La speranza di Bose

La chiesa monastica di Bose - foto del direttore

Il terzo comunicato presente sul sito della Comunità monastica di Bose e relativo ai fatti conseguenti alla conclusione della Visita Apostolica presso la stessa Comunità (https://www.monasterodibose.it/comunita/lettera-agli-amici/13949-non-siamo-migliori) colpisce per la medesima parresía di riconoscimento realistico della propria condizione già rilevata nel nostro primo articolo appena comparvero le notizie di stampa sull’effettuazione della Visita (https://sites.google.com/site/ilgiornaledirodafa20201/numero-539---12-gennaio-2020/rodafa). E tuttavia ciò non sembrò suscitare particolare interesse di analisti e commentatori, che parvero non cogliere la portata dell’evento e che ora però si sono affollati nelle considerazioni le più varie.

All’interno di tale franchezza di parola da parte della Comunità colpisce poi doppiamente l’uso per ben due volte della parola “scandalo”. Lo stesso comunicato ha un titolo di grande significato non solo ecclesiale ma anche, se si può dir così, psico-sociale: “Non siamo migliori”.

Molto spesso accade, a chi osserva il dipanarsi della vita ecclesiale e non solo ecclesiale, di accorgersi come il giudizio, anche sferzante, nei confronti di determinati comportamenti ritenuti meritevoli di biasimo eviti accuratamente qualunque interrogazione a partire dalla propria vita. Si invoca, anche giornalisticamente – da parte di accreditati maestri -, scrupolosa ricerca della, o delle, verità ma poi mai si vorrebbe che una medesima indagine fosse svolta nei propri confronti, mettendo a confronto la, o le, verità altrui, che si deplorano come colpevolmente celate, con le proprie. Qui invece la Comunità di Bose non accusa, bensì afferma testualmente: “vogliamo chiedervi perdono per lo scandalo che abbiamo suscitato e per la contro-testimonianza che abbiamo dato.” È necessario leggere e rileggere più volte simile passo del comunicato. È un oggettivo riconoscimento di umiltà e di verità non a prescindere dalle proprie responsabilità per additare quelle altrui ma a partire dal proprio concretissimo vissuto.

È un po’ difficile, va riconosciuto, che in ambiti ecclesiali istituzionali qualcuno si spinga a chiedere perdono non per il passato, con altri attori e protagonisti ed altre eventuali vittime, ma per il presente e, appunto, a partire da se stessi.

In effetti un precedente assai autorevole esiste, benché a proposito di fatti completamente diversi e di completamente diversa portata, ma impressionante sempre per la sua franchezza. Il riferimento è al Papa che, l’11 aprile 2018, in una lettera rivolta ai Vescovi del Cile a seguito del report di Mons. Scicluna, riconosceva testualmente (https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2018/04/11/0267/00578.html): «(…) chiedo scusa a tutti quelli che ho offeso e spero di poterlo fare personalmente, nelle prossime settimane (…)». Conviene ribadirlo: l’analogia non è in nessun modo riferibile ai fatti ed al contesto, bensì al coraggio di riconoscere uno scandalo attuale e di chiedere perdono al Popolo di Dio, qualunque sia il motivo. La speranza, il nuovo inizio, possono nutrirsi solo a partire da qui. E conviene pure ribadire: perdono per se stessi, non per altri.

Il comunicato ricostruisce poi con precisione le articolazioni delle diverse visite che si sono succedute a Bose, una Apostolica ma una non Apostolica, come invece pure è stato a volte equivocato dai commentatori. E conferma – lasciando sorpresi su quanto anche autorevolissimi analisti abbiano potuto sostenere giungendo a dire esattamente l’opposto – che «la Santa Sede ha nominato p. Amedeo Cencini delegato pontificio con pieni poteri, non “commissario”: non ha ritenuto cioè di dover esautorare il priore fr. Luciano legittimamente eletto nel 2017 – e riconfermato dalla Comunità due anni dopo, come richiesto dallo Statuto – bensì di sostenerlo nel suo ministero di presidenza all’unità della Comunità. Unità che i visitatori avevano constatato essere seriamente compromessa, vedendo la profonda sofferenza quotidiana, lo sconforto e la demotivazione suscitati in molti fratelli e sorelle.»

Ma in particolare risulta, a tenore del comunicato, messa radicalmente in crisi la contrapposizione ermeneutica, molto facile e semplicistica, tra fronte colpevolista e fronte innocentista soprattutto con riguardo alla figura del fondatore della Comunità, fratel Enzo Bianchi (non “padre”, come pure ancora si è letto spesso in diversi articoli), una semplificazione che non si fa carico della complessità insita in ogni situazione conflittuale.

Il comunicato dichiara: «Le disposizioni che hanno suscitato maggior impatto sia in Comunità che tra gli amici e presso l’opinione pubblica sono state indubbiamente la richiesta a fr. Enzo e ad altri tre membri di allontanarsi dalla Comunità e dalle Fraternità, restando fratelli e sorelle di Bose, per vivere per un certo tempo ciascuno in un luogo diverso, non necessariamente monastico. Nessuna espulsione, quindi, nessuna cacciata, ma un allontanamento temporaneo di alcuni membri della Comunità che ad essa continuano ad appartenere. Le motivazioni specifiche di questa parte del provvedimento sono state comunicate dal delegato pontificio in forma riservata a ciascuno dei fratelli e alla sorella implicati nei provvedimenti. Queste disposizioni non riguardano assolutamente questioni di ortodossia dottrinale: non vi è per loro nessun divieto di esercitare il ministero monastico di ascolto, di accompagnamento, di predicazione, di studio, di insegnamento, di pubblicazione, di ricerca biblica, teologica, patristica, spirituale…»

Anche tale passaggio conferma che il provvedimento canonico adottato – come in tutta modestia ci eravamo permessi di osservare su questo nostro settimanale (https://sites.google.com/site/ilgiornaledirodafa20202/numero-559---31-maggio-2020/rodafa) -, non è di natura sanzionatoria bensì amministrativa.

Residuano due ulteriori considerazioni: la prima relativa allo “scandalo”, presso alcuni od anche molti, di un avvenuto ricorso al diritto come strumento risolutivo di una situazione critica, a fronte di presunte altre possibilità di intervento, come se, nella concretezza della vita familiare, non esistessero separazioni e divorzi che ben richiedono presenza di giudici ed avvocati e quantunque poi si precisi che, nel caso specifico, nessuna espulsione è avvenuta. La seconda relativa ad un tono effettivamente peculiare che si notò nella presa di posizione di Enzo Bianchi con riguardo all’emergenza sanitaria, in particolare agli inizi del periodo di quarantena, laddove esclamò che «Un cristiano non sospende la liturgia!» (https://twitter.com/enzobianchi7/status/1233870590278356994) o si chiese: «(…) siamo sicuri che la Chiesa, adottando contro il possibile contagio misure che impediscono liturgie, preghiere e funerali partecipati dalla comunità, sia solidale con chi soffre, ha paura e cerca consolazione?» (https://www.c3dem.it/wp-content/uploads/2020/03/ma-la-chiesa-non-pu%C3%B2-chiudere-e.-bianchi-rep.pdf). La particolarità stava non certo nelle più che legittime esternazioni in sé, ma nel fatto che sembrava trasparire una sorta di preoccupazione per il culto quale dimensione assoluta di riferimento ad ogni costo, ciò che poteva incrinare la predilezione monastica per la celebrazione della vita laica e laicale, liturgica od extraliturgica che sia, nell’assoluta dovuta preminenza alle esigenze dell’amore reciproco, della carità, che ben possono imporre anche la sospensione del rito.

Va tuttavia osservato che, proprio all’interno del sito della Comunità, sono sempre presenti le pagine aggiornate sul suo Fondatore, sulla sua biografia (sia in forma sintetica che estesa, https://www.monasterodibose.it/fondatore/enzo-bianchi) e sulla sua produzione pubblicistica, compresi i commenti che escono il lunedì su “Repubblica” (https://www.monasterodibose.it/fondatore/articoli).

Prosegue il comunicato: «Come leggere con gli occhi della fede questo evento della visita apostolica e delle sue conclusioni, rivelatosi da un lato necessario e, d’altro lato, fonte di sconcerto e di ulteriori sofferenze anche tra di noi fratelli e sorelle di Bose? Crediamo che la risposta non la si possa trovare nell’attribuire colpe e responsabilità agli uni o agli altri, bensì nella lucida constatazione che “non siamo migliori” e che il Divisore non ci ha risparmiato e noi non abbiamo saputo fronteggiarlo con sufficiente fede, speranza e carità. Sì, “non siamo migliori” non è solamente un adagio che fr. Enzo ha coniato fin dai primi anni della nostra vita a Bose, riprendendolo anche come titolo di un suo libro sulla vita monastica. È invece una realtà che noi da sempre tocchiamo con mano e di cui ora anche voi, amici e ospiti, vi rendete conto con sofferenza. Anche questa crisi che ora è esplosa in modo manifesto, e per tanti di voi in maniera assolutamente inaspettata, ha in verità radici più lontane.»

L’insegnamento che con molta semplicità si può trarre, un ammaestramento peraltro dinamico e mai definitivo, è che il riconoscimento di un carisma personale deve – prescindendo dal caso specifico – evitare qualunque rischio di “latria”, particolarmente perniciosa nella deriva patologica della cosiddetta “papolatria”, dalla quale lo stesso Papa Francesco rifugge come da una peste. È un punto importante, perché il venir meno della riflessione critica sull’attuale momento di Chiesa non si configura come una necessità quasi strategica nel timore di poter pregiudicare gli avanzamenti compiuti, ma come un danno allo stesso progresso della fede pensata e vissuta.

Il comunicato chiude sul «ricominciare un cammino di conversione e di sequela del Signore».

“Ricominciare” è pure verbo non troppo d’uso dentro una storia ecclesiale comune, dove una pretesa fedeltà alla Tradizione ha quasi espunto le cesure di continuità, le ha annebbiate e taciute. Mentre occorre “ricominciare”, come accade agli inizi di ogni giornata, per ognuna ed ognuno di noi.

Ricominciare è difficile, eppure anche molto bello.

 

Stefano Sodaro