Agápe che non si può dire

Del femminile e del maschile - disegno di Rodafà Sosteno

La liturgia romana dell’odierna domenica prevede la proclamazione del celebre “Inno alla carità” di Paolo apostolo, tratto dal capitolo 13 della Prima Lettera ai Corinzi.

Proviamo a mantenere intraducibile quella misteriosissima “ἀγάπη”, “agápe”, invece di trasformarla in “caritas”, come avviene con il testo latino che l’italiano traspone ossequiosamente in “carità”.

Merita riportare integralmente, per la sua bellezza, la versione in greco, dei versetti dall’1 all’8:

“Ἐὰν ταῖς γλώσσαις τῶν ἀνθρώπων λαλῶ καὶ τῶν ἀγγέλων, ἀγάπην δὲ μὴ ἔχω, γέγονα χαλκὸς ἠχῶν ἢ κύμβαλον ἀλαλάζον. καὶ ἐὰν ἔχω προφητείαν καὶ εἰδῶ τὰ μυστήρια πάντα καὶ πᾶσαν τὴν γνῶσιν, κἂν ἔχω πᾶσαν τὴν πίστιν ὥστε ὄρη μεθιστάναι, ἀγάπην δὲ μὴ ἔχω, οὐθέν εἰμι. κἂν ψωμίσω πάντα τὰ ὑπάρχοντά μου, καὶ ἐὰν παραδῶ τὸ σῶμά μου ἵνα καυχήσωμαι, ἀγάπην δὲ μὴ ἔχω, οὐδὲν ὠφελοῦμαι. Ἡ ἀγάπη μακροθυμεῖ, χρηστεύεται ἡ ἀγάπη, οὐ ζηλοῖ, οὐ περπερεύεται, οὐ φυσιοῦται, οὐκ ἀσχημονεῖ, οὐ ζητεῖ τὰ ἑαυτῆς, οὐ παροξύνεται, οὐ λογίζεται τὸ κακόν, οὐ χαίρει ἐπὶ τῇ ἀδικίᾳ, συγχαίρει δὲ τῇ ἀληθείᾳ· πάντα στέγει, πάντα πιστεύει, πάντα ἐλπίζει, πάντα ὑπομένει. Ἡ ἀγάπη οὐδέποτε πίπτει.”

Ora il latino:

“Si linguis hominum loquar et angelorum, caritatem autem non habeam, factus sum velut aes sonans aut cymbalum tinniens. Et si habuero prophetiam et noverim mysteria omnia et omnem scientiam, et si habuero omnem fidem, ita ut montes transferam, caritatem autem non habuero, nihil sum. Et si distribuero in cibos omnes facultates meas et si tradidero corpus meum, ut glorier, caritatem autem non habuero, nihil mihi prodest. Caritas patiens est, benigna est caritas, non aemulatur, non agit superbe, non inflatur, non est ambitiosa, non quaerit, quae sua sunt, non irritatur, non cogitat malum, non gaudet super iniquitatem, congaudet autem veritati; omnia suffert, omnia credit, omnia sperat, omnia sustinet. Caritas numquam excidit.”

Variamo invece, per appunto, la traduzione italiana:

“Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi agápe, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi agápe, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi agápe, niente mi giova. Agápe è paziente, è benigna agápe; non è invidiosa agápe, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. Agápe non avrà mai fine.”

Ma agápe non si sa che cosa sia.

Resta una specie di mistero neotestamentario, che ben comprensibilmente ci si affretta a decodificare con uno o l’altro dei codici ermeneutici a disposizione – è un paradosso ma anche le destrutturazioni abbisognano di proprie strutture recettive – e che però fuoriesce da ogni accettabile significato.

Come mai? Forse perché è qualcosa che ha a che fare con niente di meno che Dio, inteso tuttavia qui anch’Egli semplicemente come codice nominativo di un Oltre che permane, resiste, persino che si oppone ad ogni traducibilità. Che non è noto.

In effetti sarebbe bello poter almeno sperimentare agápe in qualche modo, da qualche parte.

Si è spesso ritenuto, a ragione beninteso, che l’amore dei genitori per i figli fosse proprio la sua incarnazione. Eppure le possibili – e terribili – conseguenze di una indistinta, e magari giocosamente inconsapevole, belluinità assegnata ai figli (le “bestie” dello scorso numero) hanno purtroppo trovato un drammatico inveramento nelle cronache di questa settimana. Lo annotiamo non certo compiaciuti, anzi desolati, ad attestazione di una complessità del vivere che qualunque violenza – sia pure solo verbale o mentale – fa diventare inestricabile e definitivamente complicata e dunque alla fine inaccettabile. Perché altro è la complessità e ben altro la complicazione.

Ma la vita presenta uno spettro di esperienze assai vasto. Registra, ad esempio, il caso di vite – la vita e le vite – che rimangono per così dire nell’ombra, ma che soprattutto, al di là di un’obiettiva oscurità più o meno scelta, più o meno obbligata, necessitata, non vengono mai problematizzate fuori di un ambito psicologico o letterario, quasi fossero malattie, se non del corpo certo dell’anima.

Ci è capitato di imbatterci in due articoli, non recenti, comparsi sul Corriere della Sera in versione online. Li si può leggere qui:

http://27esimaora.corriere.it/sessoeamore/17_marzo_11/attimi-rubati-l-amore-quello-vero-mia-vita-amante-b120a278-0679-11e7-8fe9-ed973c8b5d6a.shtml;

e qui:

http://27esimaora.corriere.it/sessoeamore/17_marzo_21/sua-famiglia-mulino-bianco-io-l-amante-che-salva-matrimonio-9505ed78-0e35-11e7-bc58-c287e833415a.shtml.

Ha poco senso farne una sintesi, neanche sommaria, se non limitandoci al cenno che si tratta di rapporti affettivi cosiddetti “extraconiugali”.

La densità dell’esistente – a volte davvero piuttosto periferico, come ama ricordare il Papa – supera di molto qualunque incasellamento di facile acquietamento un po’ (molto) borghese e sbarra il percorso a qualsiasi scorciatoia moralistica.

La Corte di Cassazione, nella sentenza n. 9242 del 9 marzo 2010, Sez. III Penale, dopo avere affermato che «Secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, è pacifico che “il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche in danno di persona convivente more uxorio, quando si sia in presenza di un rapporto tendenzialmente stabile, sia pure naturale e di fatto, instaurato tra le due persone, con legami di reciproca assistenza e protezione” e che “agli effetti del delitto di cui all’art. 572 cod. pen., deve intendersi come famiglia ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo” (Sez. VI, 24.1.2007, n. 21329, Gatto, m. 236757; Sez. VI, 29.1.2008, n. 20647, Battiloro, m. 239726).», prosegue con queste considerazioni: «(…) il giudice del merito avrebbe dovuto tenere conto del fatto che la R. viveva già nella propria famiglia con il marito ed i figli, ossia viveva già in un consorzio stabile di persone tra le quali, per le strette relazioni e consuetudini di vita, vi erano rapporti di assistenza e di solidarietà, e quindi avrebbe dovuto accertare, motivando adeguatamente sul punto, se fosse possibile, o comunque se vi fosse stata in concreto, la creazione, accanto a questo, di un altro consorzio stabile di vita e di consuetudini con il B., con ulteriori rapporti di assistenza e di solidarietà. Del resto, qualora il G. avesse a sua volta maltrattato la R., non si sarebbe trattato di reati compiuti da due diversi soggetti nell’ambito della stessa famiglia, bensì di reati compiuti da due soggetti diversi ai danni della stessa persona ma nell’ambito, contemporaneamente, di due famiglie diverse.»

Sembra quasi che i Giudici compiano un passo, di semplice realismo constatativo, che le morali – al plurale – si rifiutano di cogliere, perché distanti, nelle loro ricerche di coerenza, da quel dato di realtà.

Se non ci fosse rischio di fraintendimento si potrebbe concludere che i Giudici osano una “politica giuridica” inaudita per altri attori e saperi sociali. Nel senso cioè che innervano, appunto, di realtà, di concretezza della vita effettiva nella polis, astrazioni di rispondenza tra norma e comportamenti che altrimenti si ridurrebbero a mere pretese etiche o a sole pratiche sanzionatorie.

Ed è la dimensione di una politica della vita – su cui molto avrebbe da dire Michel Foucault ai cristiani – a rendere consapevole Trieste in questi giorni di quanto l’associazione “Libera” fa e studia, senza sconti di confronto con le esperienze più dure e più contraddittorie.

Peraltro quelle dimensioni di esistenza reale di cui parlano i due articoli citati si intrecciano ancor di più, drammaticamente, con altre istanze se si legge la meditazione di Mauro Leonardi, comparsa su Avvenire del 19.12.2017, intitolata Perché mi hai tradito?, rinvenibile al link https://www.avvenire.it/rubriche/pagine/perche-mi-hai-tradito.

L’agápe ha qualcosa a che fare con tutto questo? Prima di optare per un decisissimo no – magari piuttosto, o molto, perbenista -, oppure per un sussurrato sì – magari piuttosto, o molto, impaurito -, si potrebbe con molta semplicità immaginare di parlarne. Con discrezione, con rispetto, con volontà di non far male a nessuno. Ma di parlarne.

E con chi? Non con maestri di dottrina, morale e diritto, nemmeno tanto con consulenti spirituali più o meno accreditati, bensì direttamente con quell’Inesprimibile, con quel Mistero che non vorremmo – saremmo di nuovo alla resa dei conti – nominare, ma a cui è ancora possibile rivolgersi con un “tu”, forse maiuscolo (un “Tu”), forse minuscolo, poco importa. Non si tratta di evadere, di alienarsi, di cercare chissà dove e chissà chi. Si tratta di riconoscere lo spazio dell’Altro.

Parlarne dunque, probabilmente, molto oltre le parole, constando l’inservibilità di quasi tutti i linguaggi verbali, tranne uno. Quello prossimo alla follia, quello dell’eccesso che non violenta, non aggredisce, non si impone, ma cerca spazi abitativi molto intimi eppure reali.

Lo spazio del terzo, se vogliamo. E la dimensione della terzietà forse è quella più congeniale ad ospitare agápe.

Che non si sa cosa sia, ma che si vive. Nonostante qualunque cosa in contrario (come chiudono le disposizioni giuridiche pontificie)

Buona domenica.

Stefano Sodaro