotidiano. Non ci si può metter a dormire chiusi nel proprio bozzolo. È da come ci comportiamo fuori della chiesa che si capisce cos’abbiamo fatto dentro, perché è nel rapporto umano con gli altri (come insegna il buon samaritano - Lc 10, 30ss.) che dobbiamo trovare Dio, superando l’inumano che emerge o almeno sonnecchia sempre in ciascuno di noi.

Dunque saranno i peccati di omissione i capi di accusa contro di noi nel giorno del giudizio (Mt 25, 31ss): c’è chi è straniero, e noi pensiamo a lui dando qualcosa di superfluo alla Caritas, magari per il pranzo di Natale, ma mai lo invitiamo alla nostra tavola, a casa nostra, perché questo ci provocherebbe troppo disagio. C’è chi è nudo, e tutt’al più gli diamo un abito da noi consumato, che riteniamo indegno di stare nei nostri armadi pieni. C’è chi è in carcere, e noi neanche ci sogniamo di andarlo a trovare, perché non lo conosciamo e perché pensiamo che, se è lì, se l’è meritata. “Quanto siamo ipocriti! Il giudizio finale lo mostrerà”, ha detto il fondatore di Bose Enzo Bianchi. Ma più che un severo giudizio divino sarà sufficiente un semplice auto-giudizio sulla propria vita, perché ognuno potrà vedersi per quello che veramente è stato. Con tutto quello che abbiamo ricevuto, quanto poco abbiamo dato agli altri, quasi niente!

Poi c’è la parabola dei talenti (Mt 25, 14ss.) a dimostrare come sia sbagliato aver paura di Dio. La chiave della parabola sta nella paura folle che il funzionario pavido ha avuto del suo superiore. Identificando il superiore con Dio, l’idea che quest’uomo ha di Dio è tragica, e la paura è stata la sua perdizione. Perché la paura paralizza, blocca, rende sterili e conduce a non far nulla per non sbagliare: quindi, con la paura, non si va da nessuna parte. Un cristiano che ha paura di Dio resta chiuso nel suo bozzolo e non produce nulla; starà anche tutto il giorno in adorazione di Dio, ma non farà mai germogliare nulla sulla terra. E per questa strada, dice il vangelo, va incontro alla sua rovina. perché il suo cuore gli impedisce di andare oltre al suo pregiudizio distruttivo e cupo: gl’impedisce di darsi da fare, di dare ogni giorno una mano a Dio nella costruzione del Regno (Curtaz P., Castillo J.M.).

Eppure buona parte del magistero ancora insegna un Dio che mette paura. Insegnare che Dio è così, porta molte persone a sentire inquietudine e perfino angoscia, sì che è il peggior danno che si possa fare alla gente, perché così la si paralizza. Se poi tutto il popolo di Dio (la chiesa nel suo insieme) condivide un Dio tremendo, si condanna la chiesa stessa alla sterilità. Una chiesa paurosa, accerchiata, sempre sulla difensiva è una comunità sterile che non va da nessuna parte. Con la parabola dei talenti Gesù spiega che Dio non vuole questo. Ha ragione quel teologo spagnolo (Castillo J.M.) a dire “non dovremmo porci tutti noi cristiani una domanda urgente: quali paure oggi attanagliano e paralizzano di più la nostra Chiesa? Nei mesi scorsi si è detto che oggi si ha paura e si rifiuta persino papa Francesco. Perché? Perché si ha paura di un papa che crede nel Vangelo?”

Se siamo effettivamente convinti che i vangeli siano una Buona Novella valida anche per oggi, anche oggi dobbiamo continuare a guardare ai frutti dell’albero dell’insegnamento religioso che ci viene proposto: ogni albero buono deve dare buoni frutti (Mt 7, 17-18). Quando un albero ha buoni frutti, sono gli altri che si avvicinano e allungano le mani per coglierli. Al contrario, se i frutti sono tossici (Mt 7, 19: «dai loro frutti li riconoscerete»), nessuno si avvicina a quell’albero. Allo stesso modo, allora, un insegnamento che non ci fa vivere meglio, che porta paura, continui sensi di colpa, visioni terrificanti, oppressione, non può venire da Dio. Non almeno dal Dio che ci ha rappresentato Gesù; non dalla sua Buona Novella.

Dario Culot