La teologia eucaristica delle pinzette

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Domani, lunedì 18 maggio 2020, nelle chiese cattoliche italiane riprenderanno le celebrazioni liturgiche con partecipazione dell’assemblea, benché ristretta – tale partecipazione - solo a coloro che numericamente potranno accedervi secondo norme restrittive in funzione anti-contagio.

Iniziamo con il rilevare, speriamo serenamente, che già questo solo dato di realtà – e cioè che soltanto alcune ed alcuni potranno partecipare alle celebrazioni eucaristiche - non sembra configurarsi, a livello istituzionale, come questione di particolare rilevanza pastorale, su cui riflettere.

Così dev’essere, così sarà. Tutti non si può, ma meglio pochi che nessuno. Prima alcuni, poi altri, alcuni forse mai. Se una messa non sarà sufficiente, le messe saranno moltiplicate. Un tempo si insegnava “meno messe, più messa”, ma ora è un altro tempo.

Viene da farsi una prima domanda: è lecito un approccio di questo tipo all’interno della comunità ecclesiale? Davvero meglio pochi, necessariamente scelti, che nessuno?

Davvero la realtà, sanitaria e non religiosa, impone una conformazione, di per sé non necessitata né necessaria, perché venga preservata la fede che altrimenti, non attuando simile conformazione – cioè, per essere chiari, non consentendo ancora celebrazioni comunitarie nelle chiese -, verrebbe messa in pericolo? Su cosa si fonda dunque la fede ecclesiale?

Ha affermato il Papa il 17 aprile all’omelia della Messa quotidiana delle ore 7 (http://www.vatican.va/content/francesco/it/cotidie/2020/documents/papa-francesco-cotidie_20200417_lafamiliarita-conil-signore.html): «(…) qualcuno mi ha fatto riflettere sul pericolo che questo momento che stiamo vivendo, questa pandemia che ha fatto che tutti ci comunicassimo anche religiosamente attraverso i media, attraverso i mezzi di comunicazione, anche questa Messa, siamo tutti comunicanti, ma non insieme, spiritualmente insieme. Il popolo è piccolo. C’è un grande popolo: stiamo insieme, ma non insieme. Anche il Sacramento: oggi ce l’avete, l’Eucaristia, ma la gente che è collegata con noi, soltanto la comunione spirituale. E questa non è la Chiesa: questa è la Chiesa di una situazione difficile, che il Signore permette, ma l’ideale della Chiesa è sempre con il popolo e con i sacramenti. Sempre.».

“Questa non è la Chiesa”. Ma il Sacramento: che cos’è? È un evento, un’esperienza, un “avvenimento”, non una “cosa”, un “oggetto”.

La presenza sacramentale di Cristo, come ben noto, è dinamica, non statica. La “materia”, come insegna niente poco di meno che la Scolastica, sta dentro una “forma” che la significa, le dà un senso, e quella forma, appartenente al dinamismo dei simboli, ha un indispensabile contesto comunitario, anzi la stessa identità formale – per così dire – del Sacramento è comunitaria, poiché è la Chiesa a celebrarlo, sempre, anche quando accade, com’è accaduto in questi mesi, nella solitudine del ministro ordinato. Il Sacramento non può vivere al di fuori della liturgia, la liturgia non può essere mai individuale e non può mai esaurirsi in un atto. È addirittura il codice di diritto canonico, al can. 927, a disporre, con tono imperativo: “Nefas est, urgente etiam extrema necessitate, alteram materiam sine altera, aut etiam utramque extra eucharisticam celebrationem, consecrare.” “Non è assolutamente lecito, anche nel caso di urgente estrema necessità, consacrare una materia senza l’altra o anche l’una e l’altra, fuori della celebrazione eucaristica.”

Fuori della celebrazione eucaristica non può darsi alcuna consacrazione delle specie, del pane e del vino. La norma è perentoria e non ammette deroghe neppure nel caso di urgente estrema necessità. Che vuol dire? Vuol dire che, per appunto, anche il momento supremo della consacrazione non può essere avulso dal contesto celebrativo, dal suo necessario inserimento liturgico, non può essere racchiuso soltanto e semplicemente in un gesto e in una parola, ciò che potrebbe avvicinare quel gesto e quella parola alla magia piuttosto che al simbolo.

Proviamo ora a leggere due passaggi di disposizioni episcopali per le celebrazioni eucaristiche a partire da domani.

Iniziamo dalle “Indicazioni per le celebrazioni liturgiche con il popolo” dell’Ufficio Liturgico Diocesano dell’Arcidiocesi di Firenze datate 11 maggio 2020 (http://www.diocesifirenze.it/wp-content/uploads/sites/2/2020/05/Applicazione-Protocollo-07.05.20.pdf), al n. 31): «chi distribuisce l’Eucaristia, con una delle due mani prende la pisside/patena con le particole e con l’altra tocca esclusivamente il corpo di Cristo stando attento a deporlo nella mano del fedele senza alcun contatto fisico con essa; è bene invitare i fedeli a tenere il palmo della mano ben aperto; è assolutamente vietato l’uso di pinzette;».

Il passaggio “è assolutamente vietato l’uso di pinzette” è proprio sottolineato nel testo originale delle “Indicazioni” fiorentine, come si può agevolmente verificare.

Leggiamo adesso le “Disposizioni per la ripresa delle celebrazioni dal 18 maggio” della Diocesi di Trieste, a firma del Vescovo, al n. 4, secondo alinea (https://www.diocesi.trieste.it/2020/05/15/disposizioni-per-la-ripresa-delle-celebrazioni-dal-18-maggio/): «la distribuzione della Santa Comunione avvenga dopo che il celebrante, il diacono e il ministro straordinario avranno curato l’igiene delle loro mani e indossato guanti monouso; gli stessi – indossando la mascherina, avendo massima attenzione a coprirsi naso e bocca e mantenendo un’adeguata distanza di sicurezza – abbiano cura di offrire l’ostia con una pinzetta, fornita dalla Curia, senza venire a contatto con le mani dei fedeli. L’uso della pinzetta, pur non prevista dal Protocollo sopra citato, è reso obbligatorio in Diocesi perché offre una garanzia in più sul piano sanitario e rispetta in modo migliore la santa Eucaristia. La pinzetta dovrà essere igienizzata alla fine della celebrazione unitamente agli altri oggetti sacri;».

A Firenze le pinzette sono “assolutamente” vietate; a Trieste sono obbligatorie. Due disposizioni opposte.

Ma qui non si tratta affatto di quisquilie insignificanti, tutto al contrario. Ogni gesto, ogni suppellettile liturgica, ogni silenzio, ogni parola, nel contesto celebrativo, hanno un preciso significato, come si diceva, appartengono ad una precisa visione antropologica, coinvolgono una simbologia che parla al cuore ed alla mente, che provoca, che affonda anche nel meta-razionale, nell’emotivo ad esempio, senza mai scivolare nell’irrazionale.

Pure la comunione eucaristica amministrata al di fuori della messa, o la stessa reposizione e conservazione delle specie nel tabernacolo (la cosiddetta “custodia eucaristica”), presuppone dunque l’avvenuta celebrazione e la consacrazione al suo interno, non al di fuori di essa, “nefas est”.

La diffusione via streaming delle celebrazioni eucaristiche ha portato a quel fenomeno che proprio il Papa ha denominato, con un neologismo, “viralizzazione” (http://www.vatican.va/content/francesco/it/cotidie/2020/documents/papa-francesco-cotidie_20200417_lafamiliarita-conil-signore.html): «attento a non viralizzare la Chiesa, a non viralizzare i sacramenti, a non viralizzare il popolo di Dio. La Chiesa, i sacramenti, il popolo di Dio sono concreti.»

La “viralizzazione” è l’espunzione dall’atto visivo dell’evento sacramentale nella sua totalità antropologica, simbolica, liturgica. Il vedere esaurisce il partecipare: non c’è tatto, non c’è reciprocità verbale, comunicativa, non c’è dialogo, non c’è gesto di chi guarda. La “viralizzazione” cosifica il Sacramento, lo rende oggetto da guardare.

E ciò accade, con la medesima articolazione concettuale benché magari inconsapevole, nella riduzione della celebrazione eucaristica alla ricezione delle specie.

Le pinzette, prive in sé di qualunque valenza simbolica ed invece assurte, nelle disposizioni triestine, a modalità di “miglior rispetto verso la santa Eucaristia”, concentrano oggettivamente l’evento celebrativo nell’assunzione del pane eucaristico. Come se le due disposizioni diocesane opposte, di Firenze e di Trieste, veicolassero due teologie opposte. Si badi bene: “come se”, non già nel senso che “così è”. C’è un rischio, una realtà di effettiva criticità non ancora e speriamo mai. Ma la contraddizione è grave. Se la pinzetta “rispetta in modo migliore la santa Eucaristia” perché viene “assolutamente vietata” a Firenze? Un “divieto assoluto” coinvolge un apprezzamento valoriale, tanto più nella liturgia di un’intera Chiesa locale.

Il simbolismo liturgico è questione molto delicata, che unisce storia, tradizione, e linguaggio presente, attuale, linguaggio proprio, tuttavia, non posticcio, non imposto, come invece accade con i “linguaggi” comportamentali che il contagio impone. Il Card. Bassetti, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, si è espresso così: «Le mascherine, i contatti ridotti possono essere letti simbolicamente, come un invito a riscoprire la forza dello sguardo.» (https://www.chiesacattolica.it/ritorniamo-a-manifestare-il-nostro-essere-comunita/). Con ogni rispetto e sincera deferenza, appare un po’ difficile pensare ad un efficace simbolismo delle mascherine che non corra il rischio di ricadere, come per le pinzette, in una resezione del singolo dato liturgico dal senso del suo contesto complessivo, dove la celebrazione eucaristica invita, tutto al contrario, a guardarsi nel volto, a toccare, a far sì che lo sguardo si faccia corpo. Certo, vi è nelle parole del Card. Bassetti il grande anelito, condiviso da un intero popolo, di speranza, di invito alla gioia che però, detto sempre in totale, assoluta, modestia, richiede forse primariamente una lettura sapienziale del momento contingente, un dire, significare, che cosa questo tempo, nei suoi limiti, con le sue costrizioni, con le sue urgenze e le sue priorità, stia dicendo alla stessa Chiesa e non solo alla comunità civile.

Appare così sullo sfondo un altro aspetto, tutt’ora irrisolto, nella storia della Chiesa cattolica italiana: il primato della Parola di Dio a prescindere dalla pratica sacramentale. Va riconosciuto, sempre con la massima serenità: l’appello alla lettura ed alla meditazione profonda della Parola di Dio è risultato messo in secondo piano, in questo tempo di epidemia, a fronte della preoccupazione per la celebrazione sacramentale. E l’obiezione che l’approccio biblico sarebbe troppo complicato per farlo diventare popolare sconta esattamente una desuetudine assai diffusa, al limite del vero e proprio analfabetismo biblico, proprio nella frequentazione di quei testi che costituiscono il fondamento dell’identità comunitaria cristiana. Risuona il n. 21 di Dei Verbum: «La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della parola di Dio che del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli.»

Da domani, lunedì 18 maggio 2020, la Chiesa non riprende a vivere, come se fosse morta in questi due mesi, ma dovrà ancora interrogarsi su cosa voglia dire credere nel Cristo presente, negli spazi delle navate ma anche fuori dei templi. In quelle “periferie esistenziali” che prendere con le pinze sarebbe ostinarsi a non penetrarvi, mentre è proprio fuori del luogo sacro che il mondo attende parole di speranza.

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro