Diari estivi di Chiesa - V

I fatti ecclesiali triestini che hanno visto un trasferimento massivo dell’intero clero parrocchiale di Roiano, al di là di ogni altro commento, considerazione e dato di cronaca, inducono ad una riflessione di natura più strettamente teologica, anzi specificamente ecclesiologica.

Ma quello tra i preti e la propria gente è un vincolo di natura sponsale o no?

In effetti – lo si è rilevato anche a Camaldoli nell’incontro di approfondimento di cui si parla oggi in apertura del nostro giornale -, nell’elaborazione postconciliare, soprattutto ad opera del Magistero, si è avuta una progressiva focalizzazione su natura e caratteristiche sponsali che “lo stare davanti alla comunità” del presbitero, suo presidente quanto meno a livello liturgico, dovrebbe palesare. Tale valorizzazione “matrimoniale”, sponsale, del ministero presbiterale sembra essersi consolidata a fronte di un’accentuazione ritenuta troppo funzionalistica del presbiterato, volta solo cioè a delineare un ruolo di servizio – quand’anche presidenziale – e non un contenuto intrinsecamente indisponibile alle esigenze comunitarie. Si è ritenuto, in sostanza, che la formulazione della costituzione dogmatica “Lumen Gentium” del Vaticano II su una differenza non solo di grado tra ordine sacro e sacerdozio comune dei fedeli potesse essere presidiata, a livello soprattutto pastorale ma non soltanto, da una riconsiderazione in chiave nuziale del rapporto tra clero e fedeli: lo sposo è altro dalla sposa, la differenza sarebbe garantita.

Accade però che gli “sposi” possano essere destinati, per determinazione dell’autorità ecclesiastica, ad altre “spose”, cioè ad altre comunità.

Tale trasferibilità contrasta profondamente con la concezione matrimoniale di un vincolo tra prete e fedeli, mentre è coerente con una configurazione del sacramento dell’Ordine quale consacrazione ad un servizio.

Il quesito allora si ripropone?

Non si può da un lato disegnare teologicamente il prete come lo sposo della comunità e dall’altro consentire che il legame nuziale possa tuttavia essere scisso, revocato.

In realtà è possibile un’obiezione: la comunità di cui il presbitero sarebbe sposo non è la comunità parrocchiale ma quella diocesana. Solo la Chiesa Locale presieduta dal vescovo ha un’autosufficienza teologica, per così dire.

È vero che il vescovo riceve, al momento della sua ordinazione (che è altresì spesso definita proprio come “consacrazione”), un anello, segno della sua unione alla Chiesa di cui diventa pastore, ma, sotto un primo profilo, anche i vescovi possono essere trasferiti altrove e, sotto un altro, la Chiesa Locale esiste perché composta comunque di singole comunità, a propria volta composte di singole persone.

Da una sorta di dilemma teologico dunque non si esce. O piuttosto si potrebbe individuarne una soluzione tornando al Concilio e lasciando che sia la dinamica concreta prete/comunità a determinare il senso, il significato dell’evento sacramentale che sta in ogni caso, per chi crede, alle origini del ministero.

Che vuol dire? Che per quanto si possa cercare di allontanarsi da una concezione troppo “orizzontale” del presbiterato, esso è comunque, nella sua propria definizione teologica, un ministero, cioè un servizio.

Che si tratti di quel servizio che gli sposi reciprocamente si amministrano? Ma la prospettiva è forse ancora falsata: nel matrimonio non è questione di “servizi reciproci”, bensì di amore.

Dunque la risposta al quesito potrebbe essere: quello tra preti e fedeli è un rapporto di amore, non facilmente descrivibile verso approdi sponsali o mansionali. Amare non è sempre e solo un matrimonio e neppure è un lavoro professionale.

Amare. Punto e basta. Tutto qui probabilmente.

Rodafà Sosteno