Sunem, anno 2020

Incontro a Sunem nell anno 2020, disegno di Rodafà Sosteno

La versione in latino del passo dal Secondo Libro dei Re, di cui il rito romano prevede la proclamazione per l’odierna liturgia domenicale, presenta una singolare figura femminile descritta come “mulier magna”, una “gran donna”.

Una donna sposata, anche se “eius vir senex est”, “suo marito è anziano”.

Eppure proprio questa “gran donna” propone al marito di costruire per Eliseo di passaggio a Sunem, il loro villaggio, “una piccola stanza superiore, in muratura” e aggiunge: “mettiamoci un letto, un tavolo e un candeliere; così, venendo da noi, si potrà ritirare”. “Cum venerit ad nos, maneat ibi”.

Chi viene da noi, ci rimanga, ci possa rimanere.

Abbastanza sconcertante il quadro di una coppia di coniugi che, per iniziativa della moglie, si apre all’ospitalità di un terzo. Siamo sinceri: la scena è al limite dello scandalo. La narrazione annota poi che, in realtà, anche Eliseo non è da solo, poiché chiede notizie sulla maternità della “gran donna” al servo Giezi, che evidentemente è con lui.

La costruzione di un “cenaculum muratum parvum”, come riporta sempre la versione latina, dà il senso di un afflato di intima condivisione che tratteggia il significato di essere comunità anche oggi. Esiste la comunità civile, lo Stato, la città, il quartiere, ma esiste anche la comunità espressamente fondata per un riferimento ideale che accomuna i suoi membri, una prospettiva che può pure essere di vita ecclesiale affrontata assieme, com’è storia di molte esperienze fiorite – ed a volte anche piuttosto velocemente appassite – nel post Concilio.

“Una piccola stanza” da costruire non è un hotel a cinque stelle ma non è neppure un angolo residuale ed inutilizzato. E che sia una donna a preoccuparsi per un uomo che non è il marito è, appunto, sbalorditivo agli occhi dell’etica perbenista e assennatamente borghese. Come se ci fosse “qualcosa” che è in grado di scardinare presupposti consolidati non per distruggere ma per approfondire, per radicare ancor meglio, per scavare, per trovare la perenne notività di parole consunte dall’abitudine. Lo stesso matrimonio è a costante rischio di luogo comune, la stessa nozione di “Chiesa”, per non dire di quella di “patria” quasi mai declinata in “matria”.

Eliseo profeta, peraltro, proferisce parole di promessa su un figlio che “mulier magna” stringerà entro un anno tra le braccia ma senza farla entrare in quella piccola stanza. Si legge in italiano: “ella si fermò sulla porta”. La parola di Eliseo la coglie rispettosamente al di fuori di quel “cenaculum” che pur ella ha voluto fabbricargli.

La “terza fase” di Chiesa che nella comunità cattolica si sta vivendo, a parere di chi scrive queste righe, è molto in difficoltà con il diritto naturale. L’affermazione, presente al capitolo 10 del Vangelo di Matteo – anch’esso proprio del rito romano per oggi -, di un amore che supera l’amore per il padre, la madre, il figlio o la figlia, cozza violentemente con presunti principi non negoziabili di presunto diritto naturale. Nessun legame di parentela è esaustivo dell’amore, anzi, di più, o peggio: la verità dell’amore sta altrove, in “qualcosa” che supera la predilezione di natura propria di ogni essere vivente. E tuttavia è un superamento, non un arretramento. La porta della “piccola stanza” non viene superata dalla “gran donna”, ma la nostra protagonista non fa un passo indietro, resta lì ad ascoltare. In prospettiva teologico-cristiana, si potrebbe forse pensare che i tempi messianici consentano ormai anche il superamento, pur sempre pudico e rispettoso, di quella soglia, la soglia che Gesù di Nazaret lasciò varcare in effetti a molte donne che stavano con lui, come racconta l’inizio del capitolo 8 del vangelo di Luca.

Vi è un ulteriore aspetto interessante: la “piccola stanza superiore” viene costruita per qualcuno che non appartiene alla propria cerchia, alla propria comunità per appunto. È “un altro”, che passa di lì ma non vive lì. La stanza non viene costruita per ampliare i propri spazi bensì per dare spazio all’alterità.

Del resto il figlio, la figlia sono presenze “altre” che nessuna proiezione materna e paterna può addomesticare in un disegno di omologazione, di replicazione, di semplice continuità. L’amore materno e l’amore paterno avvertono la frattura, la scissione, salutari proprio in quanto tali, necessarie “stanze separate” di una vita che non è più la propria.

La “gran donna” di Sunem mette in crisi i ruoli. Il testo latino è ancora una volta molto pregnante: “quae tenuit eum, ut comederet panem”. Trattenne lei Eliseo (eum) perché condividesse il pane. “Com-edere”, mangiare assieme, non da soli.

Perché la “mulier magna” osa tanto? Con quale giustificazione? Perché Eliseo viene riconosciuto come “uomo di Dio”, “sanctus est iste, qui transit per nos frequente”. “È un santo costui che passa spesso da noi”. La frequentazione costante di una coppia come segno di santità, di elezione divina. Lo sconcerto non cessa e non svanisce.

Davanti alla “gran donna” va in crisi un intero immaginario su Dio. L’uomo di Dio, Eliseo, non è autosufficiente, abbisogna di un luogo confortevole ove trovare riposo, con un letto, un tavolo, una sedia e un candeliere.

Dio ha bisogno di un luogo dove riposare dentro le nostre case.

E annuncerà ai padri nuove maternità ed alle madri nuove paternità.

Ma forse la “gran donna” di Sunem annuncia anzi quel volto femminile di Dio che ancora sembra nascosto nei consessi ecclesiali istituzionali.

Quando, alla scuola di questa donna, impareremo davvero a “mangiare assieme”, il Regno di Dio avrà già invaso i confini della Chiesa, in benedizione per il mondo.

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro