Eros, follia, monachesimo e violenza - seconda puntata

Memoriale del massacro di Srebrenica - foto tratta da commons.wikimedia.org

Scrive Paul Tillich: «La radice del peccato, secondo la tradizione teologica, è la sfiducia nei confronti di Dio. Questa definizione è l’espressione più acuta del carattere religioso del peccato. Ma essa offre anche la più profonda visione dell’essenza del demoniaco: poiché la sfiducia nei confronti di Dio equivale alla demonizzazione di Dio nella coscienza umana. L’uomo non osa abbandonarsi all’assoluto perché lo vede come ciò che lo giudica, lo distrugge e lo spezza. Tutta la storia delle religioni è piena di questa demonizzazione del divino. La sua apparizione più terribile è quella in cui l’uomo, abbandonata ogni mediazione sacramentale, viene posto immediatamente davanti a Dio sperimentandone la pretesa assoluta, l’ira che lo ripudia. O anche quella in cui, venuti meno tutti i contenuti della vita, l’assoluto appare come abisso dal nulla. Qui il divino acquista carattere puramente demoniaco, e la lotta per la grazia e il senso diventa una battaglia per il superamento del Dio demoniaco mediante colui che è veramente Dio. Per chi ha fatto propria una visione di Dio come demone – visione che lo precipita nella più completa disperazione – il divino cessa di essere oggetto di conoscenza immediata e di rapporto. La divinità di Dio diventa un assoluto paradosso, una grazia mai attesa e impossibile da dimostrare. Ma oltre che grazia Dio è legge e giudizio che porta alla disperazione. Dio – a differenza del demone – diventa Dio attraverso la grazia. È questo il nesso più profondo tra il peccato e il demoniaco.» (in P. Tillich, Il demoniaco. Contributo a un’interpretazione del senso della storia, trad. a cura di L. Crescenzi, Edizioni ETS 2018, p. 39).

Ora confrontiamo simili parole, del grande teologo luterano, con quelle di don Lorenzo Milani, rivolte ad un Direttore didattico (in Don L. Milani, La parola fa eguali. Il segreto della scuola di Barbiana, a cura di M. Gesualdi, Libreria Editrice Fiorentina, 2019, nuova edizione, pp. 90-91): «Mi elenchi quale attività può appassionare il ragazzo a una vita più dura, monastica, come gli faccio fare io, che non sia quella che io ho proposto. Il ragazzo deve avere un alto ideale. Io da prete dovrei dirvi: “L’ideale religioso”. Dovrei dire “… per l’amore di Gesù stai a studiare 25 ore al giorno”. Ma io che son prete vi dico: “Guardate, vi sbagliate: la Grazia di Dio va dove vuole, non tutti l’hanno. La fede non tutti l’hanno, è un dono di pochi, e non si può considerarla premessa della scuola nel senso che tutti i ragazzi debbano avere la fede, e per amore della loro fede, del loro Dio, dei loro doveri religiosi, fare il bene, sacrificarsi e fuggire il male, fuggire il piacevole, il divertente.”

Ve lo dico io da prete: la fede non si può mettere come fine della scuola. La fede ce l’ha il singolo che gli è giunta per la grazia che ha avuto. Quindi la fede non si può mettere come base della scuola. Allora la cultura in sé? Anche la cultura in fondo è egoistica, e si riferisce a lui solo. Io ho trovato la soluzione che dicevo. Se ne trovate una migliore voi io l’accetto subito.»

E il direttore obietta: «Si potrebbe parlare di comunità, di fratellanza religiosa.»

E subito don Milani: «Non è detto che sia solo cattolica, cristiana o religiosa, può uscire anche un buon comunista dalla mia scuola.»

Si può individuare un tratto comune tra Paul Tillich e don Lorenzo Milani? Probabilmente sì e sta tutto nell’appello alla Grazia.

Parola che mette giustamente in grande sospetto perché vituperata, bestemmiata, in registri emotivi, codici linguistici e accenti psichici tutti devozionali, tutti ristretti dentro una comparazione del sé con l’Assoluto, dell’io con il Lui, di lettere minuscole impaurite davanti ad un’unica enorme Maiuscola.

Ma la Grazia è esattamente il contrario, è discesa e non ascesa, abbassamento e non innalzamento, crocifissione e non proiezione nei cieli.

Domani a Trieste si farà memoria dei cento anni dall’incendio e dalla distruzione dal Narodni Dom.

Saranno presenti nel capoluogo giuliano i Presidenti della Repubblica Italiana e Slovena, Sergio Mattarella e Borut Pahor. Ed un altro Pahor – lo scrittore Boris Pahor - è tutt’oggi testimone vivente, a 106 anni, di quell’evento che ha segnato la svolta razzista del regime fascista, ben prima delle leggi del 1938, e che s’è chiamato anche la “notte dei cristalli” di Trieste (http://www.narodnidom.eu/it/la-mostra/13-luglio-1920-la-notte-dei-cristalli-di-trieste/).

Intanto, in un silenzio pubblico assordante – rotto solo da qualche rado articolo come su Repubblica dell’8 luglio scorso (https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2020/07/08/news/l_orrore_dei_balcani_oltre_il_negazionismo_dopo_25_anni_c_e_chi_esalta_la_pulizia_etnica-261369014/) - trascorrono i 25 anni dal massacro di Srebrenica.

È il grande tema dell’alterità che si presenta in continuazione davanti allo sguardo di un’intera cultura.

L’Altro, l’Altra, che negli anni Venti dello scorso secolo aveva il volto di chi parlava sloveno; l’Altro, l’Altra, che a metà anni Novanta sempre dello scorso secolo aveva il volto di chi professava, in Europa, la fede islamica ed il cui territorio veniva orrendamente ritenuto bisognoso di “pulizia etnica”. Il demoniaco appunto. L’ossessione malata di una purezza razziale da costruire, assicurare, celebrare, propagandare.

La Grazia, invece, è il dono della contaminazione, il regalo dell’impurità, l’offerta dell’incoerenza, della contraddizione, che non mina l’unità, non rende impotente la necessità di sentirsi unificati e non smembrati, dispersi, frantumati, scissi, ma che afferma tale unità visitando, senza troppe paure e troppi pudori, gli abissi che ci abitano.

Se qualche lettore e qualche lettrice conoscono ed hanno letto le memorie della moglie di Paul Tillich, Hannah Tillich, contenute nel suo volume intitolato From time to time, lo sconcerto, forse addirittura lo scandalo, verso la narrazione di una vita sessuale del tutto al di fuori di canoni e discipline, potrebbe atterrire, potrebbe sembrare ovvia conseguenza nel constatare una specie di massima empietà esistenziale, tanto più grave ed eclatante in quanto riferita ad un teologo. Oppure potrebbe scattare il consolidato meccanismo che impone separazione tra vita ed opere di qualunque autore e qualunque autrice, da Heidegger a Montanelli per capirci. E tuttavia proprio il fatto che Tillich abbia voluto soffermarsi sul “demoniaco”, come dimensione rivelativa di una tensione tra eros, violenza e pure reale follia, dovrebbe suggerire maggior cautela nell’approccio e, in particolare, un abbandono convinto di ogni pratica interpretativa soggetta e moralismo e pregiudizio ideologico. Nella narrazione di Hannah Tillich, ad esempio, non vi sono episodi di violenza e l’eccesso, l’eccedenza, il traboccamento possono sussistere – benché, certo, con grande scandalo – dentro una prospettiva di radicale nonviolenza, anzi di “teologica” nonviolenza. Ritorna ancora il motivo dell’et et sostitutivo di un aut aut che ha strutturato le menti ed i corpi alle nostre coordinate culturali.

La precarietà delle nostre vite, quasi inaugurata ufficialmente con la proclamazione dello stato d’emergenza per motivi sanitari, fa baluginare interrogativi di senso che se, da un lato, non possono essere più elusi o soffocati, dall’altro invocano un rifiuto di incapsulamento metafisico, una predilezione piuttosto per una “leggerezza” di vita che non è superficialità, bensì levità, danza.

Il contadino che nei primi nove versetti del capitolo 13 del Vangelo di Matteo getta dappertutto i semi, anche tra le rocce ed i rovi, sembra un dissennato, un folle, e agisce da solo, come un monaco, ma il suo gesto è di solare nonviolenza: i semi non fanno male a nessuno, neppure ai rovi e alle rocce. Il dare in eccesso sconfigge le logiche contabili e matematicamente esatte spesso presidiate da apparati violenti di controllo e di verifica. Eppure anche l’avere, l’avere necessario per vivere, può abitare e svilupparsi dentro spazi di nonviolenza, di non accaparramento esclusivo ed escludente, di fraternizzazione dell’economico. Del resto la “parte” che “cade sul terreno buono” dà frutti diversi: “il cento, il sessanta, il trenta per uno”. Bene-dire l’avere, il fruttificare, il moltiplicare – anche proprio con riferimento alle consistenze patrimoniali – non è entrare nella maledizione, ma assumere la complessità e la fatica di ogni nostra giornata.

La giornata che Trieste vivrà domani rimette di nuovo al centro la storia del Secolo Breve. Trieste non esce dal Novecento, non può farlo, non è questione di riuscirvi, è la sua anima che staziona in un evo che, da noi, qui, non passa mai perché non vogliamo che passi, non vogliamo che svanisca nell’oblio quel significato, quel senso, che spasmodicamente cerchiamo e che a Trieste è a portata di mano.

Buona domenica.

Stefano Sodaro