Drag queen theology

Susanna e i vecchioni (1492/1495) - Pinturicchio, Citta del Vaticano, Appartamento Borgia

- immagine tratta da commons.wikimedia.org

Chi è alla ricerca di provocazioni stuzzicanti o di motivi di riso immediato è cortesemente pregato di arrestare qui la lettura.

Gli adolescenti dei nostri giorni, che possono spiegare con piena contezza chi e cosa siano le “drag queen”, si accreditano come più seri di qualunque attempato censore che, siccome non comprende fenomeni che appaiono in una vita che non gli appartiene (o non gli appartiene più), si chiama fuori e si condanna da solo all’afasia e all’ignoranza.

Quanto accaduto in questi giorni in Vaticano è noto al mondo. Ma la cronaca degli eventi ecclesiali, dando all’aggettivo uno spettro semantico molto più ampio di quello interno alle dinamiche confessionali, ha visto – in queste settimane - una serie di altri, intensissimi, momenti e motivi di riflessione: l’anniversario del rilascio delle “Regie patenti” alle Comunità Valdesi, il 17 febbraio 1848 ad opera di Carlo Alberto; la riammissione al ministero presbiterale di Ernesto Cardenal, uno dei massimi poeti contemporanei dell’America Latina, prete trappista e già ministro del Governo rivoluzionario del Nicaragua dopo la cacciata del dittatore Somoza; la morte di Adriano Ossicini, il 15 febbraio scorso, uno dei fondatori del Movimento dei Cattolici Comunisti (MCC) e fondatore del celebre settimanale Adista (il cui direttore è stato ospite a Trieste del nostro giornale, si può vedere al link https://www.adista.it/video/16).

Perché questo periplo intorno a memorie e avvenimenti tra loro molto diversi? Cosa c’entra tutto questo?

Il qui scrivente ritiene davvero che la questione dell’identità sia l’agone effettivo dove si combatte una battaglia epocale, una guerra che non mi sentirei di definire del tutto nonviolenta o solo culturale: la battaglia del “noi” e del “loro”, la contesa tra ciò che crediamo d’essere e ciò che realmente siamo.

La battaglia per l’identità di chi finalmente poté vedere riconosciuti i propri diritti civili di minoranza religiosa; l’identità di chi avrebbe voluto continuare a fare il prete nonostante pontificali diti alzati; l’identità di chi ha dedicato la vita a rendere possibile un percorso di vita cristiana diversa, alternativa, non collaterale al potere politico maggioritario benedetto dall’episcopato.

Dentro questa lotta di identità oppresse e poi affermate, riabilitate, sguscia in questi giorni, tra i ragionamenti, gli appelli, le condanne, le reprimende, gli orrori, la faccenda del desiderio, una faccenda ingombrantissima. E dentro il desiderio – che dunque struttura l’identità – la polarizzazione è costituita da assenza o presenza di amore, altra parola d’impaccio.

I preti vestono la talare, un abito che, nella sua foggia esterna, è la negazione dei pantaloni, o meglio, per farci, farmi, capire, è negazione di un look tipicamente maschile secondo l’accezione comune dei ruoli di genere. Che appunto – incredibile a pensarci su – la veste pretale contesta. C’è un che, anzi molto, di femminile non solo nella veste d’ordinanza, chiamiamola così, del prete “in pubblico”, ma anche nei paramenti liturgici. E, a scanso di ogni possibile equivoco, tutto ciò ci, mi, appare bellissimo, straordinario, mozzafiato. Il sorriso di Dio, il capovolgimento delle logiche correnti, la capacità degli spazi sacri di ospitare l’ambiguo senza esorcizzarlo bensì rendendolo, anzi, familiare e salvifico.

Però meglio andare con ordine e, soprattutto, meglio prendere la cosa da un’altra prospettiva.

Il passo del Vangelo odierno, nella liturgia romana, ha un fascino sconcertante. Dal capitolo 6 di Luca.

«A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. Da’ a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro.»

Le identità si costruiscono intorno a precise univocità. Amici i miei, nemici gli altri. Amore e odio, di qua e di là. Benedire e maledire non sono interscambiabili, perché il bene non è interscambiabile con il male.

Eppure qui, in questo passo evangelico, si scompagina tutto.

E poi “il corpo spirituale”, contrapposto a quello “animale”, al capitolo 15 (v. 46) della Lettera di Paolo ai Corinzi. Il corpo è corpo, fatto di carne: che significa dunque simile distinzione oppositiva?

C’è un desiderio, che accompagna e scompagina nello stesso momento ogni identità, senza per questo distruggerla o attentare ai suoi diritti di riconoscimento sessuale, un desiderio capace di ospitare amore – torna la parola problematica –, oppure capace di solo desiderio, autoalimentantesi fino all’esaurimento.

Proviamo a trovare spunti biblici che parlino di desiderio e di amore presente o assente.

Il capitolo 13 del libro del profeta Daniele presenta la famosa scena dei due vecchi che guardano di nascosto la bellissima Susanna mentre prende il bagno e l’accusano di un falso tradimento perché avrebbero voluto che fosse stata lei a tradire il marito con loro due. Nella narrazione letteraria dell’episodio biblico, transitando dal greco dei Settanta alla versione latina, avviene tuttavia qualcosa di strano e decisivo: quando il testo latino deve parlare dei sentimenti, anzi dei desideri appunto, dei due anziani giudici afferma che i due sporcaccioni – le parole ogni tanto bisogna pur usarle – fossero “vulnerati amore eius”, “feriti dall’amore per lei”, per Susanna.

Amore? Alla lettura confesso di aver provato un sobbalzo. Quale amore? Il greco non parla affatto di “amore”, ma dice: κατανενυγμένοι περὶ αὐτῆς (“katanenygménoi perì autēs”), vale a dire “sconvolti, stupefatti da lei”.

L’amore non c’è. C’è la κατάνυξις (“katányxis”), lo sconvolgimento, ma nessun amore. I due sono feriti da uno sconvolgimento che provano verso Susanna, non da amore per lei. Eppure la traduzione si è corrotta come riportato, rendendo tutto molto più ambiguo, ma di una ambiguità che distrugge invece di ricomporre. Perché affermare presenza d’amore dove amore proprio non c’è è tradimento cocente e pericolosissimo. E le conseguenze sono imprevedibili.

Spunto invece ora neotestamentario.

Al capitolo 14 del Vangelo di Matteo Salomè, figlia di Erodiade, danza per Erode e – si legge alla fine del versetto 6 - ἤρεσεν (“éresen”) al Re, “piacque”.

Il verbo è ἀρέσκω, “piacere a qualcuno”, che sarebbe stupendo, sempre contemplando le forze di desiderio che ci abitano e ci plasmano, ma che, ahinoi, si accompagna, nella narrazione di Matteo, al vero e proprio contratto che Erode ha stipulato con Salomè. Salomè piacerà al Re per avere in cambio ciò che desidera e che il Re gli promette.

Nell’episodio del libro del profeta Daniele chi sta per soccombere è Susanna, una donna sposata, indifesa, da sola.

Nell’episodio del vangelo di Matteo chi soccombe è un uomo maschio considerato profeta, il Battista Giovanni, non sposato, anzi assai scomposto nel suo normale atteggiamento, del tutto fuori ruolo e fuori codice, un asociale e forse ancor di più e di peggio. Certamente un solitario. Una voce che grida nel deserto.

Anche Erode prova, davanti a Salomè, lo stesso sconvolgimento viscerale dei due vecchi davanti a Susanna, ma anche per Erode l’amore è realtà sconosciuta, anzi bestemmiata.

Le due nudità, di Susanna e di Salomè, sono violate da una richiesta di contraccambio privo di qualunque affetto, di qualunque emozione interiore, di qualunque amore: i vecchi vorrebbero che Susanna si unisse a loro per paura, Erode pretende che Salomè si denudi davanti a lui in cambio di qualunque cosa, anche la testa di un profeta.

Colpisce che sia i due vecchi sia Erode ricoprissero cariche sociali di prim’ordine, addirittura giudici e re. Con i pantaloni? Cioè – fuor di metafora – gelosi possessori di una identità di genere assolutamente indiscutibile? Sì, senza dubbio.

Susanna e Salomè non hanno più abiti addosso, la loro identità si decide solo in base alla loro nudità, ma i corpi creano comunione, attrazione, intesa, reciprocità. I vecchi giudici e il re Erode restano ben vestiti. Non c’è amore in chi fa spogliare gli altri rimanendosene vestito. C’è solo compiacimento di potere, c’è volontà di non cedere, di non essere messo in scacco, di difendersi sempre.

Su autorevole consiglio, ho visionato un famoso film – Priscilla, la regina del deserto -, proprio mentre in Vaticano si chiudeva il summit sugli abusi verso i minori nella Chiesa.

Quale Chiesa desideriamo? Cioè quale Chiesa amiamo?

La solidarietà tra i diversi generi sessuali e culturali che le “drag queen” del film sono capaci di creare, la comunità che riescono a fondare, riempie di commozione. E fa gioire.

Quale Chiesa desideriamo? Quale piacere chiediamo alla Chiesa – nostra comunità, casa nostra – di custodire e celebrare? Quello che è espressione di fiera e potente identità sessuale, e non solo sessuale, o quella che accetta di ridiscutere ruoli e spazi, parole e scritture, perché, appunto, la veste talare è femminile (basti del resto pensare ai preti donne anglicane) e la parzialità di ogni identità sancisce la sua capacità di amare mentre la rovina per sempre, sino ad ucciderla, la maiuscolizzazione/maschilizzazione dei linguaggi?

Chi siano le “drag queen” sarebbe contraddittorio spiegarlo ora qui, bisogna chiederlo ai nostri ragazzi ed alle nostre ragazze, lo sanno benissimo e non ne sono per niente turbati e turbate.

Mentre restano atterriti ed atterrite dalla violenza di un desiderio senza amore che anche l’istituzione ecclesiale ha permesso si sviluppasse al suo interno, nella convinzione errata che i due vecchi davanti a Susanna ed Erode davanti a Salomè non siano altro che retoriche pecorelle smarrite da ricondurre all’ovile con mezzi spirituali, mentre il perdono, la misericordia, dovrebbero assumere la fatica di scandagliare il desiderio e, se rinvenuto aridamente privo di qualunque amore - com’è tipico di qualunque comportamento violento -, chiedere a chi è stato desiderato che cosa sia accaduto, quale male sia stato verso di lei, di lui, compiuto, chiederlo concretamente, non in astratto, e poi sanzionare, e poi curare, ma prima di tutto insegnare ad amare.

Il desiderio ci aspetta, non può essere incarcerato, né scomunicato, né spretato. Resta, inossidabile, fortissimo. Inemendabile. Possente. Di per sé in grado di amare oppure, specularmente, di violentare.

Terribile a dirsi.

Ma è la storia di un’Apocalisse.

Di una Rivelazione.

Di cui rendersi finalmente conto.

Da cui apprendere.

Meglio ora che mai.

Buona settimana.

Stefano Sodaro