Cum saepe in ecclesiis non auditur “Stefano caro”

In the church - disegno di Rodafà Sosteno

Centosessantacinque anni fa esattamente come oggi, 26 luglio, Papa Pio IX tenne un Concistoro Segreto, nel corso del quale pronunciò due allocuzioni che segnarono la storia della Chiesa sino ai Patti Lateranensi e poi sino al Vaticano II.

Entrambe sono espressamente citate nella sua Enciclica Quanta cura dell’8 dicembre 1864 (https://w2.vatican.va/content/pius-ix/it/documents/encyclica-quanta-cura-8-decembris-1864.pdf), con cui – nove anni dopo – pubblicò il celebre Sillabo (“Syllabus complectens praecipuos nostrae aetatis errores”). Menzionando l’Allocuzione Cum saepe, il Papa condanna la preposizione LIII dell’elenco di errori con cui si vorrebbe sostenere che «Sono da abrogarsi le leggi che appartengono alla difesa dello stato delle famiglie religiose, e dei loro diritti e doveri; anzi il Governo civile può dare aiuto a tutti quelli i quali vogliono disertare la maniera di vita religiosa intrapresa, e rompere i voti solenni; e parimenti, può spegnere del tutto le stesse famiglie religiose, come anche le Chiese collegiate ed i benefici semplici ancorché di giuspatronato e sottomettere ed appropriare i loro beni e le rendite all’amministrazione ed all’arbitrio della civile potestà.». E richiamando l’Allocuzione Cum saepe, Pio IX condanna la preposizione LXXVIII la quale osa affermare che «In questa nostra età non conviene più che la religione cattolica si ritenga come l’unica religione dello Stato, esclusi tutti gli altri culti, quali che si vogliano.»

In realtà il contenuto di Cum saepe è più ampio (https://digilander.libero.it/magistero/p9cumsae.htm, oppure https://documentacatholicaomnia.eu/01p/1846-1878,_SS_Pius_VIIII,_Encicliche,_IT.pdf) ed il Pontefice solennemente proclama: «(…) con incredibile afflizione dell’animo Nostro, siamo costretti a dichiarare che tutti coloro i quali, nel Regno Subalpino, non esitarono a proporre, approvare, sancire i predetti decreti e la legge contro i diritti della Chiesa e di questa Santa Sede, nonché i loro mandanti, fautori, consulenti, aderenti, esecutori, sono incorsi nella scomunica maggiore e nelle altre censure e sanzioni ecclesiastiche inflitte dai Sacri Canoni, dalle Costituzioni Apostoliche e dai decreti dei Concilî generali e soprattutto dal Concilio Tridentino. Invero, pur adottando la severità apostolica, a ciò sospinti dalla inevitabile necessità di adempiere al Nostro dovere, tuttavia ben sappiamo e ricordiamo che Noi, pur senza merito, operiamo qui in terra come vicario di Colui che, colto dall’ira, si ricorda della misericordia. Pertanto, levando gli occhi Nostri al Signore Dio Nostro, da Lui con umile ostinazione non desistiamo dal chiedere ch’Egli voglia rischiarare col lume della Sua grazia celeste e ricondurre a più sani propositi i figli degeneri della Sua santa Chiesa, di qualunque ordine, grado e condizione, sia laici, sia chierici anche insigniti di sacro carattere, i cui errori non possono essere mai abbastanza commiserati, poiché nulla di più gradito al Nostro cuore, nulla di più desiderabile e di più lieto vi può essere che il pentimento degli erranti e il loro ritorno alla saggezza.»

Pur facendo evidente ricorso alle caratteristiche intrinsecamente sanzionatorie del diritto – canonico ma non soltanto, dal momento che non esiste diritto, non esiste ordinamento, privo di capacità sanzionatoria -, Pio IX riteneva da un lato di dover preservare il primato assoluto di una Verità indiscutibile, di derivazione autoritativa, “celeste” per così dire, e, dall’altro, di chiarire, una volta per tutte, dove stessero gli errori, le responsabilità, le infedeltà, le pervicaci opposizioni all’obbedienza, così da dare sollievo a chi annaspasse in dubbi ed interrogativi. Quanto di più lontano dalla nostra sensibilità culturale, certo, ma forse la diversità va colta sotto altro profilo ed altra distanza. Ed è una diversità che marca più profondamente le vicende ecclesiali attuali da quelle che circondavano la celebrazione del Concilio Vaticano I, che definì, nella Costituzione Pastor Aeternus del 18 luglio 1870, sempre regnante Pio IX, il duplice dogma del primato e dell’infallibilità ex cathedra del Vescovo di Roma (su cui si può assai utilmente leggere la riflessione di Andrea Grillo in https://www.cittadellaeditrice.com/munera/infallibilita-autorita-e-storia-150-anni-dopo-una-regolata-eccezione/).

La diversità sta tutta nel dover constatare come, sebbene sia la prospettiva giuridica a fare ancora la differenza quando si tratti di innovare nella Chiesa – e innovare vuol dire, nella Chiesa, riformare tenendo conto di ciò che la Tradizione indichi come necessario di riforma -, risulti però alla fine decisiva, proprio a livello istituzionale, un’altra dimensione, la dimensione affettiva (vogliamo raffinare un po’ leziosamente in “dimensione agapica”?) e non quella afflittiva, o normativa. Il volersi bene ha una disciplina molto, se non del tutto, diversa dalle disposizioni del codice di diritto canonico, che tuttavia, proprio per questo, non può essere ignorato con sussiego e noncuranza.

Si tratta di intravedere il “diritto escatologico” di cui parla Luise Schottroff nel suo Le parabole di Gesù, edito in Italia da Queriniana. Non c’è éschaton senza inveramento amoroso, senza compimento di un volersi bene che non sa più operare distinzione alcuna con l’amore vero e proprio.

È stata pubblicata da alcuni giorni, il 20 luglio scorso, a cura della Congregazione per il Clero, l’Istruzione su “La conversione pastorale della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa”. È in corso, al riguardo, un ampio ed approfondito dibattito. Si possono leggere i commenti, ad esempio, di Lorenzo Prezzi (http://www.settimananews.it/pastorale/la-parrocchia-domani/) e di Andrea Grillo (http://www.cittadellaeditrice.com/munera/una-teologia-senza-gambe-e-un-diritto-senza-testa-i-problemi-di-fondo-della-istruzione-sulla-conversione-pastorale-della-comunita-parrocchiale/).

Ancora una volta, a sommesso parere del qui scrivente, è riproposta la dialettica tra amore e legge, ma gli esiti di simile confronto si colgono altrove, non nelle Curie, bensì in luoghi appartati, silenziosi, oranti, dove chi è dedito alla preghiera ti stringe la mano e, nella reciproca commozione di un incontro, vorrebbe abbracciarti, Covid permettendo, e si lascia andare ad un intensissimo e tenerissimo “Stefano caro”.

Sì, alcuni sanno a chi faccio riferimento e perché; non va svelato, per molte ragioni, ma va assunto, piuttosto, dentro un’opzione di fondo che può consistere solo in lotta e contemplazione per un primato dell’amore che cozzi pure con quello della verità se necessario. Abolendo le maiuscole che creano solo altre distanze rispetto alle lettere minuscole con cui si scrive la complessità della nostra vita.

Vorrei trasmettere a chi mi ha sussurrato, in quel clima di raccoglimento e di fiducia, in un ambito allo stesso tempo ecclesiale ed “istituzionale”, «Stefano caro» - quasi amplificando un sentimento che ho colto condiviso, partecipato, diffuso - la reciprocità di un rapporto che è puramente e realmente d’amore nonostante l’abuso del sostantivo e la sua infinita declinazione.

Il “diritto escatologico” diverrà pane da spezzare e mangiare assieme quando i nostri nomi, tutti, saranno finalmente pronunciati, dentro i sacri luoghi – le riforme avvengono sempre da dentro e non da fuori -, con un vocabolario espressivo dell’amore che quegli stessi nostri nomi personificano.  La compostezza dei nostri comportamenti, tanto più nelle assemblee liturgiche disciplinate dalle rigide prescrizioni anti-contagio, sarà bene che un giorno si infranga sulla battigia degli eccessi amorosi. Sarà iniziato il Regno di Dio. Che non è l’aldilà, ma l’aldiquà delle nostre speranze e delle nostre utopie divenute storia di salvezza.

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro