Come cambia il significato delle parole

Chi parla a chi, disegno originale di Rodafà Sosteno

Anche se non ce ne rendiamo conto, le parole cambiano di significato nel corso del tempo [1]. Ma non solo le parole, anche le stesse lingue hanno subìto cambiamenti notevoli, trasformandosi in un’altra lingua a mano a mano che il tempo passava (pensiamo al latino, poi trasformatosi in italiano [2] o in spagnolo).

Già solo per questo motivo, anche le formule che utilizziamo per la dottrina della fede, anche le parole che usiamo nei dogmi, sono necessariamente provvisorie; non solo hanno sempre delle componenti limitate e imperfette, ma cambiano nel corso del tempo per cui non possono durare per sempre, come invece ci è stato insegnato.

Soprattutto dobbiamo renderci conto che i cambiamenti delle parole non dipendono dalla nostra volontà, ma vengono a causa di fattori esterni. Nuove idee vengono introdotte nel sistema, per cui ci sono dei cambiamenti che si realizzano indipendentemente dalla nostra consapevolezza. Pertanto è importante capire come e quando avvengono i cambiamenti per poter esprimere le formule dogmatiche in un senso che continuino a riflettere l’esperienza di fede, e non semplicemente a trasmettere dei pensieri ormai superati o morti. Si deve cioè evitare che il dogma diventi mera difesa di una dottrina fredda e ormai priva di vita. Se si trasmettono formule che non sono più vitali, ma morte, è ovvio che arriva subito la tentazione di sbarazzarcene non appena non le capiamo, non le condividiamo o ci danno il minimo fastidio.

Per di più, le parole possono perfino essere fuorvianti, perché non rendono sempre chiaro per tutti ciò che realmente s’intendeva affermare. Come ha correttamente osservato il giornalista Francesco Cundari in un caso di pubblicazione di intercettazioni, è assai diverso scrivere: “Scandalo X. Spunta il nome di Tizio”, oppure “Ombre su Tizio” oppure “Veleni su Tizio”. L’intercettazione è sempre la stessa, ma il modo di farla percepire al lettore è chiaramente diverso in base alle poche parole inserite nel titolo dell’articolo. E la teologa Cristina Simonelli ha giustamente ricordato che se si fa ricorso a una parola, ma poi si è costretti a impiegare venti minuti per chiarire in che senso la s’impiega, si rischia di fare solo confusione e quindi di non farsi capire [3].

Da tutto questo deriva una conseguenza molto importante: le formulazioni dottrinali devono essere rivedute per restare vitali e aggiornate. Il cambiamento è necessario - anche se i conservatori insistono sempre per l'immutabilità nel tempo - perché se non si cambia si muore. Ovviamente questo vale in ogni settore della vita: non posso pretendere di indossare a 70 anni i pantaloni che indossavo a dieci. Non posso pretendere di farmi curare oggi con gli strumenti chirurgici di mezzo secolo fa, che pur erano in allora all’avanguardia. Con le parole avviene lo stesso. La realtà è sempre oltre le parole che esprimono il nostro rapporto con le cose, per cui serve un continuo approfondimento.

Oggi ci rendiamo facilmente conto di questo perché la cultura ha assunto dei processi estremamente veloci, per cui da una generazione a un’altra già si avvertono vari cambiamenti. Nell’antichità questo avveniva in un modo così lento che la gente non se ne rendeva conto, anche perché si viveva molto meno di oggi e si moriva normalmente prima di scoprire, ad esempio, la diversità del significato delle parole. Quando capitava che una generazione viveva il momento di passaggio, cominciavano le discussioni e le crisi.

Infine, a tutto questo deve aggiungersi un ulteriore elemento che, pur essendo secondario, è pur sempre significativo: ogni persona utilizza le parole con una componente personale che è esclusiva di quella persona, per cui ciascuno mette qualcosa di personale nelle parole che usa, e introduce così ulteriori elementi di ambiguità che aumentano col passare del tempo [4]. E lo stesso avviene in chi ascolta, per cui è impossibile che uno parli e tutti gli ascoltatori capiscano esattamente allo stesso modo le sue parole: tra le parole c’è sempre uno spazio anche per un senso estraneo, non voluto da chi comunica [5].

Questo ha reso sostanzialmente ambiguo il significato dei dogmi utilizzati in passato, essendo il dogma stato concepito come una formula che doveva restare per sempre nel tempo. Infatti nell’antichità c’era questa convinzione: che una formula precisata bene poteva restare per sempre nel tempo. Già nel secolo IV della nostra tradizione cristiana, il magistero ha cominciato a formulare la dottrina in senso dogmatico, cioè fissando dei punti fermi con una precisione tale che doveva restare in eterno. Il I Concilio Ecumenico [6] del 325, quello di Nicea, fu convocato dall’imperatore romano Costantino che fra l’altro non era ancora stato battezzato. Egli pensava che il cristianesimo potesse costituire un valido collante proprio per l’unità di un impero che sotto i suoi occhi si stava sfaldando e dividendo [7], e sperava quindi che col cristianesimo l’impero potesse rinsaldarsi, salvo accorgersi presto che anche le formule cristiane erano molteplici, ed erano già cominciati i contrasti teologici: ad esempio a quel tempo furoreggiava l’arianesimo [8]. A quel punto l’imperatore convocò un concilio, a Nicea proprio per far precisare bene la dottrina che doveva essere unitaria in tutto l’impero e per questo ha personalmente imposto la composizione di un simbolo (del Credo). Prima di allora, prima del 325, ogni comunità aveva il suo proprio simbolo; la comunità si raccoglieva attorno a un proprio vescovo ed esprimeva con delle proprie formule la propria fede [9]. A Nicea, non il papa, ma l’imperatore impose che i vescovi componessero una loro dottrina, che poi è diventata insegnamento generale. Nel concilio di Calcedonia del 451, e siamo già nel V secolo, i vescovi imposero un insegnamento comune appunto attraverso delle formule sintetiche, nella convinzione che queste potessero restare inalterate per sempre. Questo deve essere ben compreso perché ancora oggi noi continuiamo a richiamarci a delle formule cristologiche nate sotto questa convinzione di perennità, che oggi sappiamo essere errata.

Se non diamo tutti lo stesso significato al termine che stiamo usando, finiremo col parlare, discutere, magari anche litigare senza alcuna possibilità di intenderci.

Ma, appunto per capirci meglio, vediamo ora qualche parola che in passato aveva un significato, e oggi ne ha un altro completamente diverso.

1. Innanzitutto la parola Testamento, che normalmente da noi significa disposizione di ultima volontà, e che in teologia ha invece a che fare con dei testi scritti, è arrivata a noi dal latino, e questa parola latina era prima ancora arrivata dal greco diatheke (διαθηκη), parola che significa testamento, ma significa anche alleanza: in effetti, la parola diatheke venne usata quando la Bibbia venne tradotta dall’ebraico al greco; ma mentre in ebraico la parola usata significava soltanto alleanza, o patto, in greco la stessa parola aveva già questo duplice significato [10]. Dunque, già dal titolo si può vedere come una traduzione più corretta sarebbe stata probabilmente: “La Nuova Alleanza” e non “Il Nuovo Testamento,” termine che erroneamente può far pensare alle disposizioni di ultima volontà di Gesù. Nuova alleanza per distinguerla dalla vecchia, promessa da Dio agli Israeliti [11] in Es 19, 5, stretta fra Dio e Mosè in rappresentanza del popolo in Es 34, 10, e ratificata per iscritto in Es 34, 27.

2. Quando oggi parliamo di ‘giustizia’, intendiamo normalmente riconoscere e rispettare i diritti altrui attribuendo a ciascuno ciò che gli è dovuto secondo la ragione e la legge.

Ma il termine ‘giustizia’ nell'Antico Testamento aveva il significato di fedeltà, fedeltà all’alleanza [12], per cui la giustizia di Dio consiste nella sua fedeltà all’alleanza. Anche se gli uomini possono abbandonarla, anche se il popolo può tradirla, Dio è sempre fedele all’alleanza e al suo popolo; l’uomo giusto è allora quello che è fedele all’alleanza, e quindi, per la dottrina di allora, è fedele osservante della legge mosaica perché si credeva che solo osservando la legge si compiva la volontà di Dio (Dt 4, 1-6; 6, 1-3) [13].

Lo stesso significato di ‘fedele osservante della legge’ viene mantenuto nel Nuovo Testamento, ad esempio quando si dice che Giuseppe era uomo giusto (Mt 1, 19). Quando leggiamo il vangelo senza essere a conoscenza del cambiamento di significato, erroneamente pensiamo che Giuseppe era giusto perché rispettava i diritti degli altri, perché ormai diamo al termine ‘giusto’ il significato di oggi. Invece l’evangelista ci avverte che pur essendo stato Giuseppe un uomo rispettoso della legge, l’ha chiaramente violata quando non ha denunciato Maria, incinta di un altro.

3. Ma la parola che più ha cambiato di significato, e che pertanto ci dimostra come i dogmi antichi non possano più essere accettati così come ci sono stati fino ad adesso insegnati, è la parola persona. Per noi persona è un individuo a sé stante, diverso dagli altri individui della stessa natura (umana), con una consapevolezza di sé [14] e con la sua propria libertà. Il mese prossimo affronteremo il tema spinosissimo del dogma ‘Gesù vero Dio e vero uomo’, formula uscita dal concilio di Calcedonia. Per la riflessione di oggi è sufficiente ricordare che, nel testo dogmatico di Calcedonia, si legge che Gesù ha “due nature... riunite in una sola persona (prosopon) e una sola ipostasi (hypostasis)”. Natura divina e natura umana sono riunite in Cristo in un’unica persona divina. In italiano, si trova in effetti questa versione del dogma di Calcedonia: “non essendo venuta meno la differenza delle nature a causa della loro unione, ma essendo stata, anzi, salvaguardata la proprietà di ciascuna natura, e concorrendo a formare una sola persona e ipostasi”.

Come mai si parla non solo di persona ma anche di ipostasi? Non bastava dire che le due nature sono riunite in un’unica persona? Il problema è che le due più importanti scuole teologiche di quel tempo non usavano gli stessi termini.

La scuola teologica di Antiochia, per parlare appunto di questa unità in Cristo, usava il termine greco prosopon [15]. Il termine, in greco, significa ciò che sta davanti al volto, la maschera del teatro, e quindi per estensione il ruolo, il personaggio di chi indossa quella maschera [16]. Nulla a che vedere con la nostra idea di persona, intesa come soggetto umano consapevole e libero. Potremmo allora sintetizzare così il dogma pronunciato da Calcedonia: prosopon = persona = maschera = ruolo.

Quindi due nature ma un unico ruolo salvifico (divino perché la salvezza è un dono che si riceve [17] da Dio, non un traguardo che si conquista da sé), in quanto restava fondamentale in Gesù il ruolo dell’azione divina. Invece oggi, quando uno sente recitare il dogma, si crea erroneamente nella propria testa questo schema: prosopon = persona = individuo divino. Questo perché il termine persona ha oggi un significato diverso.

Gli antiocheni avevano ben presente che i vangeli non danno alcuna spiegazione ontologica su Dio (non dicono cioè che in Dio esistono tre distinte persone, nel senso che oggi intendiamo), mentre mettono ben in evidenza la diversità dei “ruoli” di quelle che oggi continuiamo a chiamare le tre persone divine.

I latini avevano correttamente tradotto il termine greco prosopon con persona[18] e quindi in questo erano vicini alla scuola degli antiocheni. Ma non si può dimenticare che anche il termine latino ‘persona’ significava sempre e solo maschera, e non aveva ancora assunto il significato diverso che gli diamo oggi.

Ora, affermando l’unico prosopon antiocheno si intendeva dire che Cristo svolgeva questo ruolo salvifico con la piena potenza divina, sicché l’uomo Gesù era un perfetto rivelatore di Dio. L’uomo Gesù svolgeva dunque questo ruolo divino salvifico, ma non si intendeva dire che Gesù era lui stesso Dio, seconda persona della Trinità. Conclusione cui inevitabilmente si arriva se intendiamo persona nel senso moderno.

La scuola di Alessandria, invece di usare il termine prosopon, utilizzava il termine hypòstasis. Calcedonia utilizzò entrambi i termini per non scontentare nessuna delle due scuole più rinomate dell’epoca. Anche qui i latini tradussero correttamente il termine greco hypostasis (ipostasi, in italiano) con substantia (ciò che sta sotto). Affermando l'unica hypostasis si intendeva dire che il divino alimentava questa unione fra cielo e terra nell'uomo Gesù: il divino, non l’umano, sta sotto a questo rapporto intimo. Dunque si dovrebbe parlare della substantia come della forza soggiacente: hypostasis = substantia = forza soggiacente.

Invece oggi il termine usato in italiano è sempre sinonimo di persona, parola che – ripeto,- noi intendiamo come un soggetto distinto, consapevole e libero, e parliamo di ipostasi per ciascuna delle tre persone divine considerate come sostanzialmente distinte.

Evidente quindi che il cambio di significato delle parole nel corso dei secoli ha portato a un fraintendimento di ciò che aveva voluto affermare il concilio. Intendendo oggi come persona sia il termine prosopon che il termine hypostasis [19] non si fa capire alla gente che, avendo questa parola cambiato di significato, non la intendiamo più come la intendevano i padri conciliari. Dobbiamo perciò renderci conto che nessuna delle persone divine della Trinità può essere definita persona [20] col significato che oggi diamo a quel termine, perché se in Dio ci fossero tre persone distinte (come oggi intendiamo il termine) ci sarebbero per forza anche tre conoscenze e tre volontà, perché necessariamente per noi ogni persona ha una sua volontà, ogni persona ha la sua propria conoscenza. Altrimenti non è persona.

Deve essere chiaro che, per noi, persona non è più un ruolo, e non è neanche una forza nascosta sottostante (mentre così sarebbe probabilmente più corretto tradurre la formula tradizionale secondo cui le due nature concorrono a formare – come si è visto sopra - “una sola persona e ipostasi”), bensì è un centro autonomo di attività, libero e cosciente [21] concreto e indipendente. Dicendo persona, oggi, ci si riferisce automaticamente a un individuo specifico e distinto, principio di operatività individuale [22]. “Persona” è un individuo destinato ad avere piena consapevolezza di sé, e infatti solo la persona umana (e in ciò la distinguiamo dall’animale) è capace di esprimersi con un linguaggio che contiene frasi subordinate e ha la coscienza intellettuale della dissoluzione e dell’oscurità che ciascuno, alla fine dell’intricato e spesso confuso percorso della vita, dovrà affrontare [23].

Soprattutto oggi si parla di persona nel mondo del diritto, dove il termine significa individuo umano soggetto di diritto, cioè un ‘Io’ singolo, titolare di una situazione garantita o sanzionata dall’ordinamento [24]; quindi un titolare di diritti e di doveri[ [25]. Pertanto, quando oggi si parla di Gesù come di una persona, noi automaticamente pensiamo che, come unico Io, Gesù abbia anche un solo intelletto e una sola volontà, in quanto solo nello schizofrenico si verifica una dissociazione di volontà nella stessa persona [26]. Poiché poi la volontà riguarda la persona e non le nature, se si nega che c’è una sola volontà e si afferma l’esistenza in Gesù di una volontà divina ed una umana, per forza deve prevalere quella divina (proprio come sostenevano i monofisiti), mentre quella umana sarebbe succube, o quanto meno affievolita di fronte alla superiore volontà divina; ne deduciamo che per forza la volontà umana di Gesù deve essere andata affievolendosi a mano a mano che cresceva orientandosi sempre più intensamente verso Dio, prendendo sempre più consapevolezza della sua missione e cominciando sempre di più a operare in lui la forza divina sottostante. Ma in tal modo, parlare di una sola persona (per di più divina) vorrebbe dire in realtà che Dio tratta con noi sotto forma umana in Cristo, ma che davanti a noi, con questa modalità, non c’è più un vero uomo [27], che non può esistere senza una propria volontà umana libera.

Perciò, ancora oggi, professando che in Gesù, in un’unica persona, c’è una natura umana e una natura divina che costituiscono un’unica persona divina, si cade facilmente di fatto nelle stesse eresie del passato:

a)      Si diventa monofisiti come Eutiche se si pensa che le volontà di Gesù inizialmente erano due ma che poi quella divina abbia preso il sopravvento. Ma in tal caso, come fa ad essere vero uomo colui che non possiede una propria volontà umana? Se quella divina sostituisce quella umana l’uomo vero scompare, e un Gesù senza volontà umana non può più essere vero uomo;

b)      oppure si diventa monoteliti se si pensa a un’unica consapevolezza e a un’unica volontà, visto che Gesù (inteso come unica persona) non può essere schizofrenico ed avere in sé una scissione della volontà (divina + umana, che almeno in teoria potrebbero confliggere).

Il terzo concilio di Costantinopoli (e siamo ormai verso la fine settimo secolo: 680-681) ha stabilito che Cristo ha “due volontà non contrarie, ma la sua volontà umana segue la sua volontà divina e onnipotente, senza opposizione né ribellione ma interamente sottomessa”. Mah! Questo significa che la volontà umana resta appiattita su quella divina, resta plagiata da quella divina, e porta di nuovo ad escludere che Gesù sia vero uomo, perché una vera volontà umana, distinta da quella divina, deve essere libera, potendo anche opporsi e ribellarsi a quella divina. Questo è in effetti possibile per ogni uomo, che quindi può anche peccare; ma se questo non era possibile per Gesù che non poteva peccare essendo la sua volontà umana appiattita su quella divina, mi sembra non si possa dire che Gesù era un uomo uguale a tutti noi.

In ogni caso sfugge il senso del dogma sulla duplice volontà, umana e divina, entrambe autonome, riferite ad un’unica persona e non a due persone. Dire che esiste in Gesù la «volontà naturale» della natura umana, ma c’è una sola «volontà della persona divina», che accoglie in sé la «volontà naturale» non convince perché solo la persona umana concreta, e non la natura umana possono avere una volontà. La natura umana in sé e per sé non ha coscienza di essere tale né ha alcuna volontà. Se fosse la natura/essenza ad avere coscienza e volontà avremmo una distinzione reale tra le persone e la natura, ed è inimmaginabile che – senza persone umane, - la natura umana possa pensare, avere coscienza di sé e volere qualcosa.

In conclusione, bastano queste poche riflessioni per capire perché, essendo mutato nel tempo il significato delle parole, anche il catechismo con i suoi dogmi devono necessariamente essere aggiornati non essendo altrimenti né comprensibili né accettabili.

 

Dario Culot

 

 

[1] Lenaers R., Il sogno di Nabucodonosor, ed. Massari, Bolsena (VT), 2009, 14: «Quando la sovrastruttura cambia, anche il linguaggio necessariamente cambia, giacché è l'espressione dei pensieri e dei sentimenti di una cultura, di conseguenza della sua sovrastruttura».

[2] Per fare un esempio, oggi traduciamo la formula finale “Ite, missa est” con “Andate, la messa è finita”. Ma in latino la frase significava anche che si era invitati a quel punto in giro ad evangelizzare, “andate a cominciare la missione” (quindi: “La messa è finita, la missione comincia” - “Famiglia cristiana”, n.30/2020, 72).

[3] Pensiamo allora alla parola “ipostasi”, che nessuno oggi capisce a meno di non aver studiato teologia. Oggi, sentendo parlare di ipostasi, al massimo si pensa alle macchie ipostatiche, cioè al colore rossastro che assume la persona morta, nella quale non circola più il sangue. Ma il dogma di Calcedonia, con questo termine si riferisce a tutt’altro, come si vedrà nel prosieguo dell’articolo.

[4] Per capire come le parole possiedano connotazioni diverse e suggeriscano prospettive diverse basta pensare, oggi, alla differenza fra etica e morale. Originariamente i due termini erano sinonimi: ethos era il termine greco; mos, da cui deriva (scientia) moralis, era il termine latino. Oggi invece, da parte di alcuni, la morale riguarderebbe i valori del singolo individuo, mentre l’etica, i valori che riguardano gli uomini nella loro generalità. Altri, intendono però per “morale” le norme di comportamento, e per “etica” la riflessione sul fondamento, l’applicabilità delle norme di comportamento. Altri ancora col primo termine indicano le norme di fatto seguite o riconosciute vincolanti (ciò che a volte si chiama invece «ethos»), con il secondo la loro codificazione filosofica. Insomma: una distinzione universalmente accettata non esiste, e per ogni autore bisogna dunque prima accertare quale sia il suo uso dei termini.

[5] Rosini F., “Famiglia Cristiana”, n.29/2020, 93.

[6] I concili ecumenici (cioè universali) sono la realizzazione storica della volontà dello Stato/Impero romano (e dal 476 romano/bizantino) di regolamentare i propri rapporti con i reggitori delle comunità cristiane sparse nell’impero. Sono infatti la continuazione storica dei Concilia provinciae, le assemblee del culto per la dea Roma e per celebrare il genio dell’imperatore (estesi fin dai tempi di Vespasiano in tutte le comunità dell’impero), in cui si discuteva anche delle questioni più gravi della provincia, riferendo poi a Roma. Attraverso i concili ecumenici l’imperatore, a cominciare da Costantino, cercava di controllare i vescovi; ma le distanze fra le varie province dell’impero erano troppo grandi e a mano a mano che l’imperatore (trasferitosi ormai stabilmente da Roma a Costantinopoli) perdeva di forza in occidente, a questo controllo si opponevano sempre di più i vescovi di Roma. Per fare qualche esempio: Leone I Magno condannò il canone 28 di Calcedonia del 451 d.C. che assegnava al vescovo di Costantinopoli la primazia d’onore dopo quella di Roma e il diritto di ordinare - senza l’intervento di Roma - i vescovi del Ponto, Asia e Tracia. L’imperatore Giustiniano, invece, lo inserì nel suo codex nonostante l’opposizione di Leone I e questo rimase un pericoloso precedente al quale la Chiesa di Costantinopoli si è sempre richiamata per legittimare la sua indipendenza di fronte a Roma. Fra il 575 e l’800 d.C. – gli anni più bui per il vescovado di Roma - l’ingerenza bizantina fu pressante e costante in Italia (per essere insediato il papa aveva bisogno dell’assenso di Bisanzio). Ma, con l’incoronazione del re dei Franchi e fidando nell’aiuto del loro esercito, Leone III proclamò di non riconoscere più a Bisanzio alcuna autorità sul vescovo di Roma. Bisanzio vedeva invece nel vescovo di Roma un'autorità che poteva ostacolare i propri interventi nella gestione del divino e fin che ebbe la forza cercò di impedirlo (Bucci O. e Piatti P., Storia dei concili ecumenici, ed. Città Nuova, Roma, 2014, 41s, 45s).

[7] Bucci O. e Piatti P., Storia dei concili ecumenici, ed. Città Nuova, Roma, 2014, 53 e 60s.Yannaras C., Contro la religione, ed. Qiqajon Comunità di Bose, Magnano (BI), 2012, 195.

L’impero era una struttura di potere globale guidata da un’autorità centrale, che perdeva forza e coesione sotto la spinta di forze estranee e fortemente motivate. Questa fu la situazione dell’impero romano durante il lungo periodo della sua decadenza. I cristiani, dedicandosi alla costruzione del cristianesimo, non puntellarono però l’impero, nonostante le speranze di Costantino.

[8] Ario sosteneva che il Verbo divino (anche incarnato in Gesù) era una creazione di Dio. Gesù quindi era uomo e non Dio. Il Concilio di Calcedonia del 451 affermò dogmaticamente che Gesù era vero uomo e vero Dio.

[9] Col Concilio di Nicea avvenne una frattura col pluralismo cristologico preniceno: una sola determinata tendenza neotestamentaria, cioè quella giovannea, divenne il criterio in base al quale si giudicava l’ortodossia cristologica del cristiano, mentre precedentemente questo giovanneismo non era che una delle tante possibilità evangeliche (Schillebeeckx E., Gesù, la storia di un vivente, ed. Queriniana, Brescia, 1976, 431, 438ss., 458).

[10] Fu Paolo, nella lettera ai Galati (Gal 3,17) a utilizzare la parola diatheke nel senso di testamento quando, passando dal piano divino a quello umano, spiegò che come il testamento non può essere revocato e modificato da nessuno all’infuori del testatore, così la promessa fatta da Dio ad Abramo (l’alleanza) è immutabile e nessuno può modificarla se non Dio.

[11] A dire il vero, nella Bibbia Dio stringe più alleanze con gli ebrei: si pensi non a quella con Abramo, ma anche a Noè, a Davide.

[12] Theological Dictionary of the New Testament, a cura di Kittel G. e Friedrich G., ed. Edrdmans Publishing Company, Grand Rapids (USA), 1993, Vol. III, 195: nella Bibbia dei LXX si parla della giustizia di Dio intesa principalmente come fedeltà all’alleanza col suo popolo.

[13] Ad esempio, in Mt 3,15 si legge: «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia». La frase non ha un gran senso per noi, ma qui Gesù invita semplicemente Giovanni Battista ad essere fedele all'alleanza, cioè a compiere la volontà di Dio.

[14] Intesa come percezione di costituire un’unità separata da ogni altro uomo, grazie non all’azione, ma al fatto di pensare e di poter pronunciare la parola “io”: cogito, ergo sum (penso, per cui esisto) diceva Cartesio. Senza “io” non vi è identità, manca l’unità, il riferimento. Per poter riconoscere l’altro è necessario percepirsi come un’unità da lui nettamente distinta (Andreoli V., La gioia di vivere, ed. Rizzoli, Milano, 2016, 71s.). Questo, per la nostra cultura, è verissimo. Va però anche fatto notare:

- che mentre in occidente l’io è soggettivo (e noi tutti siamo assai preoccupati del nostro io personale), in altre società le persone sono talmente inserite in gruppi, che l’Io viene concepito solo in termini collettivi: senza il Noi non ci può essere l’Io. Di più: anche se nessuna società è tutta di tipo individualista o collettivista, la cultura individualista occidentale è sicuramente minoritaria nel mondo, dove prevalgono le culture collettiviste (circa il 70%), nelle quali le persone sono motivate dalle norme del gruppo e le aspirazioni individuali non sono prioritarie rispetto a quelle del gruppo; s’interiorizzano cioè i valori e le aspettative del gruppo nel quale si è inseriti. Quindi, quando si studia Gesù, dare per scontata una definizione occidentale dell’Io è fuorviante, visto che in Palestina l’io personale non era considerato centrale a differenza dell’io pubblico, perché nel gruppo, in quella società, occorreva corrispondere alle aspettative degli altri. L’io personale, in quel tipo di società, andava tenuto nascosto (Rohrbaugh R., Etnocentrismo e questioni storiche, in Il nuovo Gesù storico”, a cura di Stegemann W. E al., ed. Paideia, Brescia, 2006, 273ss.). Solo in questi termini si capisce perché è tutto il clan a muoversi per andare a catturare Gesù ritenuto pazzo (Mc 3, 21), in quanto quel singolo stava rovinando la reputazione dell'io collettivo.

- che, con la definizione occidentale, si apre il delicato tema se una persona che ha perso questa consapevolezza (perché ad es. in coma irreversibile) è ancora persona o meno. Idem se si caratterizza la persona per la sua capacità di stabilire un rapporto (Daniélou J., Trinità e mistero dell'esistenza, ed. Queriniana, Brescia, 1969,  35). Con il concetto collettivista, ovviamente conta il bene della collettività.

[15] Bulgakov S.N., L'agnello di Dio, ed. Città Nuova, Roma,1990, 79. Ma con prosopon viene anche indicato il volto di Gesù che diventa sfavillante nel momento della trasfigurazione (Mt 17, 2).

[16] Ocáriz F. e al., The Mstery of Jesus Christ, ed. Four Courts Press, Dublin (Irl), 2004, 105 propospon era la maschera del teatro e più tardi il personaggio.

[17] La forza creatrice di Dio resta sempre a disposizione di ogni uomo (il Padre fa piovere sul giusto e sull’ingiusto; fa levare il sole sul buono ed il cattivo: Mt 5, 45). Dio è fedele alla sua promessa, ma l’uomo può anche rifiutare il dono. Però il dono rifiutato un giorno può essere recuperato in un giorno successivo.

[18] Ocáriz F. e al., The Mistery of Jesus Christ,  ed. Four Courts Press, Dublin (Irl), 2004, 105 propospon = persona (dal latino per-sonare). Cioè per una miglior acustica la maschera aveva un piccolo megafono per amplificare la voce (sonare).

[19] Infatti col termine ipostasi s’intende in italiano ciascuna delle persone della Trinità in quanto considerate sostanza assoluta; riferito poi a Cristo, significa unione della natura divina e umana nella sua persona.

[20] Panikkar R., Trinità ed esperienza religiosa dell'uomo, ed. Cittadella, Assisi, 1989, 86.

[21] Qualcuno ha fatto notare che, ancora oggi, il concetto di persona può essere assimilato a una maschera, perché persona è un concetto che di continuo muta (Vannini M., Oltre il cristianesimo, ed. Bompiani, Milano, 2013, 224ss.): oggi voglio questo, domani quell'altro, oggi penso questo, amo questo, domani quell'altro; una sequenza superficiale di maschere. Tutto quello che uno afferma come sé stesso è una costruzione, una maschera. Anche per lo psichiatra Vittorino Andreoli la maggior parte degli uomini recita mentendo, convincendosi a poco a poco, suggestionandosi, che la vita che danno l’impressione di vivere sia quella vera (Andreoli V., La gioia di vivere, ed. Rizzoli, Milano, 2016, 205).

[22] Dal dizionario Devoto-Oli, ed. La Monnier, Firenze, 1967: persona è “l’individuo umano.” Se si vuol dire qualcosa di diverso da individuo, occorre allora spiegare bene cosa s’intende col termine persona, e dire chiaramente che Dio non è persona nel senso del termine comunemente usato.

Dice il papa emerito che Dio si manifesta contemporaneamente come Io e come Tu. Poi, c’è anche una terza esperienza di Dio, quella dello Spirito nel nostro intimo, della presenza di Dio in noi: è una modalità attraverso cui Dio entra in noi (Ratzinger J. Introduzione al Cristianesimo, ed. Queriniana, Brescia, 2000, 154). Ma se Dio si manifesta come Io, deve essere già persona, e se il termine persona è già riservato alle tre persone della Trinità, come fa Dio – che contiene in sé queste tre persone - essere a sua volta un’ulteriore persona?

[23] Tant’è che, se ben ricordo, per Rahner l’uomo è l’essere che esercita l’intelletto ed è caratterizzato dalla tendenza verso l’infinito che va oltre il dato dell’esperienza. Per questa tendenza dell’uomo all’infinito vedasi Culot D., E se Dio fosse contrario alla religione?, vol. I, ed. Vertigo, Roma, 2014, 311ss. e 688ss.

[24] Culot D., La volontaria giurisdizione e lo straniero, ed. Giuffrè, Milano, 1995, 6s.

[25] Solo nella modernità si è riconosciuto che ogni individuo umano è titolare di diritti, cioè che ogni uomo è libero e può rivendicare dei propri diritti davanti al giudice. A lungo non tutti gli uomini erano considerati capaci di diritti, e quindi non tutti gli uomini erano persone. Giuridicamente parlando gli schiavi non avevano diritti, e a lungo neanche le donne avevano gli stessi diritti degli uomini.

Fino a pochissimi anni fa solo l’uomo era poi considerato soggetto di diritti; gli animali erano solo oggetto di diritti, e non avevano diritti. Anche in questo campo, però, qualcosa sta cambiando: ad esempio la Corte di Buenos Aires (Argentina) ha riconosciuto che l’orango, capace di avere legami affettivi, che percepisce il tempo, che impara, comunica ed è capace di trasmettere quanto ha appreso, è un soggetto non umano, ma pur sempre soggetto e non oggetto di diritti (vita, libertà, proibizione di tortura) (riportato nei quotidiani “Il fatto quotidiano” e “Repubblica” del 22.12.2014). È stato dato riconoscimento giuridico a quanto le scienze hanno ormai affermato da tempo: quanto meno nei primati esiste un grado di consapevolezza, ed è escluso che gli animali siano delle mere “macchine” viventi come si riteneva dai tempi di Aristotele fino all’Illuminismo (Andreoli V., La gioia di vivere, ed. Rizzoli, Milano, 2016, 71).

Recentemente, in Nuova Zelanda, al fiume Whanganui, sacro ai maori, era stata riconosciuta la personalità giuridica come un essere vivente (http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/03/16/nuova-zelanda-il-fiume-sacro-ai-maori-e-come-una-persona-davanti-alla-legge/3455218/). In precedenza era anche stato stabilito che la foresta Te Urewera ha una propria esclusiva identità, sì che è un essere vivente con tutti i diritti e doveri e responsabilità di una persona giuridica. Sulla stessa linea, i nativi Zuni del New Mexico (USA) cercano di far riconoscere lo status di persona giuridica al Monte Taylor, che ha attirato l'interesse di compagnie minerarie, affermando che la montagna non è una cosa inanimata, ma un essere vivente che dà vita e sostegno a molti altri esseri, per cui è importante per sé stessa, non per i metalli che nasconde nel suo ventre (Nadotti C., Quella montagna cara ai nativi è una persona giuridica, “Il Venerdì di Repubblica”, n.1495 dell’11.11.2016, 30).

E recentemente in Francia è nata l’associazione ARBRES per la tutela dei diritti degli alberi, e Alessandria Viola ha da poco pubblicato con Einaudi il libro Flower Power. Le piante e i loro diritti.

[26] Rahner K., Saggi di cristologia e di mariologia, ed. Paoline, Roma, 1965, 22 , 49 e 61: quindi, a parlare di tre persone nella Trinità viene automatico pensare a tre diversi centri di azione, il che contrasta col dogma. Come si fa a dire che c’è un unico agire, un'unica volontà? Ognuna delle tre è cosciente di sé e di essere diversa dalle altre? Ma allora, se la volontà dipendesse dalla persona, vi sarebbero nella Trinità ben tre volontà, e non una sola.

[27] Bulgakov S. N., L’agnello di Dio, ed. Città Nuova, Roma,1990, 44: se a un perfetto uomo si fosse unito un perfetto Dio avremmo avuto due entità: ma mentre la natura divina è immutabile, quella umana è mutabile. Perciò quest'ultima deve essere imbrigliata, sottomessa a quella divina, sì che non può essere perfetta e piena. Dunque la volontà umana viene esclusa, prevale quella divina, aprendo così la strada al monofisismo e/o monotelismo.