È l’ora che pia, a Bose e a Porta Pia

Sua Eccellenza e Sua Eminenza - disegno di Rodafà Sosteno

Proprio quest’oggi, 20 settembre 2020, a 150 anni dalla Breccia di Porta Pia, compare sull’inserto domenicale La Lettura de Il Corriere della Sera, a p. 9, un approfondimento del prof. Marco Ventura, docente di diritto ecclesiastico all’Università di Siena ed insigne canonista, intitolato La crisi di mezz’età di Bose modello travolto dai tempi.

Premettiamo che, da alcuni giorni, contemporaneamente all’uscita del nuovo quotidiano Domani, sembra tornato di moda un sotterraneo – ma neppure tanto - anti-intellettualismo che interpreta la presenza di scrittori e studiosi sui giornali come un impoverimento del fascino accattivante della notizia, con ciò tuttavia decretando in buona sostanza la ghettizzazione della cultura negli spazi esclusivi dell’accademia e dell’erudizione e così espungendo la cultura stessa dalla vita quotidiana. Proprio La Lettura infatti è stato paragonato a Domani quasi fosse un elemento di debolezza d’appeal della carta stampata, mentre, a nostro modestissimo parere, è un valore aggiunto purtroppo assai raramente riscontrabile. In ogni caso, come che sia, Marco Ventura propone oggi una lettura inedita degli eventi che hanno segnato la storia recente della Comunità di Bose – e che il nostro giornale ha cercato di seguire passo passo - con queste parole: «Certo, la crisi è personale. E interpersonale. Affonda nelle relazioni, negli affetti. Essa tuttavia non può essere ridotta alle incompatibilità, alle antipatie, alle rivalità; né ai conflitti di potere, dentro e fuori la comunità, tra autorità e istituzioni ecclesiastiche, tra Chiese. Se la crisi rischia di «indebolire o addirittura di annullare» il ruolo della Comunità, come si legge nei suoi documenti, se essa «ha radici più lontane» rispetto alla sua recente deflagrazione, se già 10 anni fa, nel suo libro sulle stagioni, Enzo Bianchi si dice grato «verso Dio e verso la vita» per «aver conosciuto, anche se tardi, ormai da anziano, la falsità!», è perché l’esperienza di Bose è duramente scossa dalla società contemporanea. Proprio lì è il senso della crisi: nel mutare della domanda e dell’offerta di Dio; nello scarto tra la stagione presente e la stagione della nascita e dello sviluppo di Bose.»

Prosegue Ventura: «Questo tempo non risparmia nulla del religioso che ha ereditato. Sono sotto un tremendo peso, uomini e donne di Bose, perché campioni di innovazione e di tradizione in un’epoca che vuole più di entrambi. La convivenza tra monaci ortodossi, protestanti e cattolici è una straordinaria novità, e un gran pegno all’antico ideale di cristiani indivisi, ma non basta a chi vuole insieme atei e credenti, e cristiani e musulmani, e magari sogna un’unica spiritualità invece di tante religioni; né basta, al contrario, a quanti invocano le identità delle Chiese, i confini tra le Chiese. Una comunità di monache e di monaci nel celibato è un grande esperimento, ma vuole di più chi immagina aggregazioni di religiosi sessualmente attivi, o, al contrario, chi propugna una maggiore separazione tra maschile e femminile. Ancora, soffre l’assetto istituzionale di Bose, in bilico tra associazioni dei fedeli e ordini religiosi, diocesi e conferenza episcopale, curia romana, pontefice, patriarcati ortodossi e sinodi protestanti: gli innovatori di oggi, infatti, vogliono un diritto canonico assai più disinvolto, mentre esigono rigore i difensori delle certezze d’un tempo. Rispetto al laicato di monaci non preti, come lo stesso Bianchi, s’alza la voce di chi vuole donne cardinale non ordinate, o di chi sogna restaurazioni clericali. Analoga la tensione per ogni altro ingrediente dell’impasto di Bose.»

Avanziamo l’idea, tuttavia – forse in ciò differenziandoci dall’analisi di Ventura -, che ogni crisi istituzionale, e personale, e sociale, e persino familiare od interpersonale, di qualunque tipo e misura, si risolva quasi di necessità, quasi inevitabilmente, in fonte generativa di un diverso assetto che, se non espelle gli attori della crisi rendendoli impotenti, consente un balzo in avanti della coscienza comunitaria. L’impasto di Bose potrebbe sfornare una pietanza prelibata. Anche se forse dal sapore sempre meno sacro e sempre più profano, o sempre più laico e sempre meno confessionale, o forse – e finalmente – sempre più “credente” e sempre meno “religioso”.

Centocinquant’anni questo è avvenuto. Traiamo da Vatican News (https://www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2020-09/porta-pia-papa-vaticano-italia-roma-potere-temporale-montini.html): «Eppure l’evento di Porta Pia si rivelò provvidenziale. “La Provvidenza, ora lo vediamo bene - disse ancora Montini - aveva diversamente disposto le cose, quasi drammaticamente giocando negli avvenimenti. Il Concilio Vaticano I aveva infatti da pochi giorni proclamata somma ed infallibile l’autorità spirituale di quel Papa che praticamente perdeva in quel fatale momento la sua autorità temporale… Com’è noto fu allora che il Papato riprese con inusitato vigore le sue funzioni di Maestro di vita e di testimonio del Vangelo, così da salire a tanta altezza nel governo spirituale della Chiesa e nell’irradiazione morale sul mondo, come prima non mai”.»

Si pose nel 1870 un problema di delicatissimi equilibri e interrogativi giuridici – prima che politici, od immediatamente dopo il fatto politico – che rimasero irrisolti per quasi sessant’anni, fino al 1929 con i Patti Lateranensi, e che non fu certo un inesistente genio istituzionale di Mussolini a sciogliere, quanto piuttosto quella medesima necessità di risposte istituzionali che oggi attende la Comunità Ecclesiale. Può sembrare qualcosa d’enorme un simile paragone, eppure, in realtà, ignorare i portati specificamente giuridici di qualsiasi “crisi” della e nella Chiesa conduce ad una paralisi della stessa azione pastorale. Nell’ospedale da campo che coincide spesso anche con la comunità di chi è accomunato e accomunata dalla medesima fede il diritto interno a tale comunità fa da diagnostico e poi, se possibile, da terapeuta.

È morta questa notte Rossana Rossanda che, con buona pace di molte e molti, ha in maniera unica ed ineguagliata saputo penetrare nella testimonianza monastica di Adriana Zarri, sua grande amica.

È uno scritto di Rossana Rossanda, Le mie ore con Adriana, ad aprire l’edizione del 2011 per Einaudi di Un eremo non è un guscio di lumaca, che raccoglie ed amplia il precedente resoconto di vita di Zarri dal titolo Erba della mia erba (Cittadella 1999). Racconta Rossanda (alle pp. IX-X del volume edito da Einaudi): «Fu allora che qualcuno, penso Luigi Bettazzi che allora era vescovo di Ivrea, la salvò, offrendole in comodato, che deve essere una sorta di affitto a termine, una proprietà diocesana abbandonata, che aveva il vantaggio di stare proprio sull’orlo di un paesino del torinese, un lato sulle ultime case e l’altro su una sconfinata campagna. Un miracolo. Adriana rifiorì, vi si insediò subito e io salii a vedere. Avevo in mente il Molinasso e rimasi di stucco, era un luogo bruttissimo. Un gran cancello arrugginito, fra due santi antipatici, immetteva a sinistra su una cascina disabitata e a destra su un’altra cascina appena meno sbrindellata, cui si accedeva da un’erta scala di legno, a sua volta collegata a uno sgarbato casone giallo, forse degli anni Trenta, che dava sulla campagna e un giardinetto ad aiuole. Il quarto lato era indeciso fra una costruzione informe e un arruffato boschetto. In mezzo uno spazio interrotto da un alto muro, inteso a dividere una delle due cascine e il casone dall’altra. Adriana si era collocata al primo piano della cascina di destra, che era poi uno stanzone affacciato in fondo verso il paese, e per me aveva collocato un letto giù al pianterreno. C’era dappertutto una polvere decennale, dappertutto tracce di immemoriali abbandoni, sgomberi frettolosi e confusi, mi misi a scopare e riordinare inutilmente, e quando ci lasciammo dopo una breve cena afferrai una coperta e scesi quella scala da vertigini giù in cortile dove, saltata la lampadina, sbagliai di porta e mi infilai a tastoni in una stanza dove mi parve di individuare un letto di legno. La mattina dopo scoprii che avevo dormito su un catafalco, con i suoi bravi manici davanti e dietro, e un cespo di rose di pezza coperto di falso filo d’oro rimasto attaccato dall’ultima cerimonia. Ero in una sorta di magazzino dove era stato ammucchiato tutto quel che una sacrestia povera poteva lasciare di non sacro dietro di sé. Ma Adriana giubilava.»

Scendiamo su un piano di stretto diritto canonico che potrebbe sembrare, in apparenza, quanto di più lontano da simili struggenti annotazioni biografiche. Adriana Zarri aveva scelto, del tutto consapevolmente, una forma di vita da eremita laica che il canone 603, § 1 (e non § 2), del Codice di diritto canonico consente.

Ci furono rapporti tra la vita eremitica di Adriana Zarri e l’evoluzione cenobitica di Bose? È una domanda interessante, con risvolti da approfondire e possibili stimoli da cogliere, anche criticamente semmai.

Proviamo a trarre qualche indicazione finale per un tempo che ecclesialmente – ed idealmente - si stende ora da questi 150 anni di breccia in poi.

Primo. Importa dare risposte concrete, persino pratiche, realistiche, effettive, chiare, a crisi epocali, a cesure di storia e di convinzioni. Non si tratta di convertirsi, bensì di avere l’ardire di assumere la complessità. Un’osservazione al riguardo: la celebratissima laicità della Presa di Roma ha sancito un venir meno di sovranità territoriale da parte del Pontefice “solo” per meno di sessant’anni, giacché dal 1929 in poi lo Stato Città del Vaticano, sia pure con dimensioni assolutamente simboliche, è comunque una realtà territoriale pacificamente accettata anche in sede internazionale: non ci sono più gli Stati della Chiesa, c’è lo Stato Città del Vaticano.

Secondo aspetto: importa cogliere gli aspetti residuali, quasi secondari, screditati da dotti e sedicenti sapienti, del momento di crisi, assumendo la visione del più debole, della vittima, dell’escluso, dell’ignorato, del dimenticato, del silenziato. E da declinare al femminile, pena la vacuità completa di simile osservazione: dell’esclusa, dell’ignorata, della dimenticata, della silenziata.

Terzo: importa andare in cerca delle storie che non hanno mai avuto la ribalta della storia ufficiale e che però sono state vissute in ombra non per una scelta di clandestinità, necessitata o  voluta, ma perché la loro narrazione avrebbe avuto contenuti diversi e altamente destabilizzanti, quasi sovversivi.

Sono i giorni di Rosh Hashanah dell’anno 5781. Ieri è morta la Giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America Ruth Bader Ginsburg, che apparteneva al Popolo d’Israele. La memoria ci avvolge e ci forma, non ci pietrifica ma può ammaestrarci. Si può morire di memoria, ma si può vivere e progettare grazie alla memoria.

Tutte le identità collettive delle minoranze presenti nella nostra società – di certo minoranza sono monache e monaci, non diversamente dalle Comunità Israelitiche e dai gruppi per i quali si sono battute la giudice Ginsburg e Rossana Rossanda – conoscono un dramma, dilatabile sino alle dimensioni della tragedia, che investe e quasi fonda la loro storia, divenendo spesso per appunto l’aspetto “vittimario” di tali storie quasi una specie di angolo oscuro di cui vergognarsi. Sarà invece il dolore innocente a far scrivere storie mai sentite e a far trovare sentieri mai battuti.

La Breccia di Porta Pia continua ad aprirsi e, nello stesso tempo, ad essere architettonicamente riparata per non lasciare in rovina un’opera pur sempre edificata dal Buonarroti su disegno di Michelangelo.

Ci si apre davanti l’orizzonte della speranza, l’utopia in attesa di realizzarsi sapendo che ciò non potrà mai avvenire pienamente ma che se non sogniamo da utopisti defungiamo. E da parte nostra mai grideremo “viva la muerte!”.

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro