E Cristo a Cana si sposò

Nozze di Cana, Austin Camilleri - immagine tratta da commons.wikimedia.org

La narrazione di Giovanni nulla dice dei due sposi alle celeberrime nozze del miracolo del vino. Chi fossero non si sa. “Nuptiae factae sunt in Cana Galilaeae”, all’inizio del capitolo 2 di quel vangelo. Ma di chi “nuptiae” proprio non si sa.

Ad un certo momento si racconta che un “architriclinus”, “architríclinos” in greco, un “maestro delle cerimonie” (la traduzione in “colui che dirigeva il banchetto” del testo liturgico sembra davvero troppo didascalica), chiamò lo sposo, ma questo sposo resta senza nome.

Neppure la madre di Gesù viene chiamata con il suo nome.

C’è il rischio, un rischio costante, di dare un significato tutto spiritualistico – non “spirituale”, che è cosa ben diversa – all’episodio evangelico, tutto evanescente, di mero conforto consolatorio, di greve interpretazione moralistica. Il Figlio di Dio e sua Madre che si accordano per dare un po’ di gioia a sposi alquanto sprovveduti la cui organizzazione matrimoniale ha mal calcolato la quantità di vino necessaria.

Eppure la stranezza di far inebriare i commensali con il vino finale invece che con quello iniziale un po’ di sospetto dovrebbe mettere verso le interpretazioni più semplici ed immediate. Il buon vino è stato conservato sino al momento della sua consumazione ultima, nel momento in cui nessun altro vino è più a disposizione. Il momento finale è rivelativo, non quello iniziale.

Viene in mente padre David Maria Turoldo che affermava di essere sempre emozionato al pensiero di dover celebrare l’ultima sua messa, non la sua prima.

Ma anche in un matrimonio è il suo esito che consente di decodificare la sua storia, qualunque sia stata, di gioia o di sofferenza. Se di gioia, trasparirà alla fine; se di sofferenza, avrà forse motivato scelte anch’esse dolorose ma necessarie oppure sarà la sua stessa conclusione ad apportare liberazione, lo si deve riconoscere, senza alcun compiacimento ma con piena coscienza di che cosa possa significare un amore matrimoniale che sia finito.

Però a Cana avviene qualcosa di diverso, di molto diverso. L’attenzione sembra tutta esclusivamente concentrata su Gesù di Nazaret, nessun altro ha nome.

L’ipotesi, del tutto personale, è dunque che il benevolo rimprovero dell’architriclinus sia rivolto a Cristo stesso, che sia lui lo sposo, il marito. E senza alcuno spiritualismo. Provo a dire come riesco.

L’approccio maschilista alla figura del Cristo storicamente maschio ci blocca dentro una chiave interpretativa univoca, ma la nuzialità del Cristo è dimensione che non può restringersi alla sua contingenza storica. Che significa? Significa che, da un lato, come insegnano i mistici, siamo tutti e tutte – ma anche tutti – gravidi di Cristo, nel senso che nessuno e nessuna di noi è incapace di sogni, nessuno e nessuna di noi gioisce a dover rinunciare ad un sogno possibile, ed è questo il Regno, sono queste le nozze dell’Agnello come si dice: far nascere i sogni di un mondo diverso, altro, radicalmente nuovo. Partorire sogni vuol dire essere madri di Cristo.

Dall’altro la nuzialità di Cristo è disinnesco di ogni maschio-centrismo culturale ed affettivo, di ogni altero-fobia che assegni ruoli e condizioni postulandoli semplicemente dal dato biologico. La madre ha una preoccupazione maschile – “non hanno vino” -; il figlio ha comportamento femminile – “riempite le anfore di acqua” -.

Ma forse è possibile accennare anche a qualcosa di più. Gesù non è soltanto lo “sposo”, nel senso appunto di una realizzazione di incontro amoroso al di fuori di ogni codice, di piena realizzazione di ogni sogno benché razionalmente assurda. Il versetto 2 del capitolo 2 di Giovanni riferisce di altre presenze: invitati alle nozze sono anche i discepoli di Gesù. Gesù non è da solo con sua madre, come magari anche certa iconografia sembra suggerire. C’è un gruppo che va a questo matrimonio. Ciò che forse si può accennare, non senza un qualche turbato pudore epperò avvertendo che non si può non rilevarlo, è che quell’intero gruppo è “gruppo matrimoniale”. Il mistero di Gesù di Nazaret, insomma, è mistero nuziale non per una qualche imperscrutabile verità divina ma perché – provo a dirlo così – è Gesù stesso “un matrimonio” più che “uno sposo”.

Devo affrettarmi a spiegare, lo so bene: nessun amore, nessuno struggimento, nessuno strazio amoroso, nessun interrogativo sull’amore e a partire dall’amore, di nessun tipo, di nessuna forma, di nessun colore, di qualunque intensità, può ritenersi non appartenere integralmente, essere estraneo, a quell’uomo del tutto singolare perché del tutto fuori norma. L’ebraicità di Gesù di Nazaret è fuori discussione, o almeno dovrebbe, proprio perché il suo cammino sta dentro la storia, dentro l’appartenenza, dentro l’identità e non svanisce in astrazioni per quanto seducenti.

E tuttavia nessuna appartenenza esaurisce l’amore, nessuna identità, nessun linguaggio. Nessuna opzione filosofica, nessuna ideologia, nessuna scelta, nessuna religione. Bisognerebbe invertire il potenziale di certa asfissiante retorica sulla bontà della scelta etica ed esistenziale: si sceglie perché si deve, ma la nostalgia del non scelto, se scevro da violenza e dunque eticamente apprezzabile, rimane ed è benedetta e può tornare centuplicata, quella stessa rinuncia un tempo necessitata.

È arrivata oggi la notizia di un nuovo naufragio con centinaia di morti: http://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2019/01/18/migranti-gommone-con-20-a-bordo3-salvi_b177f328-a76c-449a-afe3-80cf4343461e.html

Una delle reazioni possibili è prendere le distanze perché quelle persone non sono dei nostri, certamente non fanno parte delle nostre famiglie (siamo sicuri?). Nulla di matrimoniale accomuna noi e loro. Non sono nostre mogli, nostri mariti, nostri figli, nostri compagni, nostre compagne, nostri e nostre nipoti. Quei bambini non sono nostri. Quei corpi non avrebbero mai avuto le nostre carezze. È così?

Quand’anche la risposta debba essere positiva, tutti questi morti stanno seduti alla tavola imbandita di Cana. E non per la realizzazione di una compensazione satisfattoria ultraterrena, ma perché l’amore o si fa in tanti o non si fa. Perché il Cristo non era da solo a quel matrimonio, perché il Suo essere “un matrimonio vivente”, un “matrimonio personale”, è follia degna solo di Dio, ma di un Dio che, almeno alle lettrici e ai lettori di questo nostro povero giornale, nonché al suo misero direttore, piace moltissimo - immaginiamo -, fino al desiderio di riuscire a far con Lui, con Lei, coppia stabile.

Avere una storia con Dio sembra il compimento delle nozze di Cana, ben più che il loro inizio.

Ma avere una storia con Dio vuol dire avere una storia con tutti e tutte coloro che portiamo in cuore, nessuna esclusa e nessuno escluso. Perché Gesù di Nazaret, in mezzo a loro, dà un buon bicchiere di vino da gustare assieme. E non recita preghiere.

Buona domenica.

Stefano Sodaro