Ma Gesù è veramente nascosto dentro all’ostia?

Joos van Wassenhove, Istituzione dell’Eucarestia, 1473-1475 -

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Il n. 1324 del Catechismo afferma che l’Eucaristia è «fonte e culmine di tutta la vita cristiana».

Come ha però ben evidenziato il teologo valdese Paolo Ricca, non avendo Gesù spiegato l’ultima cena è difficile capirla e ancor più spiegarla e, anche se tutte le spiegazioni sull’eucarestia possono essere più o meno convincenti, nessuna può rivendicare di per sé l’autorità di Gesù, il quale non ci ha mai chiarito cosa intendesse esattamente dire con quelle sue parole.

In questa varietà di opinioni, ogni chiesa, impadronitasi dell’ultima cena, ha ben pensato di farne una sua proprietà esclusiva, sentendosi autorizzata a redigere una propria lista di invitati per escludere quelli che non la pensano allo stesso modo.

Così si è finito col fare di questa Cena, che doveva essere sacramento di unità, il primo motivo di divisione fra i cristiani.

Infatti è indubbio che nella cristianità vige un regime di apartheid eucaristico (ad es. è vietato ai cattolici partecipare all’eucarestia con i protestanti), il quale, per quanto riconosciuto come scandaloso essendo palesemente contrario all’esplicita volontà di Gesù viene tuttavia accettato come fosse la cosa più normale di questo mondo.

Ma possiamo davvero pensare che Gesù sia disposto a celebrare con i cristiani di oggi tutte queste Cene separate?

Lui, che nella cena di giovedì santo aveva condiviso il pane perfino con Giuda che stava per tradirlo, con Pietro che di lì a poco l’avrebbe rinnegato tre volte, e con gli altri che sono tutti fuggiti lasciandolo solo? Potrebbe accettare di sedersi a una mensa dalla quale, con spudoratezza, proprio in suo nome, vengono esclusi altri cristiani, proprio lui che per far capire che nessuno deve essere mai escluso dall’invito alla vita, aveva intinto il pane offrendolo perfino a Giuda? Questa dovrebbe essere la più importante e fondamentale domanda su cui oggidì tutti dovrebbero riflettere.

Invece su questo punto nodale le varie Chiese fanno finta di niente, tutte fermamente convinte di possedere l’accesso diretto a Dio in regime di esclusivo monopolio, mentre – a mio avviso – proprio per questo loro atteggiamento auto-referenziale già si auto-squalificano, cozzando contro l’insegnamento di Gesù. Una nuova speranza c’è, tanto per cambiare, con Papa Francesco, il quale, accennando al fatto che la Chiesa non è un monolite, ma un poliedro di diversità, potrebbe dire che, essendo comune a tutte le chiese l’idea della presenza di Cristo nell’eucarestia, le diverse spiegazioni sul come sono semplicemente diverse facce dello stesso poliedro, al quale quindi si potranno aggiungere prima o poi – perché no? – anche le Chiese riformate, in uno spirito di “diversità riconciliata” (Pertici R.).

Ma fra le tante questioni che l’eucarestia pone, quella su cui oggi voglio soffermarmi è la questione della presenza di Gesù nell’ostia.

In passato non ci si poneva molte domande e si accettava passivamente l’insegnamento. Si finiva perciò come Maya, la protagonista del romanzo Nabateo lo scriba di Ziedan Youssef: «Padre Bakhum tempo fa disse che nella comunione c’è un mistero importante e che senza di essa la religione non sarebbe autentica. Disse che quel pane è la carne di Cristo e quel vino è il suo sangue. Io credevo a ciò che diceva Padre Bakhum, ma non capivo quelle sue parole. Mia madre invece diceva di capirle». Beata lei!

Ovviamente se partiamo dall’idea che a Dio nulla è impossibile e che Gesù è Dio, Gesù può sicuramente essere presente in ogni ostia grazie ai suoi poteri soprannaturali. Ma, in tal modo, l’umanità di Gesù svanisce mentre s’innalza la sua divinità, il che però va contro il dogma di Calcedonia. Io non ricordo esattamente cosa ci avevano insegnato da piccoli al catechismo, ma per quel che avevo capito, era certo che rinchiuso nel pane, dentro ad ogni ostia, ci fosse Gesù, tutto intero. Questa era una conclusione non negoziabile. È sorprendente, allora, come le cose che noi riteniamo essere conclusioni indiscutibili vengano retrocesse a ipotesi col passare del tempo (Spong J.S.), perché su quelle conclusioni – seppur solo da adulto – ho cominciato a pormi domande che in precedenza neanche immaginavo di poter pensare, del tipo:

· se Gesù entra nell’ostia e prende il posto del pane quanto alla sostanza, visto che oggi col termine ‘sostanza’ ci riferiamo in modo esclusivo all’aspetto chimico-fisico, se analizzassimo in laboratorio l’ostia dovremmo trovare le cellule di un corpo umano, non del pane. Invece non è così;

· il magistero insegna che nessuno può far venir meno gli effetti della consacrazione del pane; ma se il pane consacrato ammuffisce e si ha una corruzione della specie, non si può più parlare di pane, e a quel punto, venendo meno il segno, scompare anche la presenza reale di Cristo. Infatti – insegna il magistero - il sacramento è un segno visibile della grazia invisibile, istituito per la nostra giustificazione. Ovvia allora la domanda che già Calvino aveva rivolto ai cattolici: “ma il segno non l’avete già fatto scomparire con la transustanziazione, visto che il pane mantiene solo la forma ma non più la sostanza di pane? Voi stessi dite che senza segno non c’è sacramento”.

· che poi un prete possa pretendere di chiamare all’esistenza (ri-generare) il corpo di Cristo, fino a quel momento assente, significa che il Creatore si mette nelle mani della creatura che lo invoca. Se un uomo crede di poter evocare il Trascendente, vuol dire che l’uomo riesce anche a dominare con le sue forze la Potenza che evoca. Di più: per i cattolici solo un maschio può fare questo, mentre per i protestanti anche una femmina. La femmina protestante ha più potere su Dio della femmina cattolica? Vi sembra plausibile?

· eravamo obbligati a prendere la comunione a digiuno, in ginocchio, in bocca e con divieto assoluto di toccare l’ostia con i denti. In ogni frammento d’ostia c’è Gesù, per cui ancora oggi si dovrebbe ricevere l’ostia sulla lingua e in ginocchio, esprimendo amore, rispetto filiale e adorazione verso Dio (card. Sarah, “Vita Nuova” n. 4888/18, p.10). Ma Gesù, durante la cena in cui tutti stavano ancora mangiando, ha detto: “Prendete e mangiate,” distribuendo il pane con le sue mani; e gli altri hanno preso il pane con le mani, non con la bocca, perché se uno dà qualcosa, la si prende con le mani; del resto, da nessuna parte si avverte che gli apostoli si sono messi in ginocchio e hanno ricevuto il pane in bocca, guardandosi bene dal toccarlo con i denti (Mt 26, 26). Dunque, quel rituale impostoci poteva ben essere cambiato perché non seguiva affatto il vangelo, e non si tratta affatto di moderno “nichilismo, relativismo” ecc., come si lamenta ancora qualcuno (“Vita Nuova” n. 4896/18, p.3).

La dottrina cattolica insegna che attraverso la transustanziazione si produce la presenza reale di Cristo, con la sua natura divina e umana, nell’ostia consacrata. Il pane mantiene la forma di pane ma perde la sostanza del pane: ecco la transustanziazione (termine di cui ovviamente non c’è traccia nel Nuovo Testamento: e questo già dovrebbe suonare come un campanello d’allarme). L’idea di un cambiamento non delle apparenze (forma, colore, peso), ma della sostanza, e cioè dell’essenza, della realtà profonda, è termine che apparve coi Franchi nel XII secolo, per respingere il dubbio se il pane e il vino erano davvero il corpo e il sangue di Gesù. Il termine venne consacrato ufficialmente in occidente appena col Concilio lateranense IV (1215 d.C.). Parlando della presenza di Cristo in questo sacramento il Concilio di Trento (Sessione XIII, Sul sacramento dell’Eucaristia, 4) ha poi usato tre avverbi: Gesù è presente «veramente, realmente e sostanzialmente» (nn.1374, 1376 e 1377 Catechismo).

Dicendo che Cristo è veramente contenuto nelle specie eucaristiche, il Concilio ha respinto l’idea che la presenza di Gesù fosse meramente simbolica, come se l’ostia additasse un corpo assente, mentre Gesù è forse da qualche altra parte in cielo. È cioè veramente presente perché la sua presenza è oggettiva, in quanto non dipende dai pensieri o dai sentimenti del ministro o dei comunicandi. Quindi, anche la mancanza di fede non fa venir meno la sua presenza, perché non è la fede che determina la presenza di Cristo. È reale, ontologica, in quanto accade a livello dell’essere. Infine la presenza è sostanziale, dove il termine “sostanza” denota ciò che la cosa è in sé. Derivata dalla radice latina sub-stare, richiama ciò che è sotto le apparenze che possono mutare da un momento all’altro lasciando l’oggetto intatto: sotto l’apparenza del pane c’è, sub-sta Gesù. Questi postulati (cioè queste affermazioni che, senza poter essere dimostrate, si richiede siano accettati dall’interlocutore come fondamento di una dottrina) non aiutano però a risolvere nessuno dei tanti dubbi in materia (neanche quelli sopra espressi). Personalmente, come spiegazione, mi ha invece convinto quella del teologo Carlo Molari, il quale ha proposto un cammino diverso che ora cercherò di esporre.

Quando la nazionale italiana di calcio ha giocato facendosi eliminare ignominiosamente dalla Svezia anche il tifoso più lontano aveva potuto seguire l’evento, stando in casa. Attraverso la televisione ogni tifoso partecipa veramente e realmente senza essere allo stadio; si emoziona come se fosse allo stadio, entra in contatto coi giocatori e il pallone come fosse veramente presente alla partita. Eppure il tifoso casalingo non è fisicamente allo stadio, e il pallone non è materialmente nel televisore. Come fa a partecipare realmente e veramente all’evento? Attraverso le onde elettro-magnetiche, che però sono qualcosa di totalmente diverso dal pallone. Ma per tutti noi che guardiamo la partita in televisione, quelle onde diventano il pallone, perché vediamo veramente la partita che si gioca allo stadio, anche se dentro il televisore di casa (analogia con l’ostia) non ci sono né i giocatori, né il pallone (per analogia, non c’è Gesù). La partita che vede il tifoso è reale, perché è quella che si sta giocando in quel momento, in quel determinato stadio, ed è vera perché non dipende dall’immaginazione dello spettatore a casa. Non è neanche una partita virtuale (irreale), costruita come nei video-giochi, che inizia quando attivo il programma. Se si spegne il televisore, la partita, essendo vera e reale, continua ad essere giocata; solo non c’è più la presenza all’evento perché manca la relazione fra il tifoso e i giocatori. Le onde elettromagnetiche non c’entrano per niente con la partita eppure, se solo accendo il televisore, consentono di partecipare a un evento che si realizza oggettivamente altrove: quindi, sotto l’apparenza delle onde sub-sta la partita.

Allora adesso facciamo la stessa applicazione all’eucarestia. Anche il pane non c’entra niente con Gesù, eppure sotto l’apparenza del pane sub-sta Gesù. A cosa serve il rito sacramentale? A mettere in moto la fede per cogliere l’evento reale attraverso il rito. Ma il pane resta pane dal punto di vista della sostanza chimico-fisica, come le onde elettromagnetiche restano onde elettromagnetiche dal punto di vista della fisica. Guardando la partita in tv nessun tifoso dice: “Vedo le onde elettromagnetiche,” come nessuno dice: “Le onde elettromagnetiche si sono transustanziate nel pallone, e il pallone ha preso il posto delle onde quanto alla sostanza”. No! tutti vedono direttamente il pallone, i giocatori, Buffon che va da una parte e il pallone, deviato da De Rossi, che beffardamente entra in porta dall'altra: tutti vedono l’evento. Nel rito sacramentale dell’eucarestia noi ci riferiamo all’evento che accadde, che è accaduto: l’invito a prendere la vita di Gesù dentro di noi, e a comportarci di conseguenza. La fede ci mette in relazione, e viviamo quel rapporto attraverso la fede, attraverso il rito. Nell’esercizio della fede noi vediamo nell’ostia Gesù, non il pane. Questa è la presenza reale di Cristo.

Cos’è allora la presenza reale? È una relazione in atto fra noi e Gesù.

Essere presente non vuol dire necessariamente che i due corpi debbano trovarsi contemporaneamente nello stesso luogo: la persona amata può trovarsi in capo al mondo eppure, per l’amante, può essere più presente della persona che concretamente gli sta seduta a fianco nell’autobus.

Già Papa Paolo VI aveva chiarito che non si tratta di una presenza spaziale (Enciclica Mysterium Fidei di Papa Paolo VI, 3.9.1965, §47), e che la presenza eucaristica non si attua «allo stesso modo con cui i corpi sono nel luogo», per cui non si può dire che “Gesù è dentro l’ostia”.

Ma come spesso avviene, le Encicliche – che quasi nessuno legge, - sono scritte in maniera piuttosto complicata, per cui, ancora cinquant’anni dopo, quasi nessun credente sa che Gesù non è nell’ostia, mentre tutti sanno che il pallone non è dentro il televisore. Solo un primitivo non civilizzato potrebbe credere che nel televisore c’è il pallone e potrebbe cercare di prenderlo. Forse, come credenti, siamo ancora a un livello primitivo. Per crescere, non dobbiamo allora immaginare che, con l’assumere l’ostia, il corpo di Cristo ci entri in bocca in proporzioni ridotte mentre invece entrava a grandezza naturale nella casetta di Maria di Nazareth (così ben spiegava Il Nuovo Catechismo olandese già nel 1969).

Il rito, che è celebrativo, è lo strumento attraverso il quale la fede si esercita e fa entrare in relazione, fa vivere il rapporto, fa entrare in contatto il comunicando con Gesù.

La presenza è vera e reale perché è in atto, è oggettiva e non è immaginata nella mente del comunicando. È reale come è reale il nostro movimento quando guardiamo la partita alla televisione e saltiamo sulla sedia vedendo segnare un gran goal.

È una presenza reale in quanto partecipiamo all’evento che oggettivamente si sta svolgendo; partecipiamo al fatto che Gesù ci viene incontro, come partecipiamo alla partita vera che l’Italia sta giocando. Sotto l’apparenza delle onde elettromagnetiche che giungono al nostro televisore sub-sta una partita vera; sotto l’apparenza del pane sub-sta veramente Gesù.

Dunque, in quella frase: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22, 19), la memoria non è mero ricordo dell’evento finale della vita di Gesù avvenuto duemila anni fa, senza possibilità di ritorno; non è cioè un mero ricordo di un accadimento passato, non è un fermarsi a quel momento lontano, non è il ricordare semplicemente la triste fine di un corpo terreno inchiodato su una croce.

Fare memoria vuol dire rivivere oggi quel momento conclusosi con la resurrezione, affinché entri nel nostro patrimonio spirituale individuale e di comunità, continuando ad alimentare quegli stessi ideali di giustizia, di pace, di libertà che Gesù ha manifestato con la sua vita.

Mangiare il corpo di Cristo e bere il suo sangue, ha scritto il teologo Ortensio da Spinetoli, equivale a «interiorizzare, assimilare il programma di Cristo per tradurlo nella propria vita».

Pertanto, fare la comunione «non è tanto un atto di devozione e di amore, ma di coraggio, una presa di posizione, davanti alla comunità e davanti a Dio, di vivere più che per sé stessi per il bene altrui».

Ripetere con devozione soltanto le poche parole del rito è facile, fare la comunione è molto più impegnativo perché vuol dire prendere l’umanità di Gesù e integrarla nella propria vita.

L’umanità tangibile di Gesù deve essere visibile anche in noi che ne facciamo memoria.

La memoria, pertanto, diventa un’esperienza, nel senso che la si vive, nel senso che è ciò che non ci ferma ma al contrario ci spinge avanti, rendendo Gesù risorto presente e creativamente attivo nella vita di noi che l’abbiamo evocato (per il comunicando il risorto è il vivente).

I cannibali mangiavano il cuore del nemico per introitarne la forza. I cristiani non sono cannibali, sottilmente legittimati dalla liturgia, che mangiano il corpo materiale di Cristo, perché è ovvio che il suo corpo materiale non esiste più da duemila anni.

Il grato ricordo di una grande persona rende questa persona psicologicamente presente in noi, e genera in noi il desiderio di diventare un po’ come lei e di seguire la sua strada (Lenaers R.). Col che è evidente che l’eucaristia non è fine a sé stessa, non è per la propria santità, per la propria devozione; il partecipare all’eucaristia non si conclude con il momento in cui si fa la comunione, ma quando questa comunione ci dà energia per farci pane per gli altri (Maggi A.); perciò ‘Fate questo in memoria’ voleva dire condividere la cena con gli altri. L’amore ricevuto dal Signore nell’eucarestia deve trasformarsi in amore comunicato agli altri: solo in tal modo Gesù si rivela presente ancora oggi. La memoria, dunque, non ha alcuna connotazione soprannaturale, ma è un ripensare a qualcosa d’importante che tocca, che commuove; si rivive l’accaduto psicologicamente sul presupposto che quel fatto che ci ha toccato emotivamente ci tocca di nuovo e ci fa agire. L’eucaristia dovrebbe essere l’espressione massima dell’altruismo, della generosità, del dono degli altri (Maggi A.).

La commemorazione, grazie alla quale veniamo toccati e spinti a rivitalizzare la nostra scelta per Gesù, può anche avvenire in modo non rituale (es. con la preghiera, la lettura meditativa; basta ricordare che Gesù ha detto che già sarà presente dove due o tre si riuniscono nel suo nome – Mt 18, 20), ma mangiando il pane eucaristico c’è qualcosa in più: innanzitutto c’è un evento comunitario conviviale (l’immagine del corpo e delle membra - Rm 12, 4 - ben si addice al contesto eucaristico); poi, il rito eucaristico è qualcosa di materiale, e le cose materiali hanno più facilmente la capacità di fungere da simboli e di rivelare la profondità spirituale della realtà, sì che sarebbe ancora meglio tornare all’uso del pane vero, anziché dell'ostia. Infine va sottolineata l’importanza del pane: non è cioè la stessa cosa mangiare l’agnello pasquale o il pane, perché nell’agnello ci sono parti migliori e parti di qualità inferiore, mentre il pane è buono allo stesso modo sia al centro sia al bordo (Maggi A.): nessuno riceve il pezzo migliore. Non c’è disuguaglianza nel ricevere.

Furono ancora una volta i Franchi a sostituire il pane spezzato e condiviso con l’ostia, per distinguersi dai Greci di Costantinopoli, ma in tal modo è stata oscurata la dimensione conviviale dell’eucarestia, e concentrandosi poi la teologia sulla presenza reale di Cristo, il pane consacrato finì per essere più oggetto di adorazione che cibo condiviso, che solo i ministri ordinati potevano toccare (Sirboni S.): invece solo la condivisione del mangiare e bere può realizzare simbolicamente l’assimilazione che si vuol attuare; guardare e adorare rimane un semplice surrogato.

Sicuramente è più semplice adorare che mangiare, perché mangiare significa integrazione piena, sforzo continuo nell’arco delle 24 ore; l’adorare si riduce facilmente a un rito senza impegni (Galantino N.).

Ecco perché la commemorazione meramente contemplativa, senza mangiare, tipo l’adorazione perpetua tanto raccomandata dalla Chiesa, perde molto del suo significato (Lenaers R.) e si può parlare di surrogato, perché una volta dette quelle parole devozionali uno pensa di essere a posto per tutto il resto del giorno.

San Paolo (1Cor 11, 24s.) non invita mai i suoi fedeli a diventare essi stessi pane per gli altri. Batte molto, però, sull’aspetto della convivialità nell’eucarestia. Quando in un gruppo si convive in modo tale che le differenze sociali si manifestino in differenze nel pranzo condiviso, in disuguaglianze, in trattamenti diversi di uno rispetto all’altro, in tal caso l’eucarestia è semplicemente impossibile (1Cor 11, 17-34): dove difetta la convivialità (fatto sociale), difetta ugualmente l’eucarestia (fatto religioso) (Castillo J.M.).

Dunque, può concludere don Molari, nell’eucarestia c’è presenza vera perché la relazione tra il comunicando e Gesù risorto esiste di fatto.

È presenza reale perché ambedue i termini (comunicando e Gesù) sono esistenti nell’atto della relazione.

È presenza sostanziale perché la relazione collega le persone, e chi riceve l’eucarestia non si crea nella propria mente una mera immagine, o sente in sé un mero sentimento.

Il dogma è rispettato, ma la spiegazione è completamente diversa.

Naturalmente, se non c’è la fede non succede nulla. Pronunciando la formula è come se il prete accendesse la televisione. Tenendo invece spento il televisore non avviene niente né in casa, né in noi, anche se il gioco va avanti per conto suo. Perciò, quando parliamo di presenza reale, non vuol dire che il pane si è trasformato e non è più pane. Vuol dire che ha assunto un significato nuovo perché permette la nostra partecipazione all’evento, all’incontro con Gesù. La specie del pane e del vino acquistano nuovo significato e nuovo fine in quanto contengono una nuova «realtà» (Enciclica Mysterium Fidei di Papa Paolo VI, 3.9.1965, §47). Esattamente come le onde elettromagnetiche restano sempre onde elettromagnetiche, non cambiano, ma solo quando accendiamo il televisore portano a casa nostra un messaggio nuovo che ci trasforma, ci fa esultare, ci fa piangere, perché a quel punto partecipiamo all’evento. Quindi è una relazione reale solo attraverso la fede. Questa è la partecipazione ai sacramenti. È accendere la fede proprio per entrare in un rapporto reale con l’azione di Dio, con l’evento che viene dichiarato.

Usando lo strano termine ‘transustanziazione’, si è finito, invece, per intenderlo non tanto nel senso del messaggio che trasmetteva, ma piuttosto nel senso di sostanza chimico-fisica. Per questo il catechismo della Chiesa olandese, già subito dopo il Concilio Vaticano II, aveva suggerito di esprimersi in altro modo.

Oggi si parla sempre meno di transustanziazione, e forse si potrebbe parlare di transignificazione o transfinalizzazione. Ma l’esempio della televisione è molto chiaro come analogia. Si vede che le onde elettromagnetiche alimentano un messaggio, che trasforma, che rende possibile una partecipazione, una relazione reale, una presenza. Non si può dire che dentro il televisore c’è il pallone. Il pallone non è dentro il televisore, ma nello stadio c’è. Però è possibile entrare in rapporto con la partita reale attraverso quelle onde elettromagnetiche, e si vive quell’esperienza reale. Come, però, i giocatori ed il pallone non sono rinchiusi dentro lo schermo del televisore, così Gesù non è rinchiuso dentro l’ostia. Col che, se l’ostia cade a terra in una chiesa fredda, non è che Gesù prende freddo perché è caduto a terra: si raffredda solo il pane. Né, se mastichiamo l’ostia (anziché scioglierla in bocca), Gesù sente male perché viene morso: mastichiamo del pane, e il pane non sente male.

A dimostrazione di quanto fosse lontana dal vangelo l’idea di sciogliere in bocca l’ostia (come imponeva invece il magistero), Gesù ha detto di masticare (Gv 6, 54). Qui l’evangelista usa in greco il verbo ‘trogo’ che già dà l’idea di qualcosa di molto rude che significa ‘triturare’, ‘masticare’ (da noi il trogolo è la vaschetta dove mangiano i porci); quindi Gesù vuole evitare che ci sia un’adesione ideale, impalpabile, svolazzante, che ci eleva verso il cielo; no, l’adesione deve essere completa (Maggi A.) concreta, terrena, reale e materiale.

Oggi, forse, avendo tanti strumenti attraverso i quali si può stabilire una relazione di presenza reale, irrealizzabile nei secoli scorsi, è più facile capire di cosa stiamo parlando.

Credo che oggi, in quest'ottica, potremmo anche tornare a dire che l’eucarestia, col pane e col vino, è soltanto un simbolo (= realtà che ne rappresenta un’altra), ma un simbolo in tanto è tale in quanto è capace di evocare, di mettere in moto qualcosa.

Se sento una persona cara al telefono, non sento solo la sua voce, ma ho davanti a me tutta la persona che mi fa sussultare; anche se l’interlocutore non è nel telefono, lo vedo ben presente davanti a me, in carne e ossa, vivo e reale. Se invece quella telefonata non mi dice più niente, perché ho troncato da tempo i rapporti con quella persona, il simbolo ha perso il suo valore. Se un estraneo prende quella stessa telefonata per sbaglio senza neanche sapere chi parla dall’altra parte, il simbolo ha perso il suo valore. Se quell’eucarestia col pane e col vino non dice niente, ha perso il suo valore, e se uno comunque vi partecipa, vuol dire che per lui un rito formale e vuoto ha preso il posto del simbolo: niente viene messo in moto.

Papa Francesco ha detto: «Ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale» (Evangelii gaudium, §11). Orbene: i Franchi hanno parlato di transustanziazione mille anni dopo Gesù.

Passati altri mille anni è forse l’ora di trovare anche noi nuove forme di espressione, più consone al nostro attuale modo di pensare.

Occorre parlare del Vangelo con formule più accessibili.

Occorre cercare in altre direzioni per venire ascoltati; altrimenti il discorso sul divino, proveniente dalla Chiesa del nostro tempo, non è più credibile nel mondo d’oggi.

Dario Culot