Morphé

Monastero di Bose, particolare - foto del direttore

 

Vorrei soffermarmi oggi sulla lettera di Paolo ai Filippesi, in particolare sull’inno cristologico (Fil 2, 6-7), il quale – secondo quanto ci è stato insegnato -  confermerebbe che Gesù è vero Dio in quanto gli viene attribuita una natura divina. La lettera, però, non dice espressamente che Gesù è Dio; si tratta quindi di un’interpretazione che a me ha sempre creato grossi dubbi. Sinceramente è stato faticoso anche scrivere qualche riflessione in proposito, e temo che quest’articolo sarà anche un po’ faticoso da leggere. Ma mi consolo pensando che questa lettera paolina è stata fra le più studiate da teologi ed esperti, il che significa che ha creato e continua a creare problemi a tanti [1]. Questo semplice fatto – a mio avviso - può portare a una sola conclusione: quando ci si trova davanti a una selva inestricabile di opinioni, nessuno può pretendere di dare una spiegazione univoca per poi imporla a tutti [2].

Per prima cosa mi preme far notare come anche qui sia stata cambiata la traduzione ufficiale: a sinistra quella che si usava in passato (ad es. Testo della CEI del 1974; la Bibbia-Nuovo testamento, secondo l’edizione CEI 1974, Biblioteca di Repubblica, vol.III, 2005, 2863; Le lettere di Paolo, ed. Cor Unum – Figlie della Chiesa, Roma, 1965, 180); a destra quella più recente (es. testo CEI 2008; Bibbia di Gerusalemme del 2009). Si legge che Gesù

 

[6] pur essendo di natura divina,

non considerò un tesoro geloso

la sua uguaglianza con Dio;

[7] ma spogliò se stesso,

assumendo la condizione di servo

e divenendo simile agli uomini;

[6] pur essendo nella condizione di Dio,

non ritenne un privilegio

l’essere come Dio,

[7] ma svuotò sé stesso

assumendo una condizione di servo

diventando simile agli uomini;

 

Poi la lettera di Paolo continua dicendo che trovandosi Gesù in forma umana umiliò (spogliò, svuotò) sé stesso diventando obbediente fino alla morte in croce. Proprio per questo Dio lo esaltò altamente e gli concesse il nome che è sopra ogni nome, così che ogni lingua riconosca che Gesù Cristo è signore a gloria di Dio Padre. Un passaggio piuttosto roboante: dall’umiliazione all’esaltazione. Ma se Gesù è già Dio, perché mai doveva intervenire il Padre? L’intervento non fa piuttosto pensare a una subordinazione del Figlio, tanto più se questi ha agito in totale obbedienza? Perché si obbedisce a chi è superiore, non a chi è uguale.

Va poi detto che nell’originale greco, sia nel versetto 6 che nel versetto 7, la parola incriminata è sempre la stessa: morphé, oggi tradotta, entrambe le volte, con “condizione”, mentre in passato era stata resa con “natura” quando si riferiva a Dio, e con “condizione” quando si riferiva a servo. Va anche aggiunto che, per dire natura, essenza, il greco utilizzava normalmente le parole ousìa, phisis. Nella Vulgata latina, invece, morphé era stata tradotta sempre e solo con la parola “forma”.

Per noi ‘forma’ è il modo di manifestarsi di una realtà. Allora come tradurre morphé? Essenza, condizione, immagine, natura? E come tradurre quell’uguaglianza con Dio? Essere pari a Dio oppure essere trattato come Dio? C’è chi sostiene che il termine ‘alla pari’, in greco ísa, indichi somiglianza, analogamente a quanto detto al versetto 7, e non uguaglianza, ed essere simili a Dio significava nella tradizione giudaica essere immuni dalla morte (Sap 2, 23) [3]. Inoltre quando Paolo dice che Cristo ‘svuotò sé stesso’ si riferisce all’assunzione della condizione umana oppure alla morte di Gesù con un’allusione a Is 53, 12 (‘svuotò la sua vita nella morte’)? [4]. Insomma, ogni parola è un problema.

Come prima osservazione, mi sembra di poter dire che, col solo passare da natura a condizione, già ci troviamo davanti a una rivoluzione, perché avere la stessa natura di Dio (divina) significa necessariamente essere Dio. Nessuno ha la natura divina all’infuori di Dio, posto che ormai riconosciamo che esiste un solo Dio e non ci sono più tanti dèi. Si deve perciò necessariamente concordare con quegli autori i quali hanno scritto che, finché si usa la formula ‘essendo per natura Dio’, questo significa necessariamente avere - essere in possesso della natura di - Dio, cioè essere Dio [5].

Invece già un po’ più confusa mi sembra l’interpretazione del gesuita Brendan Byrne secondo cui morphé indica il modo d’essere o l’apparenza da cui si può conoscere il carattere essenziale o la condizione di qualcosa: qui Paolo direbbe che Cristo godeva di una modalità deiforme di esistenza [6]. Cosa intende dire? Non lo so: anche un semidio gode di una modalità deiforme, avendo un genitore divino.

Comunque, visto che oggi la parola “natura” è stata tolta e sostituita con la parola «condizione», vuol dire che attribuire a Gesù natura divina non è più ritenuto una traduzione appropriata [7], a differenza di quanto si sosteneva in passato. Anche il magistero, cioè, ha dovuto prendere atto che troppi studiosi hanno ormai messo in discussione una tesi che a lungo ha goduto di unanime consenso: quella per cui l’inno cantava un Gesù divino, preesistente, divenuto uomo e sceso agli strati più umili della condizione umana [8].

Ora, se nessun uomo può avere natura divina, tutti possono assumere la condizione divina, diventando figli adottivi di Dio. Come? Accogliendo Dio.

E allora mi domando, ovviamente con tutto il rispetto per ogni tentativo di interpretazione e senza aver la pretesa di aver la verità in tasca: Gesù, avendo accolto lo Spirito ha in sé la condizione divina. Ma se non deve avere più natura divina, allora, non deve avere necessariamente la stessa natura di Dio, non deve essere uguale a Dio (tanto più che nei vangeli Gesù non ha mai detto di essere Dio), per cui potrebbe essere un uomo che è diventato figlio di Dio [9], il che vuol dire che non si differenzia in modo sostanziale dagli altri uomini, visto che tutti possono diventare figli di Dio (Gv 1, 12), cioè assumere la condizione divina. Mi sembra cioè che con questa traduzione si sia comunque tolto un gamba al tavolo su cui poggiano i dogmi di Nicea e di Calcedonia.

È indubbio che morphé è un concetto fondamentale nella lettera ai Filippesi, ma dobbiamo anche tener presente che Paolo stava scrivendo a una comunità fatta prevalentemente di gente di basso livello, non a una comunità di filosofi, per cui dobbiamo chiederci: cercava di fare alta metafisica? oppure volava più basso e si accontentava di usare metafore per indicare la forma di vita assunta dal Dio incarnato in Gesù? oppure volava ancora più in basso, per cui intendeva solo chiarire concretamente come l’abbassamento, lo svuotamento (kénosis) di Dio in Cristo non si doveva affatto spiegare partendo dai concetti filosofici di ousía, physis, eccetera, ma dalla morphé intesa come «manifestazione visibile» di uno «schiavo» (doúlos), e non di una «sostanza», di una «natura» o di una «persona»?

Se con il termine morphé in Fil 2, 6s., cioè, s’intende solo la forma propria di uno schiavo, in quanto è espressione della sua condizione, allora con il termine morphé theoú  (“forma di Dio”) si può intendere che Gesù è “immagine di Dio” (eikón), «manifestazione visibile» [10] di Dio. Secondo questa interpretazione Dio (in Cristo) «si svuotò» (ekénosen), vale a dire «si spogliò del suo rango» (Fil 2,7), ma questo svuotamento (kénosis) di Dio in Cristo non si spiega a partire dai concetti di ousía, physis, ma dalla morphé, cioè dalla «manifestazione visibile» non di una «sostanza», di una «natura» o di una «persona», ma di uno «schiavo» (doúlos). Si sarebbe quindi utilizzato semplicemente un linguaggio pratico ma efficace della storia quotidiana, quello tipico usato dagli uomini quando soffrono e quando stanno sul gradino più basso della scala sociale umana.

Di più: osserva correttamente il prof. Castillo che interpretare letteralmente «svuotò sé stesso» dovrebbe tradursi nel senso che Dio, in Gesù, «si auto-annientò». Ma ovviamente non può essere che, con la venuta di Gesù nel mondo, Dio abbia messo fine a sé stesso, si sia auto-distrutto. Né questo può averlo pensato Paolo. Simile cosa non è neanche insinuabile, giacché in tal caso Gesù stesso smetterebbe di essere colui che ci ha rivelato Dio, perché ci avrebbe rivelato il nulla. Gesù non è il finale di Dio o l’annichilazione di Dio, bensì la piena e più profonda rivelazione di Dio [11]. Allora resta abbastanza evidente che Paolo presenta l’incarnazione non come la divinizzazione dell’essere umano e, ancor meno, come l’«altezzosità dell'uomo», ma proprio al contrario come la diminuzione di Dio che arriva a presentarsi come schiavo. Ne consegue che è nel secolare e non nel sacro dove, innanzitutto, incontriamo e viviamo l’autentica esperienza della religione insegnata da Gesù, di modo che perfino il divino si rende presente nell’umano; nell’uomo Gesù c’è la presenza del divino, la rivelazione del trascendente nell’immanente. E, in ultima istanza, questa è l’unica forma che noi umani abbiamo per accedere al divino [12]. In quanto umani non possiamo uscire dall’immanente.

Alla forma divina si contrappone la forma di servo, all’essere come Dio fa contrasto il voler somigliare agli uomini. In definitiva, Dio in Gesù non solo ha voluto diventare umano, ma qualcosa di molto più estremo e radicale. Perché come umano non solo non si è presentato nella forma di “re” o “imperatore”, rinunciando a far valere sul piano storico ciò che effettivamente era, ma la spoliazione di Dio in Gesù è stata totale. E per questo ha assunto la condizione e la forma di vita dell’ultimo degli uomini, lo schiavo. E questo perché? Perché negli ultimi di questo mondo non esiste potere, non esiste sapere, non esiste dignità. Cosa c’è, allora, negli ultimi? Solamente umanità [13]. Quindi Dio ha manifestato la sua regalità nell’essere servo nell’uomo Gesù.

In altre parole, ben si può affermare che Gesù è di “condizione divina”. Ma, in realtà, cos’è la “condizione divina”? Gesù ci ha insegnato che “il divino” lo conosciamo dall’ “umano”. Non possiamo conoscerlo in altro modo, perché noi siamo umani, viviamo nell’umano, e non abbiamo alla nostra portata niente di più dell’umano. Pertanto, solamente nell’ “umano” conosciamo “il divino” [14].

Sempre il prof. Castillo [15] ha osservato che, qualunque cosa si pensi di tale questione, è fuor di dubbio che il magistero della Chiesa, quando si è trattato di definire ciò che Gesù significa per i cristiani, ha invece concentrato la sua attenzione e le sue preoccupazioni su una serie di termini puramente speculativi, presi dalla metafisica greca, senza prendere in considerazione il senso storico di quei concetti: per l’appunto, che per salvare il mondo Dio non si era limitato ad assumere la condizione umana, ma aveva fatto questo con una «forma» o in una «manifestazione visibile» di ciò che in quella cultura era rappresentato da uno «schiavo» (Fil 2,7). Allora il punto centrale dell’inno non è che Dio è diventato semplicemente «umano», ma è diventato «schiavo». Ossia, è disceso fino al più basso livello della condizione umana. Il magistero ecclesiastico, per restare nell’ambito dell’alta speculazione filosofica, a lungo non ha considerato la realtà storica di quella che è stata la vita di Gesù, un uomo che si è messo al servizio degli altri, «schiavo di tutti (pánton doúlos)» (Mc 10,44-45); proprio quello che - stando ai vangeli - poi Gesù ha preteso anche dai suoi apostoli, a imitazione di quella che è stata la sua propria vita (Mc 10,45). Per questo autore [16], perciò, è evidente, e perfino urgente, che la cristologia metafisica debba cedere il passo a una cristologia storica, ossia una cristologia che risponda storicamente a ciò che ha detto Gesù, e non a ciò che metafisicamente hanno invece affermato i concili. Perché? Perché la metafisica non ci porta al fondo della storia, ma ci fa fuggire dalla storia, con l’ingannevole pretesa di portarci fino al fondo della realtà. Ma con questa pretesa di profondità ci libera dal doverci scontrare con dura realtà che non siamo disposti ad affrontare, perché l’idea di vivere anche noi da servi (visto che così ha fatto Gesù nella sua vita terrena e che noi dovremmo imitarlo), non ci piace molto: meglio perdersi soddisfatti nei meandri astratti della metafisica, disquisire se Gesù è Dio o meno, il che però non modifica di un centimetro il nostro modo quotidiano di vivere.

L’incarnazione dunque non è consistita solo nell’evento che Dio si è svuotato e fuso con l’umanità in astratto. L’incarnazione è consistita nel fatto che Dio si è svuotato e fuso con un uomo concreto, con il più umile dei lavoratori. Questo suggerisce che la salvezza viene dal basso, non dai sapienti e dai dotti (Mt 11,25), non dai potenti papi e vescovi, ma dai piccoli (népioi). Questa è la legge dell’incarnazione e, mediante essa, anche la legge della salvezza. Si tratta, in fin dei conti, del processo esattamente opposto al processo della perdizione umana, così come questo processo viene descritto nei grandi miti ricordati dai primi capitoli del libro della Genesi. La tentazione satanica, che ha provocato l’espulsione dal paradiso, è stata proprio la pretesa di trascendere la condizione umana e raggiungere la deificazione: «Sareste come Dio» (Gen 3,5). Ad Adamo non bastava essere incaricato di governare tutto il mondo, voleva essere pari a Dio. La pretesa di superare la condizione umana, per essere come Dio, è l’aspirazione che rovina l’uomo. Al contrario, lo spogliarsi della condizione divina, per essere come l’uomo, è il progetto che porta la salvezza al mondo.

Più di qualcuno ha contestato [17] questa interpretazione che risolve i versetti della lettera paolina in un’antitesi Adamo-Gesù. Quasi un’antitesi intenzionale, come se il rifiuto di Gesù di ‘sfruttare a proprio vantaggio’ la sua condizione divina fosse in antitesi con il cedimento di Adamo. Si sostiene che morphé theou (forma di Dio) ed eikón theou (immagine di Dio) non risultavano all’epoca termini intercambiabili. Per lo meno questo scambio non era mai stata utilizzato in nessuna allusione ad Adamo. Anzi, nell’unica allusione lo stesso Paolo aveva usato direttamente la parola eikón (1Cor 15, 49). Se quindi Fil 2, 6 vuole associare morphé theou a eikón theou (Gesù ad Adamo), l’allusione non sarebbe riconoscibile come tale perché saremmo davanti a un caso unico. Perciò si conclude nel senso che la scelta di Gesù di non trarre vaneggio dall’essere pari o uguale a Dio distingue lo status di Gesù prima dell’autoumiliazione, sì che anche essere nella ‘forma di Dio’ significa essere pari a Dio, condizione che però era già sua. Si torna quindi alla natura divina.

Mi sembra che, a questa ricostruzione, si possa obiettare che Paolo ha utilizzato un inno già esistente, limitandosi a trascriverlo [18]. Visto che era già conosciuto, non occorreva neanche dilungarsi in spiegazioni sul significato dei termini. Il problema è che oggi per noi è impossibile, in mancanza di documentazione scritta precedente o contemporanea di Paolo, avere elementi certi per ricostruire quel pensiero; sapere cioè come veniva inteso esattamente quell’inno all’interno della comunità, a quel tempo. 

In secondo luogo non c’è alcun accenno al fatto che l’autoumiliazione sia fatta a vantaggio degli altri: anzi, sembra proprio una risposta in obbedienza a Dio, nel senso che Gesù si è fatto uomo mortale per mera obbedienza [19]. Ebbene, sappiamo che Paolo batteva molto sul tasto dell’obbedienza, ma qui di nuovo – se Gesù è Dio -  saremmo davanti a un aggiustamento di conti fra Dio (Padre) e Dio (Figlio) [20], mentre sembra che Paolo volesse con quest’inno semplicemente esortare i filippesi a vivere in atteggiamento altruistico [21]. E perché mai Gesù avrebbe dovuto fin occupare il gradino più basso della classe sociale, se la cosa non riguardava gli uomini, ma solo Dio?

Come si vede, non è facile sciogliere la matassa, e ancor meno trovare interpretazioni condivise, anche perché già nell'uso della filosofia greca una stessa parola assumeva sfumature diverse, non tutti poi le usavano nello stesso significato, e perfino si usavano termini differenti per arrivare a significati talvolta molto simili.

Perciò forse la soluzione migliore sarebbe quella di evitare di scervellarsi sul significato di quei singoli termini, mirando piuttosto a cogliere un senso globale, che non ci leghi indissolubilmente a significati di parole che nel tempo si sono comunque modificati. Soprattutto perché – come è stato correttamente osservato [22] - l’inno non pone, e soprattutto all’epoca non poteva porre, l’attenzione su ciò che è Cristo in sé, sulla sua vera natura, per il semplice fatto che in quel momento dello sviluppo della cristologia non erano ancora sorti i problemi sulla natura di Cristo. Quindi molto probabilmente Paolo non si era minimamente posto i problemi che oggi ci poniamo noi.  Il centro della sua lettera non mira perciò a capire chi è realmente Cristo, ma quale modello può essere Cristo per la comunità di Filippi. E ai filippesi, dov’era era fiorente il culto dell’imperatore romano [23], arriva un’esortazione: non unitevi all’arroganza umana degli imperatori che miravano ad essere trattati da divini. Guardate che Gesù, pur potendolo fare, Lui, che è immagine di Dio [24], non ha approfittato del suo essere come Dio, non ha sfruttato questa possibilità [25]. Gesù porta impressa [26] nel suo essere l’immagine di Dio, eppure si è assimilato agli uomini, configurandosi come uno schiavo e subendo la morte. Non ha approfittato del suo essere Figlio di Dio per ricevere un trattamento adeguato [27]. Anche Adamo avrebbe raggiunto la perfetta somiglianza a Dio se avesse utilizzato la sua libertà per aderire alla volontà di Dio, invece l’ha utilizzata per distanziarsene. Gesù, ri-orienta l’umanità sulla strada della somiglianza aderendo liberamente alla volontà di Dio [28]. Voi, filippesi, fate altrettanto.

Credo si possa riconoscere che, di fatto, Gesù è in assoluto il più inzuppato dell’amore di Dio fra tutti gli uomini; è il nuovo adam, l’uomo nuovo come Dio vorrebbe fossero tutti gli uomini. Noi non siamo al suo livello, perché in noi umanità e dis-umanità sono ancora mischiate alla grande, ma l’esortazione, che vale per tutti, è mettersi in cammino su quella strada battuta da Gesù.

Ma c’è di più: noi uomini non potremmo prendere a modello Gesù se questi è Dio, perché non possiamo imitare Dio; anzi con un simile modello soprannaturale noi non abbiamo nulla a che fare. Ma se Dio salva dal basso - a partire dall’ultimo e dal più basso - diventando schiavo, tutti possiamo imitare uno schiavo. Allora questo è un obiettivo raggiungibile.

E solo su questa base Gesù può mandarci in giro per il mondo (Gv 20, 21: “Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”). Noi dovremmo essere la visibilità di Cristo, il segno del passaggio di Cristo; abbiamo la responsabilità di rappresentare il Risorto. Se Dio avesse mandato in giro Dio, e poi Dio mandasse in giro noi, sarebbe un’impresa impossibile. Ma già così è quasi sovrumana.

Come si vede, le spiegazioni possono essere molteplici e diverse, per cui, in conclusione, un’unica cosa mi pare chiara e indiscutibile: stante l’assoluta varietà di opinioni, mi sembra che non si possa utilizzare questo passo paolino per sostenere, al di là di ogni dubbio, la divinità di Gesù.

In ogni caso un ateo o agnostico non resterà mai colpito da un cristiano che è stato battezzato, che va a messa e che crede che Gesù è Dio. Forse sarà più facilmente colpito da un cristiano che mette in pratica il vangelo, cioè forse resterà colpito da come vede questo cristiano comportarsi nei confronti degli altri. Del resto anche nel vangelo l’unico criterio di verità che c’è per stabilire se Gesù viene veramente da Dio o no, e se noi siamo in sintonia con lui o no, non sono le parole, le attestazioni di ortodossia e di fedeltà, ma le opere (Gv 14, 10).

 

Dario Culot

[1] Barbaglio G., Le lettere di Paolo, vol 2, Borla, Roma, 1989, 567: l’inno cristologico (Fil 2, 6-11) presenta grosse difficoltà d’interpretazione, Orsatti M., Il canto della gioia, ed. Pro Sancitate, 1999,49: l’inno ha stimolato lo studio e la fantasia degli esegeti.

[2] Ad es. Orsatti M., Il canto della gioia, ed. Pro Sancitate, 1999, 51 riconosce che non si può aver la pretesa di risolvere un problema che rimane complesso.

[3] Byrne B, Nuovo grande commentario biblico, Queriniana, Brescia, 1997, 1038 §19.

[4] Barbaglio G., Le lettere di Paolo, vol 2, Borla, Roma, 1989, 568s.

[5] Perettto E., Lettera ai filippesi – La Bibbia -  III Nuovo testamento, Paoline, Cinisello Balsamo, 1991, 1085.

[6] Byrne B,, Nuovo grande commentario biblico, Queriniana, Brescia, 1997, 1038 §19.

[7] Come invece riteneva Gargano I., Lettera ai filippesi, EDB, Bologna, 2006, 88.

[8] Barbaglio G., Le lettere di Paolo, vol 2, Borla, Roma, 1989, 569.

[9] Come sembra anche da (At 2, 22-24): «Gesù il Nazareno fu uomo accreditato da Dio presso di voi… »; nonché dallo stesso Paolo (Rm 1, 3-4) il quale parla di Gesù come uomo nato dalla stirpe di Davide che tramite la resurrezione fu appena a quel punto «costituito Figlio di Dio». Anche per i suoi discepoli di Emmaus, Gesù era semplicemente un grande profeta (Lc 24, 19), quindi un uomo. Su questa linea teologica vedasi l’intervista al teologo Hans Küng del 17.12.2012 (in www.dongiorgio.it del 12.1.2013), ove alla domanda: La differenza teologica tra lei e Ratzinger?” «Per me Gesù è uomo figlio di Dio, per lui è Dio».

[10] Orsatti M., Il canto della gioia, ed. Pro Sanctitate,1999, 53: Nell’uso dei LXX diventa sinonimo di eikon.

[11] Castillo J.M., L’umanizzazione di Dio, EDB, Bologna, 2019, 154.

[12] Castillo J.M., L’umanizzazione di Dio, EDB, Bologna, 2019, 155.

[13] Castillo J.M., El Evangelio marginado, Desclée De Brouwer, Bilbao, 2018, 173.

[14] Castillo José M., Teología Popular (II), ed. Desclée De Brouwer, Bilbao (E), 2013, 106.

[15] Castillo J.M., L’Umanizzazione di Dio, EDB, Bologna, 2019, 210s.

[16] Che si richiama a vari altri autori, fra cui il conosciuto J. Moltmann, La via di Gesù Cristo in dimensioni messianiche, Queriniana, Brescia 1991.

[17] Hurtado L.W., Come Gesù divenne Dio, Paideia, Brescia, 2010, 114s.

[18] Barbaglio G., Le lettere di Paolo, vol 2, Borla, Roma, 1989, 570s: l’inno è preesistente proprio perché sono assenti le prospettive paoline (ad es. il nesso fra umiliazione ed esaltazione), e anche il vocabolario usato è sconosciuto a Paolo. Paolo ha fatto propria una composizione del cristianesimo primitivo, e la ricchezza teologica dell’inno è eccedente il quadro esortativo in cui è stato inserito. Brown R., Introduzione al Nuovo Testamento, a cura di Boscolo G., Queriniana, Brescia, 656: si pensa che Paolo abbia scritto ma non creato l’inno. Byrne B. Nuovo grande commentario biblico, Queriniana, Brescia, 1997, 1038 §18: è diffusa la convinzione che l’inno sia precedente alla lettera e non è di Paolo. Orsatti M., Il canto della gioia, ed. Pro Sanctitate,1999, 51: sia il vocabolario sia l’allontanamento dalle idee paoline fanno pensare alla preesistenza dell’inno.

[19] Barbaglio G., Le lettere di Paolo, vol 2, Borla, Roma, 1989, 572.

[20] Cfr. l’articolo sulla Sofferenza al n. 553 di questo giornale (https://sites.google.com/site/ilgiornaledirodafa20202/numero-553---19-aprile-2020/sofferenza).

Byrne B, Nuovo grande commentario biblico, Queriniana, Brescia, 1997, 1040 §22.

[22] La Bibbia – lettera ai filippesi, a cura di Pitta A., Piemme, Casale Monferrato, 1996, 2843.

[23] Barbaglio G., Le lettere di Paolo, vol 2, Borla, Roma, 1989, 562.

[24] Castillo J.M., L’umanizzazione di Dio, EDB, Bologna, 2019, 138.

[25] Barbaglio G., Le lettere di Paolo, vol 2, Borla, Roma, 1989, 560.

[26] Castillo J.M., L’umanizzazione di Dio, EDB, Bologna, 2019, 140: Gesù impronta di Dio.

[27] Barbaglio G., Le lettere di Paolo, vol. 2, Borla, Roma, 1989, 571.

[28] Gargano I., Lettera ai filippesi, EDB, Bologna, 2006, 88.