Relativismo

Relativismo, disegno originale di Rodafà Sosteno

 

Durante il suo pontificato Benedetto XVI ha speso molte energie nella lotta al relativismo. Già nella sua ultima omelia prima di diventare papa, alla Messa Pro eligendo Romano Pontifice, aveva detto: ‘Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare qua e là da qualsiasi vento di dottrina, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie’[1]. Si dice che questa ferma presa di posizione abbia contribuito alla sua elezione a pontefice. Evidentemente molti cardinali elettori ritenevano che, col dilagare del relativismo, niente ha più valore e si cerca di conciliare il tutto a scapito dell’unica Verità. Insomma, c’è la necessità di vivere secondo regole chiare e ben precise: bianco o nero; servono punti fermi, non negoziabili, non liquidi che non si riescono mai a cogliere. Credere che c’è una sola Verità, oggettiva, universale e uguale per tutti [2] facilita questa distinzione fra bianco e nero.

Ne consegue che, aderendo a questo principio, ogni opinione diversa da quella ufficiale è vista con estremo sospetto come relativismo [3]. Eppure Dio ama la diversità, altrimenti avrebbe creato solo gli angeli, non avrebbe creato né gli uomini, né gli animali, né le pietre [4]; e se poi da subito Dio ha anche introdotto la differenziazione maschio-femmina (Gn 1, 27) non è proprio per farci capire che l’incontro diventa possibile solo là dove c’è diversità? [5] Nella stessa storia della Chiesa, il solo fatto che nel canone siano stati accolti più vangeli, i quali riportano anche tesi fra di loro contraddittorie [6], dimostra che un pluralismo di opinioni era perfettamente accettabile nella Chiesa primitiva, e non si aveva paura che il pluralismo degenerasse nel tanto temuto relativismo [7]. Fin san Paolo aveva scritto che viviamo nella fede, ma non vediamo ancora chiaramente (1Cor 13, 12). Quindi se, come dice san Paolo, non si è in grado di vedere il tutto non ci può neanche pretendere di conoscere la Verità, eppure nessuno lo ha mai tacciato di relativismo.

Sostanzialmente mi sembra che l’idea di Benedetto XVI confonda il punto fermo con la Verità assoluta. Invece con una pennellata illuminante, già il Catechismo cattolico olandese [8] - poco dopo il concilio,- aveva risposto a questa preoccupazione del relativismo, chiarendo come un punto fermo non si identifica con un punto immobile ed immutabile: per un bambino molto piccolo «il punto fermo è sua madre, ma pure quanto mobile! Perché è viva! Essa, infatti, ora è nel cortile, poi in cucina, ora ha un aspetto lieve, ora grave». Perciò, sembra abbastanza evidente che fra il dogmatismo (c’è una sola Verità ed è questa che vi offro e che dovete accettare) e il relativismo radicale (non è possibile conoscere la verità, sì che qualsiasi opinione ha lo stesso valore) esiste un’ampia gamma di possibilità, e negando il primo non si accetta automaticamente il secondo, né viceversa, come invece sembra pensare il papa emerito. Tra il vedere la realtà con occhio di falco (che vede una piccola preda a 1 km di distanza) e l’essere ciechi c’è un abisso e un'ampia terza via. Un miope non vedrà benissimo, ma quanto basta per non andare a sbattere [9].

Nietzsche, in Così parlò Zarathustra, afferma: “Ciascuno di noi si sente al centro del mondo ed è il centro del mondo. Dunque il centro è dappertutto e cioè in nessun luogo. Ecco perché ciascuno vede il mondo e tutti gli individui a suo modo e perché la verità assoluta non esiste. Ciascuno ha la propria ed è questa la fatica del vivere e il suo valore”. Gesù è venuto a insegnarci come si fa a superare questa fatica per convivere tutti insieme in questo mondo.

In sintesi, il relativismo può essere inteso almeno in due modi molto diversi. Una prima interpretazione è quella per cui una affermazione equivale all’altra. Non ci sono differenze in ordine alla verità, perché la verità in sé non esiste. Un secondo criterio, cui papa Benedetto XVI non aveva minimamente pensato, ritiene che ogni affermazione è relativa ad un determinato orizzonte culturale ed all’interno di quell’orizzonte è “orientativadella verità, ti invita ad andare in quella direzione.

Per un credente in Dio, il relativismo radicale non ha senso, proprio perché per lui la Verità esiste, ed è Dio. Ma questa verità (Dio) non è conoscibile pienamente e compiutamente, perché Dio è trascendente, cioè sempre oltre le nostre possibilità, per cui la verità non è mai esaurita nelle formule dottrinali del magistero. Il relativismo in senso radicale non può, quindi, essere sostenuto da chi crede in Dio. Però una relatività deve necessariamente essere ammessa, proprio perché Dio Trascendente è più grande di quanto possiamo conoscere dal nostro punto di visuale immanente e limitato, e ciò impedisce di cogliere la verità nella sua interezza [10]. Quindi, il Dio raccontatoci dal magistero non è Dio in sé stesso, ma una rappresentazione di Dio che il magistero si è fatto nella propria testa. Ci sarà anche qualcosa di vero, ma non è Dio in sé stesso.

In questo senso il pluralismo è un valore. La molteplicità delle prospettive può, infatti, consentire un arricchimento reciproco. In questo modo anche il dialogo diventa uno degli strumenti fondamentali per la conoscenza della verità. Le acquisizioni sono relative ad una verità più grande. Non c’è una equiparazione assoluta di tutte le formule. Ce ne sono alcune più perfette ed altre meno, perché sono tutte relative ad una verità che è più grande. Per questo occorre il discernimento, come spesso ricorda papa Francesco. Ma mi sembra sia stato giustamente affermato (Ortensio da Spinetoli) che la pretesa che vi sia una sola maniera di rapportarsi con la Verità non è più accettabile dopo la scoperta della provvisorietà della conoscenza umana e della precarietà dei modi di comunicazione. Come da secoli sa l’ebraismo, c’è sempre un’altra interpretazione possibile diversa dalla tua, e proprio il pluralismo ermeneutico ha salvato l’ebraismo dagli scismi e dalle eresie [11].

Sappiamo che le religioni sono molto diverse, e affermare una loro verità relativa significa riconoscere che tutte possono servire per giungere a dei traguardi di umanità più autentica, più ricca. E ciascuno deve riconoscere la necessità di confrontarsi con le altre religioni ed acquisire quelle ricchezze che eventualmente può trovare in esse [12].

Qualsiasi teoria fisica è sempre provvisoria, nel senso che è solo un’ipotesi che non può mai essere provata come vera in assoluto. Per fare un esempio attuale, ogni scienziato sa che ci sono tante strade che potrebbero portare a un vaccino per il coronavirus, e sa che la sua non è l’unica. Inoltre sa che, per quante volte gli esperimenti diano lo stesso risultato, non si può mai essere sicuri di non ottenere la prossima volta un risultato che lo contraddica. Per confutare una teoria basta trovare una sola volta un’osservazione che sia in disaccordo con le predizioni. La teoria scientifica sopravvive finché i risultati sono in accordo con le predizioni; ma se troviamo una nuova osservazione che non si concilia con le predizioni, dobbiamo modificare la teoria (Hawking S.W). Eppure la scienza non è affatto crollata di fronte al relativismo, anzi, ha fatto progressi enormi. Perché la teologia e la religione dovrebbero crollare se si abbandona la via del pensiero unico, la Verità Assoluta? Solo le teorie pseudoscientifiche o metafisiche continuano a restare ancora immuni dalla confutazione. Oggi sappiamo dalla scienza che tutta la realtà è in continuo processo, in continuo divenire, per cui siamo diventati consapevoli che ciò che raggiungiamo è sempre provvisorio. Anche il pensiero teologico deve poter respirare, incontrarsi con altri pensieri, allargarsi, e non essere costretto in una condotta forzata unica dove tutto si amalgama e si uniforma.

Aristotele, il cui pensiero ha influenzato fortemente anche la teologia, riteneva che lo stato naturale di un corpo fosse la quiete, nel senso che in mancanza di qualche forza nulla si muoveva. La staticità, applicata alla teologia, vuol dirci che una sola è la Verità, mentre tutto il resto è instabile relativismo. Newton, invece, servendosi degli esperimenti di Galileo, ha dimostrato che la quiete non è il sistema privilegiato. Per la cultura è stato il passaggio dalla staticità al movimento, dall’assoluto al relativo.

Facciamo allora qualche esempio per capirci meglio: giocando a ping-pong sul treno in corsa, la pallina cade due volte nello stesso punto a un secondo di distanza. Questo è vero per i due giocatori sul treno. Ma se c’è un osservatore fermo a terra, i due punti sono in realtà a distanza di qualche decina di metri perché il treno nel frattempo si è mosso. Non c’è ragione per privilegiare la posizione di osservazione di una persona o dell’altra, per cui non c’è modo per indicare la posizione assoluta di un evento nello spazio (Hawking S.W.). Ecco un esempio per cui il relativismo non è errato.

Facciamo un altro esempio: quando guardiamo la volta celeste non la vediamo com’è veramente: se una stella si trova a 1947 anni luce da noi, guardandola oggi la vediamo com’era 1947 anni fa; se poi pensiamo che la maggior parte delle stelle visibili sono tutte distanti anni luce da noi, dobbiamo prendere atto che tutto quello che vediamo nella volta non è vero. Quindi bisogna essere più cauti quando si parla di Verità.

Facciamo un altro esempio ancora: uno si avvicina a un tavolo e vede scritto in grande il numero 6. Se però un’altra persona si avvicina dalla parte opposta, vedrà lo stesso numero come 9. Possiamo dire che chi vede il 6 dice la verità mentre chi vede il 9 dice il falso? No, perché non c’è motivo per privilegiare la posizione di osservazione di una persona rispetto all’altra. Come diceva lo statista Salvemini «Se vi sono due verità e mi permettete di dirne soltanto una mi costringete a mentire». O come ha scritto lo storico Harari Yuval Noah, la storia non è costruita da un’unica narrazione, ma da migliaia di narrazioni relative: qualunque si scelga di raccontare, si sceglie di passare sotto silenzio tutte le altre [13].

Un indio nato e vissuto nella foresta, trapiantato a Milano crederebbe di essere capitato in un mondo fantastico: il vero mondo era il suo. Lo stesso per un cittadino romano, sempre vissuto in città, che finisse nella foresta dell’indio: il vero mondo era il suo. Dunque, due verità entrambe vere, ma entrambe relative.

Ma il relativismo della verità è altrettanto evidente proprio quando si guarda alla storia. Lo storico Harari [14] ha magistralmente spiegato il punto: per noi è difficile comprendere l’idea di “ordine costituito immaginario” perché si pensa che esista solo la realtà oggettiva (ad es. la legge di gravità) o la realtà soggettiva (ho mal di testa anche se gli esami e il medico mi dicono che sto bene e non ho niente). Pertanto pensiamo che se qualcosa non appartiene di per sé alla sfera soggettiva, deve per forza appartenere a quella oggettiva. Se un sacco di gente crede in Dio o nel denaro, Dio e il denaro devono essere realtà oggettive.

Invece esiste un terzo livello di realtà: l’intersoggettivo. Il denaro non ha valore oggettivo, perché non lo si può mangiare, né ci si può vestire con esso. Ma finché miliardi di persone credono nel suo valore, si può comprare cibo e vestiti. Se il fornaio non vi dà più il pane perché non si fida del denaro che gli offrite in cambio, basta cambiare negozio. Ma se improvvisamente nessuno vi dà più il pane accettando i vostri soldi, ecco che quel pezzo di carta perde completamente il suo valore, e continua ad esistere solo nella vostra immaginazione. O per fare altri analoghi esempi religiosi: una volta Zeus era una potenza importante nel bacino del Mediterraneo: oggi gli dèi sono privi di autorità perché nessuno crede in essi, per cui essi esistono solo nella nostra immaginazione. Per noi il digiuno del Ramadan non ha senso, ma ha senso per milioni di persone che abitano vicine e lontane. Come mai? Perché ognuna di queste persone vede che il suo vicino ha le stesse convinzioni, e ogni individuo rinsalda le credenze reciproche. Dunque il Ramadan si fa finché tanti ci credono. Succede allora che, nel corso dei secoli, la rete di significati si disfa e se ne crea una nuova. Se oggi uno affermasse di voler andare in Terra Santa a combattere gli infedeli, tutti gli occidentali penserebbero che è fuori di testa. Se invece decidesse di unirsi ad Amnesty International e andare a Gerusalemme per difendere i diritti umani dei palestinesi sarebbe visto da molti come un eroe. Nel Medioevo sarebbe accaduto esattamente l’opposto: nessuno sapeva cos’erano i diritti umani, ma tutti sapevano che si guadagnava il paradiso andando a combattere gli infedeli con le crociate. Ovviamente visti dall’altra parte, gli infedeli eravamo noi cristiani.

È piuttosto evidente allora che, se solo si cambia l’angolo visuale, non c'è giusto e sbagliato. Pertanto non esiste solo una verità assoluta, ma siamo di fronte a tante verità relative. Ma anche se esistesse la verità assoluta, l’uomo non ha comunque la capacità di coglierla. Nella nostra realtà immanente il grano cresce insieme alla zizzania (Mt 13, 24ss.), e noi non siamo in grado di distinguerli immediatamente [15]. La parabola della zizzania (Mt 13, 24ss.) mette l’uomo in guardia dalla tentazione fondamentalista di volersi incaricare di eliminare il male dalla faccia della terra (e visto che ci siamo, il passo successivo sarà quello di eliminare anche le persone che esprimono questo male). Ecco perché toni da crociata, atteggiamenti violenti e intolleranti portano a far diventare zizzania quelle stesse menti eccelse che si ritengono purissimo grano.

Chi pensa di essere privilegiato perché in possesso di verità intoccabili, pensa che chi non vede le cose come le vede lui sia nell’errore. Inevitabilmente, senza rendersene conto, disprezza quell’altro; e tutti gli altri, che si sentono disprezzati, sono quanto meno irritati [16]. A quel punto, amarsi con l’amore che chiede il vangelo è praticamente impossibile [17]. Finché non si supera la mentalità delle verità assolute, che fanno scontrare le religioni, non ci sarà pace nel mondo [18].

Ma perché stupirsi se l’angolo visuale cambia da persona a persona? Io posso lamentarmi perché le rose hanno le spine, ma un altro può gioire perché vede che fra quelle stesse spine ci sono bellissime rose: non posso tacciare di relativismo chi non la pensa come me. O sentite questa storiella: una volta un dromedario, incontrando un cammello, gli disse: “ti compiango, carissimo fratello: anche tu saresti un bel dromedario se solo non avessi quella brutta gobba in più”. Il cammello gli rispose: “mi hai rubato la parola. È una sfortuna per te avere una gobba sola. Ti manca poco ad essere un cammello perfetto: con te la natura ha sbagliato per difetto”. La bizzarra discussione continuò a lungo, e sempre con maggior foga. Un vecchio beduino, lì vicino, li ascoltava e intanto pensava: “poveretti tutti e due: ognuno trova belle soltanto le gobbe sue. Così spesso ragiona al mondo tanta gente che trova sbagliato ciò che è solo differente”.

Diceva Claverie, vescovo cattolico di Orano, ucciso dai fondamentalisti islamici: «Quando pretendiamo di possedere la verità e cediamo alla tentazione di parlare in nome dell’umanità, cadiamo nel totalitarismo e nell’esclusione. Io sono credente. Credo che c’è un Dio, ma non ho la pretesa di possederlo, né attraverso Gesù, né attraverso i dogmi della mia fede. Dio non si possiede. Non si possiede la verità e io ho bisogno della verità di altri» [19]. Dunque la Verità non sta tutta dentro i confini della Chiesa.

Dello stesso parere anche un grande poeta bengalese, il quale ammoniva: quando una religione ha la pretesa di imporre la sua dottrina all’umanità intera, si degrada a tirannia e diventa una forma d’imperialismo [20], di totalitarismo.

In effetti il principale il rischio, per chi segue la strada della sicurezza nella certezza di avere in tasca una Verità immutabile, è il totalitarismo, l’imperialismo religioso, il fondamentalismo, dove gli uomini finiscono per odiarsi per il fatto di adorare il medesimo Dio con nomi e riti diversi. Quando un’istituzione rivendica il diritto assoluto di essere l’unica rappresentante del più alto grado di sviluppo dello spirito del mondo, tutti gli altri sono inferiori, non meritano di essere ascoltati. Dunque, quando il nostro magistero ha criticato la dittatura del relativismo, avrebbe parimenti dovuto criticare la dittatura dell’assolutismo, perché chi si considera in possesso della verità assoluta, del bene assoluto, delle norme assolute, logicamente non ammette dubbi, né dialogo, e ancor meno un’opinione contraria alla sua. Da qui l’intolleranza, l’intransigenza, la rigidità estrema in tutto quanto può attentare all’«assoluto». Un atteggiamento, in definitiva, che porta dritti al fanatismo e all’integralismo [21].

Con Benedetto XVI la Chiesa ha dimostrato di avere paura del mondo esterno che cambia velocemente [22], vedendo fuori di lei solo il negativo, il relativismo, per cui invocava leggi che accogliessero tutti i suoi principi così antichi, così sicuri. Ed impaurito da questa presunta “dittatura del relativismo radicale”, Benedetto XVI ha in primo luogo imposto una restrizione della libertà di opinione, ciò che equivale ad una recrudescenza del “dogmatismo teologico”, la vera “dittatura” operata abitualmente dalle istituzioni religiose, tutte tendenti a soggiogare le menti e persino le coscienze dei “sudditi”, dimenticando che Gesù aveva detto: «Perché non giudicate da soli ciò che è giusto fare?» (Lc 12, 57).

Quando una struttura tende a soffocare ogni deviazione dall’ortodossia spacciandola per relativismo, quando una struttura ha timore di essere detronizzata da idee diverse, corre in realtà il rischio di far emergere alla fin fine la volontà di un piccolo gruppo di uomini, e non è detto che questa volontà sia poi quella di Dio.

Sarebbe molto più semplice tornare alla purità della fede, accontentandosi di ricondurre gli uomini a un riferimento superiore o soprannaturale e rilasciare a ciascun individuo e alla stessa collettività, a seconda del grado della sua cultura e delle categorie di cui dispone, le formulazioni teoriche che ritiene più pertinenti (Ortensio da Spinetoli).

Papa Francesco ha detto: “nemmeno per chi crede, io parlerei di verità assoluta, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione. Tant’è vero che ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia, dalla sua cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: ‘Io sono la via, la verità e la vita’? In altri termini la verità, essendo un tutt’uno con l’amore, richiede l’umiltà e l’apertura per essere cercata, accolta ed espressa”.

 

Dario Culot

[1] Così ha parlato Ratzinger J., Omelia del 18.4.2005, “L’Osservatore Romano” 19.4.2005.

[2] Benedetto XVI, L’elogio della coscienza, ed. Cantagalli, Siena, 2009, 42.

[3] La Chiesa, come dice papa Francesco, deve informare la coscienza, non sostituirsi ad essa (Pagola J.A., Gesù, un approccio storico, ed. Borla, Roma, 2009, 471). Per i lefebvriani, invece, i discorsi di papa Francesco sulla coscienza “non hanno niente a che fare con la vera dottrina cattolica. Sono relativismo assoluto”, sì che questo papa sta trasbordando da una posizione vera ad una falsa (così Fellay Bernard, superiore della comunità Pio X, il quale parla di rottura non più ricomponibile col Vaticano, in: http://www.ilfoglio.it/articoli/2013/10/16/lefebvriani-in-fuga-dalla-rivoluzione-di-francesco-il-vicario-dellanticristo___1-v-94589-rubriche_c278.htm). Peccato che questi discorsi sulla coscienza, ripresi da papa Francesco, siano stati ben presenti nel concilio Vaticano II (Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo – Gaudium et spes §16 – del 7.12.1965). E perfino san Paolo predicava: «È la mia coscienza, che ben distingue il bene dal male, a legarmi; e la mia libertà non va sottoposta al giudizio di coscienza di un altro» (1Cor. 8, 7-12; 10, 25-30). In chiesa si cita in continuazione san Paolo, ma poi lo si dimentica quando egli scrive (2Cor 3, 17) che per Gesù la libertà di ogni uomo è uno spazio sacro e inviolabile in quanto è la sede dello Spirito, sì che deve dedursi che neanche l’autorità religiosa può sottomettere l’uomo alle sue direttive e alla sua volontà. Invece l’uomo che obbedisce ciecamente ai diktat dei capi è semplicemente uno schiavo, sotto un padrone che decide al suo posto, mentre Gesù ci ha affrancato nella libertà, facendoci diventare liberi (Gal 3, 23-25; 4, 1-6). Basta ricordare l’innovazione di Gesù secondo cui dobbiamo valutare da soli: «Perché non giudicate da soli ciò che è giusto fare?» (Lc 12, 57).

[4] Savagnone G., I mali della società oltre le ingiustizie, aspettando un’alba nuova, in “Strappare un abbraccio difficile”, ed. Cittadella, Assisi, 2006, 173.

[5] Sebastiani L., Amore: rischio, fragilità, illusione?, in AA. VV, Paura di amare, ed. Cittadella, Assisi, 2002, 49.

[6] Basta ricordare la polemica in punto fede, fra le lettere di Giacomo (Gc 2, 14-26) e di Paolo (Rm 3, 21-28; Rm 4, 1-5; Gal 2, 21). Giacomo dice: «a che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha le opere? Quella fede può forse salvarlo?» (Gc 2, 14), e per le opere la fede diventa perfetta (Gc 2, 22). Paolo diceva: «l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere» (Rm 3, 23-28).

[7] Si può dire, senza esagerazione, che il cristianesimo primitivo è stato assai più pluralista e conflittuale del cristianesimo di oggi. Il cristianesimo delle origini si caratterizzava per la libertà di espressione, per il contrasto di opinioni, incluso la serietà dei conflitti. Questa pluralità c'insegna che l'unità della Chiesa non significa assolutamente uniformità (Aguirre D.R., El mito de los orígenes de la iglesia, relazione tenuta a Bilbao il 15.11.2004, in:http://servicios.elcorreo.com/auladecultura/rafael_aguirre1.html).

[8] Il Nuovo Catechismo Olandese, ed. Elle Di Ci, Torino, 1969, 443.

[9] Dal Maschio E.A., Platone, ed. Hachette Fascicoli s.r.l. Milano, 2015, 71.

Se da una parte è vero che non qualsiasi espressione teologica è valida e trasmette fedelmente l'esperienza religiosa, è anche vero che, per essere corretta, non ha bisogno di esaurire la verità né di escludere tutte le altre (Torres Queiruga A., L’ortodossia oggi: dall’Anathema sit a Chi sono io per giudicare?, “Concilium”, 2014, 46).

[10] Per la differenza cfr. l’articolo Immanente e Trascendente, al n. 494 di questo giornale, https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/numero-494---3-marzo-2019/immanente-e-trascendente.

[11] Cfr. quanto detto alla fine dell’articolo Chi è il Dio unico del Vecchio Testamento, al n. 526 di questo giornale (https://sites.google.com/site/ilgiornaledirodafa500/numero-526---13-ottobre-2019/chi-e-il-dio-unico-del-vecchio-testamento). A volte viene il dubbio che le persecuzioni ed uccisioni degli ebrei siano avvenute proprio perché essi rifiutavano l’omologazione del pensiero unico, che ogni autorità che si sente superiore cerca di imporre a tutti gli altri. Per questo gli ebrei erano pericolosi.

[12] Molari C., Vivere la fede nelle dimensioni culturali nuove, da AA.VV. Per un cristianesimo adulto, Abiblio, Trieste, 2009, 36.

[13] Harari Y.N., Homo Deus, Bompiani, Milano, 2017, 272: la storia è diversa se vista dal punto di vista del faraone, degli aristocratici, dei contadini o del dio coccodrillo.

[14] Harari Y.N., Homo Deus, Bompiani, Milano, 2017, 223ss.

[15] Salas L., Una fede incredibile nel secolo XXI, Massari, Bolsena (VT) 2008, 101.

[16] A mo’ di esempio, basta ricordare la Lectio magistralis che papa Benedetto XVI aveva tenuto a Ratisbona il 12.9.06 e la dura reazione che aveva sollevato nel monndo islamico per come aveva parlato di Maometto.

[17] Castillo J.M., I poveri e la teologia, ed. Cittadella, Assisi, 2002, 238.

[18] Castillo J.M., I poveri e la teologia, ed. Cittadella, Assisi, 2002, 257.

[19] Zanotelli A., Korogocho, ed. Feltrinelli, Milano, 2003, 81.

[20] Tagore R., in http://www.latisanadelcuore.it/rabindranath_tagore.html

[21] Ora, è vero che anche il relativismo non è esente da pecche: a cominciare dalla mancanza di concretezza che può condurre a una mancanza di impegno. Ma l’assolutismo ne ha forse di più gravi: il totalitarismo, come si è detto. Siamo dunque condannati a stare fra Scilla e Cariddi, senza mai trovare una soluzione definitiva.

Per fanatismo s’intende l’adesione incondizionata a una fede o a un'ideologia fino ad annullare completamente la serenità e l'obiettività di giudizio del soggetto col conseguente desiderio di obbligare gli altri a cambiare. Integralismo, invece è la pretesa di avere un sistema unitario per tutti, escludendo la possibilità di pluralità di concetti e di programmi, e costringendo gli altri a cambiare; si differenzia dal fondamentalismo che esige semplicemente l'applicazione letterale, a tutti, dei principi scritti nelle Sacre Scritture senza concessioni evoluzionistiche, né adattamenti alle circostanze mutate; è un richiamo a una verità rituale in un mondo che ormai esige sempre spiegazioni logiche. Ora per convincersi dell’illogicità del fondamentalismo basterà qualche esempio. Nella Bibbia sta scritto che “Dio può afferrare i lembi della terra e scuotere via i malvagi” (Gb 38, 13): quindi la terra è piatta, se può essere scrollata come una tovaglia. Oppure: dire che Ronaldo ha tirato una “cannonata” in porta non significa che Ronaldo è entrato in campo con un cannone. Anche dire che quel tizio ha un “diavolo” per capello non significa che quella persona viaggia con tanti diavoli sulla testa. Le parole, ieri come oggi, possono indicare altre cose oltre a ciò che letteralmente significano, quindi non aveva e non ha senso una lettura sempre letterale del testo.

[22] Parlando più in generale dei grandi gruppi, delle masse che aspirano a crescere, è stato fatto notare che in esse vige sempre forte un senso di persecuzione: una particolare e irosa suscettibilità, eccitabilità, nei confronti dei nemici designati come tali una volta per tutte. Essi possono fare quello che vogliono, ma le loro azioni sono sempre viste come se scaturissero da un’imperturbabile malvagità, da una mentalità negativa contro la massa, da un’intenzione preconcetta di distruggerla apertamente o subdolamente  (Canetti E., Massa e potere, Adephi, Milano, 1981, 27).